Borghi Mediterranei Antichi

SCOLACIUM

a cura di Isabella Mecarelli

A pochi metri dalla costa ionica, nel golfo che prende nome dal borgo di Squillace, ben visibile sull’alto della montagna a chi naviga solcando le acque trasparenti del Mar Ionio che conservano ancora tracce degli antichi popoli, sorge un sito archeologico poco noto, perché valorizzato solo agli inizi di questo millennio.

E’ Scolacium, la città romana erede della colonia greca di Skylletion e antenata della posteriore Squillace. Ripercorrere le vicende storiche di quest’area della Calabria consente di risalire alle origini, di ritrovare le nostre radici mediterranee, attraverso la successione di popoli e culture, di eventi felici o catastrofici che l’hanno contraddistinta.Il luogo, citato anche da Strabone, il geografo greco che con la sua opera preziosa ha consegnato all’umanità la memoria delle antiche genti mediterranee, fu fra i centri più vitali della Magna Grecia. Abitato, come risulta dagli scavi, fin dal paleolitico, fu scelto, secondo la leggenda, da reduci dalla guerra di Troia, ma la storia riporta che furono cittadini ateniesi o forse crotonati a insediarvi una colonia, la cui fondazione risale al VI-V secolo a.C.

La posizione era strategica sia per la prossimità dell’istmo calabro, che la rendeva nodo di comunicazione terrestre, sia perché adatta a controllare facilmente le rotte commerciali del Mediterraneo. Purtroppo, della città greca non sono rimasti che scarsissimi avanzi, mentre della colonia romana successiva sono venuti alla luce, a pochi metri dal mare, importanti resti. Il sito occupa un pendio che sale dolcemente verso la dorsale silana, una manciata di monumenti incastonati in un mantello verde, un ricco folto uliveto, coltivato da proprietari che si sono succeduti nel corso di secoli, di cui è visitabile lo storico Frantoio, costruito nel 1934 dalla famiglia Mazza. Si tratta di un importante esempio di frantoio elettrico, un pezzo di archeologia industriale degli inizi del ‘900. La colonia romana, dedotta nel 123 a. C. da Caio Gracco, in seguito fu rifondata nel 96- 98 d. C. dall’imperatore Nerva, che operò abbellimenti rinominandola Colonia Minervia Nervia Augusta Scolacium.

Nella tarda romanità spicca anche un cittadino illustre, Cassiodoro, attivo nel VI secolo, la cui memoria è rimasta ben viva ancora oggi nella zona. Originario di Squillace, si distinse per la sua profonda cultura, tanto da divenire ministro di Teodorico, il re degli Ostrogoti, allora dominatori in Italia. Tornato ad abitare nella sua città, fondò conventi quali il Vivarium, di cui purtroppo si sono perse le tracce, perché non è stato ancora identificato in nessun luogo della zona, tuttavia il suo lascito più importante è ancora ben vivo, in quanto fu uno dei monasteri più attivi che salvarono, lasciandolo in eredità ai posteri, il ricco patrimonio culturale del mondo classico, greco e latino.

Un altro luogo, ben più prosaico, conserva ancora la memoria del letterato: le vasche di Cassiodoro, bacini sottomarini, fatti da lui costruire in prossimità della costa per servire da vivai per i pesci, affinché fornissero carni fresche al convento. Chi si immerge nella zona può nuotare in quegli anfratti, ormai informi, corrosi dal tempo e ammantati di alghe. Entrando nel sito della romana Scolacium, si resta abbagliati dalla magnificenza di un rudere imponente che si può avvistare già dall’esterno, transitando per la statale. E’ la basilica normanna di Santa Maria della Roccella, cosiddetta dal termine in uso nel Medioevo per indicare una fortezza, che fu assunto poi, alla fine dell’XI secolo, dal convento basiliano che vi si insediò. L’edificio, eretto in laterizi, non è in rovina, come potrebbe sembrare, ma è rimasto incompiuto. E come succede per altre chiese giunte a noi in forma di ruderi, ricordo fra tutte San Galgano in Toscana, la bellezza ne è sì deturpata, ma non la suggestione. I resti imponenti di questa basilica, voluta dai Normanni, attirarono nel corso dei secoli viaggiatori e studiosi, infatti costituisce un mirabile esempio di architettura normanna e romanica in Italia meridionale, per la cui erezione furono utilizzati, come era usanza nel passato, i materiali delle preesistenti strutture di età romana.

La pianta è a croce latina e presenta una grande abside alleggerita da ampi finestroni. Il monastero, cui doveva essere annessa, non fu mai realizzato. Il complesso abbandonato fu poi usato nel Medioevo come fortificazione. Oltrepassata la basilica di pochi metri, attraversando un tratto del secolare uliveto, si arriva al Foro, la cui vastità fa capire l’importanza assunta dalla colonia. La piazza era pavimentata con un sistema unico nel suo genere, non essendo ricoperta secondo la consuetudine da lastre di pietra o marmo, ma da mattoni. Il lato verso la montagna è attraversato dal decumanus maximus, oltre il quale un rampa conduce agli scarsi resti del tempio, il Capitolium. I portici che si aprivano sui lati lunghi ospitavano le tabernae che separavano il Foro dagli altri edifici pubblici. I materiali del sito furono saccheggiati e utilizzati per nuove costruzioni nel corso del Medioevo e anche oltre, fino al ‘900.

L’altro edificio spettacolare è il teatro che, diversamente dall’uso romano, ha la singolarità di appoggiarsi nella cavea alla montagna, alla maniera dei teatri greci. E’ ben visibile oltre l’orchestra, pavimentata con lastre di calcare locale, la base della scena.I resti della parte muraria mostrano ancora l’opus reticulatum. Il tetto della scena era decorato con antefisse a lastre a palmette in terracotta. Quel che è rimasto delle decorazioni in marmo e delle statue che lo abbellivano, si trova esposto nell’annesso museo. Salendo più oltre sulla collina si raggiungono altri resti, meno conservati, ma altamente suggestivi per l’ambiente che li circonda: l’anfiteatro, di cui si intravedono appena le fondamenta, e la necropoli bizantina, costituita da alcune tombe scavate in un’area a dominio del panorama.

Contemplare da lassù la distesa degli ulivi che digrada dolcemente verso la linea costiera, abbracciando come un vasto fiume in corsa le isole costituite dal teatro e dalla chiesa normanna, è un’esperienza unica. All’orizzonte, ben netta a rimarcare il confine fra cielo e terra, si profila la striscia azzurra dello Ionio a ricordare che è stato il mare a vivificare queste terre.




LE CASTELLA, UN BORGO IONICO DI ANTICHE TESTIMONIANZE

di Isabella Mecarelli

Sul litorale ionico, presso Crotone, dove la costa si protende verso l’oriente, si distinguono tre punte del territorio. Sono sentinelle avanzate che nel corso dei secoli hanno affrontato varie ondate di stranieri. I primi abitanti, gli Iapigi, popolo di origine e provenienza discusse, nel senso che c’è chi ipotizza provengano dall’Illiria, chi da Cartagine, hanno dato inizio alla storia di questa terra, lasciando il loro nome ai tre promontori detti appunto da loro Iapigi. E’ fra le zone più celebri della Magna Grecia, dove i coloni greci sostarono e, attratti dalla bellezza della natura, si stabilirono in una località vicina, fondando la colonia di Crotone.

I crotoniati sfruttarono le cave di tufo della zona per le loro costruzioni, come si nota dal ritrovamento dei basamenti delle mura, ormai sommerse dal mare, intorno al poderoso forte sorto su una piccola isola collegata alla terraferma da un sottile istmo, ora meta di turisti attratti dall’incantevole quadro che offre qui la natura unitamente alla portentosa costruzione.

Si tratta di Le Castella di Isola Capo Rizzuto, un nome strano, la cui etimologia è collegata a millenni di storia. Perché al plurale?, per esempio, uno si domanda. Perché in effetti altri castelli su isolette vicine sorgevano attorno, poi distrutti dai terremoti e dall’erosione. Ma un’altra ipotesi sull’origine del nome, fa derivare il suo significato da Castra Hannibalis, accampamenti di Annibale, che qui si insediò durante la seconda guerra punica, prima di ripartire definitivamente sconfitto per Cartagine. Seguì l’assorbimento da parte di Roma.

Poi il borgo marinaro subì molte vicissitudini nel corso del Medioevo. Essendo sulla rotta delle conquiste arabe, non poterono mancare gli assalti dei saraceni che vi si insediarono nel IX secolo.
Partiti gli arabi, sopraggiunsero in seguito gli aragonesi che nel ‘500 rafforzarono la fortezza, costruendo la massiccia torre cilindrica che si erge dal maschio.
Ma i maomettani, stavolta turchi, tornarono più volte; vari corsari assaltarono il forte nel corso del XVI secolo, saccheggiarono la zona e ne trassero prigionieri cristiani, destinati alla schiavitù o al riscatto. Fra questi il celebre pirata algerino, il Barbarossa e l’altro temibile corsaro Dragut.
Si sa che quando questi predatori conquistavano un territorio, facevano di tutto non solo per sottometterne gli abitanti, ma anche per convincerli alla conversione. Quando questa si presentava altamente conveniente per l’opportunità che offriva di far carriera, molti cristiani aderivano.

Fra questi ci fu un abitante del borgo di le Castella che, preso prigioniero dai Turchi, riuscì così bene a sfruttare la sua conversione da divenire, grazie alle sue gesta contro i suoi ex connazionali e correligionari, addirittura pascià. Si tratta di Giovan Dionigi Galeni Occhiali, detto Uccialli, da noi conosciuto come Alì Pascià. Costui, divenuto ammiraglio della flotta turca, fu l’unico superstite fra i comandanti turchi della battaglia di Lepanto del 1571, e in seguito, dai suoi covi di Tripoli e Tunisi, continuò bellamente la sua guerra di corsa.
Adesso il suo busto troneggia in una piazza del borgo antistante il mare e un altro monumento, più nell’interno, lo rappresenta su una nave da corsa. Non solo, a lui è dedicata una via centrale. Si vede che i suoi concittadini ne vanno fieri…

16 luglio 2020