I flussi migratori
Le politiche di gestione dell’immigrazione
di Patrizia Audenino*
Nell’affrontare la questione politica di come gestire i rapporti con le popolazioni immigrate, la posizione più antica è quella dell’assimilazionismo: gli immigrati, per il loro stesso bene, dovrebbero al più presto abbandonare retaggi e legami tradizionali, abbracciando la lingua, la mentalità, gli stili di vita della popolazione maggioritaria. Oggi questa posizione riaffiora in forme di neo-assimilazionismo politico: in diversi paesi si richiede agli immigrati la conoscenza della lingua e di elementi della storia e delle leggi della società riceventi prima di ammetterli sul territorio, o al momento del rinnovo del loro permesso di soggiorno. Vanno nella stessa direzione i ‘contratti di integrazione’, in cui si chiede ai nuovi residenti di sottoscrivere una serie di impegni di lealtà nei confronti della società ricevente e delle sue istituzioni.Sono invece oggi in declino le posizioni multiculturaliste, che prevalevano nel dibattito pubblico negli ultimi decenni del secolo scorso. Si tratta di un ampio ventaglio di orientamenti, più moderati o più radicali. In comune hanno l’idea di un riconoscimento positivo e spesso anche di una promozione attiva delle culture minoritarie, concedendo ad esse spazio sia in sedi istituzionali, sia nella società civile, soprattutto mediante il sostegno ad associazioni e istituzioni promosse dagli immigrati stessi.
Il ragionamento era: per integrare gli individui, occorre che le appartenenze culturali e le aggregazioni comunitarie a cui fanno riferimento siano a loro volta rispettate e valorizzate. Oggi invece il multiculturalismo è sotto accusa, perché ritenuto foriero di segmentazione della società in comunità non comunicanti (‘parallele’, si dice nel Regno Unito). Nei fatti tuttavia, a livello di politiche urbane, come nel passato gli orientamenti multiculturalisti si sono tradotti in politiche effettive soltanto in alcune circoscritte aree di intervento (espressioni artistiche e musicali, sostegno alle associazioni, incarichi pubblici a mediatori culturali ed esponenti delle minoranze), ora la presa di distanza dal multiculturalismo non pregiudica la continuità della maggior parte delle politiche del settore. Il termine diversity tende a prendere il posto del multiculturalismo in disgrazia, ma apparentemente senza molta differenza nei contenuti effettivi.Un altro concetto molto utilizzato, variamente interpretato e spesso criticato è quello di integrazione.
Può essere definito in termini molto semplici e volutamente aperti: il processo del divenire una parte accettata della società. La definizione sottolinea il carattere processuale dell’integrazione; non specifica i requisiti richiesti; lascia spazio a diversi possibili risultati intermedi e finali; chiama in causa la società ricevente, che svolge un ruolo decisivo nel definire le modalità e i gradi di integrazione dei nuovi residenti. L’integrazione così intesa si distingue pertanto dall’assimilazionismo vecchia maniera, con cui molti critici tendono a confonderla.La presa d’atto dell’insediamento stabile di popolazioni immigrate ha dato invece origine all’espressione società multietnica. Con questo concetto non s’intende un’opzione politica di accettazione o di promozione della diversità culturale generata dall’immigrazione, ma la semplice constatazione che la maggior parte delle società sviluppate ospitano al loro interno in varia misura popolazioni di origine diversa.Fonte:
*Patrizia Audenino, da Enciclopedia Treccani
La guerra Siriana
Dalla rivolta contro Assad al confronto tra potenze: nove anni di guerra in Siria
Carta di Laura Canali – 2020. 13/03/2020
Un bilancio del conflitto nel paese mediorientale. Dalle proteste antigovernative del 2011 alle dinamiche geopolitiche odierne all’ombra della minaccia del coronavirus. Il fattore interno resta fondamentale.
di Lorenzo Trombetta
In questi giorni difficili per il nostro paese, questo articolo è leggibile gratuitamente da tutti. Più che per l’anniversario di nove anni di violenze o per il dramma dei seicentomila bambini e duecentomila donne sfollati nella regione nord-occidentale di Idlib, la Siria è in questi giorni sotto i riflettori per essere uno dei pochi paesi del Mediterraneo (assieme alla Libia, al Montenegro e alla Macedonia del Nord) dove non è stato ufficialmente registrato nessun caso di positività al Covid-19.
È vero che la frammentazione politico-militare causata dalla guerra limita da anni la possibilità dei siriani di spostarsi da una regione all’altra, perchè bloccati da check-point militari, trincee, strade interrotte e limitati da voli aerei civili inesistenti e da una rete ferroviaria di fatto in disuso; però è indubbio che da anni la Siria è percorsa da milioni di sfollati in fuga dalle varie offensive militari.
Soprattutto, la Siria ai tempi del coronavirus non è certo un paese sigillato, isolato dall’esterno. Il nordovest e parte del nordest sono una propaggine della Turchia. Le zone controllate dalle forze curde sono formalmente separate dal Kurdistan iracheno tramite il valico (ora chiuso) di Semalka-Fishkhabur, ma rimangono i collegamenti, soprattutto di militari e miliziani, con il resto della Siria e il vicino Iraq.
Carta di Laura Canali – 2020
Le aree governative sono attraversate da miliziani provenienti da Iraq, Iran e Libano. I voli aerei dalla Repubblica Islamica alla Siria sono stati sospesi solo per alcuni giorni. Se Beirut ha deciso di chiudere il confine con Damasco, per i combattenti di Hezbollah impegnati nella Siria centrale, meridionale e settentrionale ci sono ampie deroghe. Poi ci sono i pellegrini sciiti, soprattutto iraniani e iracheni, diretti ai luoghi santi a Damasco e dintorni. Nei giorni scorsi un grave incidente stradale ne ha uccisi a decine. I funerali si sono svolti a Karbala, in Iraq, in una cerimonia pubblica a cui hanno partecipato centinaia di persone. In assenza di un sistema sanitario unificato in grado di far fronte alla pandemia, si attende che la natura faccia il suo corso.
In Siria oggi ci sono circa sei milioni di sfollati che, secondo l’Onu, hanno urgente bisogno di aiuto umanitario. I luoghi più vulnerabili sono i campi informali del nordovest, dove sono ammassati centinaia di migliaia di civili. Ma anche se nella capitale del paese – mai veramente coinvolta nel conflitto – i servizi essenziali sono erogati, pur scarsi e razionati, gli ospedali non sono affatto attrezzati per rispondere a una crisi sanitaria. Non lo erano nemmeno prima del 2011.
Il 2011, appunto. L’anno cruciale, almeno nella cronologia convenzionale della guerra di Siria. Come tutte le storie, anche questa andrebbe raccontata nella sua interezza, senza commettere l’errore di pensare che prima del marzo di nove anni fa nel paese non ci fossero i presupposti per l’esplosione della violenza.
Nel corso dei decenni i territori siriani avevano manifestato un’articolata serie di questioni politiche e socio-economiche legate non solo alla lotta per il potere centrale ma anche all’incontro/scontro tra attori stranieri e alle negoziazioni continue tra élite locali, autorità nazionali e influenze (o interferenze) estere.
Le proteste del 2011 non nascono dal nulla. Sono frutto di un’interazione continua – non riconducibile a teorie del complotto – tra dinamiche interne ed esterne, tra fattori meramente economici e altri più politici, conditi da confessionalismi religiosi e divisioni etniche, influenzati dalle diverse personalità degli attori chiave. Dentro e fuori la Siria ma anche dentro e fuori il processo di decisione politica a Damasco.
Tra l’autunno del 2011 e l’inizio del 2012 inizia il declino degli attori locali e l’ascesa degli attori esterni. Le comunità siriane che si sono rivoltate nel 2011 hanno avuto per un lasso ristretto di tempo un potere d’azione quasi assoluto. Analogamente, anche Damasco ha avuto a disposizione un breve spazio temporale per tentare di resistere. Poi, dal 2013, sono entrati in campo gli attori esterni. Sebbene la retorica degli attori locali sia rimasta – in parte fino a oggi – ancorata al tema dello scontro “nazionale”, declinato a seconda delle diverse percezioni ed esigenze di propaganda, ciascuna potenza regionale e internazionale ha visto nella guerra siriana l’occasione per rafforzarsi, espandersi, contrastare i rispettivi rivali, proporsi come arbitro e mediatore per accrescere il proprio peso nella regione e su altri teatri. Tra l’attentato contro i vertici dell’apparato di sicurezza a Damasco del luglio 2012 e gli inizi del 2013 si è registrato il culmine dell’espansione delle forze locali e regionali, che scommettevano sulla sconfitta della famiglia Assad, al potere dal 1970. Anche se le offensive militari lealiste avevano già dato i loro risultati nella primavera del 2013 (Qusayr su tutte), è la “crisi chimica” dell’agosto-settembre 2013 a costituire il punto di svolta: grazie al decisivo sostegno diplomatico e politico di Mosca, per la prima volta il raìs di Damasco viene rilanciato come attore-interlocutore per un’eventuale “pace”.
Da quel momento in poi il conflitto registra una graduale inversione di tendenza, che viene accelerata nel 2014 con l’emergere dell’insurrezione armata jihadista incarnata nello “Stato Islamico” (Isis) e poi nel 2015 con due eventi altrettanto decisivi: la “crisi dei migranti” in estate e l’intervento militare russo nella Siria occidentale in autunno.
La fase successiva è costellata di iniziative sempre più spesso decise da attori non siriani e portate avanti da attori locali associati ai vari fronti stranieri in competizione. Nel 2016 la Turchia interviene direttamente a nord di Aleppo (“Scudo dell’Eufrate”), mentre i quartieri orientali della metropoli siriana rientrano, dopo mesi di assedio, sotto il formale controllo lealista, con un’accresciuta influenza russa e iraniana. La coalizione anti-Isis a guida Usa dà intanto un appoggio decisivo alle forze curde nel nordest (la “campagna di Raqqa”, conclusasi a metà del 2017).
Anche gli eventi più recenti indicano una predominanza delle iniziative di attori non siriani rispetto a quelle intraprese dalle comunità politiche ed economiche autoctone. La campagna anti-Isis nella piana di Baghuz, mai veramente conclusasi; l’offensiva turca nel nordest in funzione anticurda; l’inasprimento del confronto diretto tra Israele e Iran sul territorio siriano; l’avvio dei lavori del comitato costituzionale. Sebbene si tratti di processi militari, diplomatici e politici che si svolgono in Siria e che vedono direttamente coinvolti siriani di varie affiliazioni, sono determinati in maniera decisiva da decisioni prese in un contesto non siriano.
Tutto questo non vuol dire che i siriani siano soltanto ostaggi di una dinamica eterodiretta, attori completamente passivi alla mercé di poteri stranieri. Gli attori autoctoni sono senza dubbio gregari e non protagonisti nel processo di decisione politica, ma le loro azioni e la loro retorica svolgono un ruolo comunque rilevante nell’influenzare la dinamica del conflitto.
Gli attori che agiscono sul terreno e si muovono politicamente ed economicamente sono molteplici: vecchi e nuovi signori della guerra; potentati economici emergenti o in declino; le istituzioni centrali delle tre macrogeografie politico-militari (Damasco, capitale delle aree governative; Qamishli, capoluogo della regione curda; Gaziantep, nel sud della Turchia, di fatto capitale del nordovest controllato da Ankara); la miriade di autorità locali sparse in queste tre grandi “Sirie”; i poteri informali (familiari, tribali, imprenditoriali, religiosi). Questi attori si scontrano e negoziano non solo “orizzontalmente” fra loro, ma anche “verticalmente”, interagendo con i rappresentanti in loco, con gli emissari o gli “inviati” dei vari poteri stranieri.
Comprendere questa complessa e stratificata dinamica di interazioni è fondamentale per tentare di capire come si muoverà la Siria sulle questioni cruciali: la sorte della diaspora (5 milioni e mezzo di persone) e degli sfollati interni (6 milioni); la ricostruzione infrastrutturale e il recupero dei legami fondamentali per il ripristino del tessuto sociale; la stabilizzazione, non intesa come “soffocamento delle insurrezioni” ma come strumento sostenibile per una pacificazione interna, basata su una più equa ripartizione sia delle risorse del territorio sia della partecipazione − a livello locale e nazionale − al processo decisionale.
Carta di Laura Canali – 2020
Fonte articolo: limesonline.com