I Popoli del Mare
di Giampiero Lovelli*
I Popoli del Mare potrebbero essere stati, in base a congetture, una confederazione di pirati originari dell’Europa meridionale, in modo particolare dell’Egeo, che, viaggiando su imbarcazioni alla volta del Mar Mediterraneo orientale al termine dell’età del bronzo (3.500 a.C.–1200 a.C.), occuparono con la forza l’Anatolia, la Siria, la Palestina, Cipro e l’Egitto. Sebbene la loro provenienza e le loro vicende restino in misura notevole poco conosciute, esistono documenti egizi che parlano dei Popoli del Mare, redatti nel corso della tarda XIX dinastia e specialmente nel corso dell’ottavo anno in cui fu a capo del Paese delle Due Terre Ramses III (Tebe, pressappoco 1218/1217 a.C.–Tebe, aprile 1155 a.C., XX dinastia), quando cercarono di impadronirsi dell’Egitto. Nella Grande iscrizione di Karnak il sovrano egiziano Merenptah (…-2 maggio 1203 a.C.[1], XIX dinastia) cita i popoli invasori del mare[2].
Piccole lastre egee in lineare B[3] di Pýlos[4], della fase finale dell’età del bronzo, palesano la diffusione, in quell’epoca storica, di formazioni irregolari di mercenari e spostamenti di genti da un luogo a un altro (diversi studiosi si sono domandati quali fossero le motivazioni). Nonostante ciò l’identità certa di questi popoli del mare rimane per gli archeologi fino ad oggi un mistero. Diversi elementi fanno supporre, al contrario, che per gli Egiziani l’identità e gli scopi di questi popoli non fossero ignoti. Difatti un buon numero di loro appartenenti aveva tentato di essere reclutato dagli Egizi, o aveva comunque mantenuto rapporti ufficiali con il regno di Kemet, almeno fino dalla media età del bronzo. Ad esempio diversi popoli del mare, come gli Shardana[5], vennero usati come fanti dal monarca egiziano Ramses II (1303 a.C.–1212 a.C., XIX dinastia)[6], che li pagava lautamente.
TESTIMONIANZE DI UN PASSATO LONTANO
Il primo riferimento a queste popolazioni è presente nell’obelisco di Biblo[7], risalente dal 2000 al 1700 a.C., nel quale è riportato correttamente il nome di Kukunnis figlio di Lukka. I Lukka compaiono di nuovo, insieme agli Shardana, dopo un certo periodo di tempo nelle lettere di Amarna (probabilmente di Amenofi III o di suo figlio Akhenaton) circa alla metà del XIV secolo a.C. Le missive in un punto preciso raccontano la vicenda di uno Shardana, probabilmente un milite traditore al servizio di chi lo pagava, e in un ulteriore punto racconta di tre Shardana uccisi da una sentinella egiziana. Anche i Dauna vengono nominati in un’altra missiva, precisamente dove si fa riferimento alla dipartita del loro sovrano. Si trova inoltre che i Lukka vengono incolpati, insieme ai Ciprioti, di aggredire gli Egizi, mentre gli stessi Ciprioti sostenevano che ciò non corrispondesse a verità ma che, al contrario, anche i loro insediamenti abitativi fossero saccheggiati dai Lukka.
Nel secondo anno in cui Ramses II diresse ed amministrò lo Stato egizio, il faraone sconfisse gli Shardana nel delta del Nilo e imprigionò diversi predoni del mare. Un breve testo scritto di Ramses in una tavola lapidea di Tani[8], infissa in posizione verticale nel terreno, ricorda le scorrerie degli Shardana e il loro imprigionamento, e attesta i duraturi pericoli che questi pirati procuravano al litorale marino egiziano: «i ribelli Shardana che nessuno ha mai saputo come combattere, arrivarono dal centro del mare navigando arditamente con le loro navi da guerra, nessuno è mai riuscito a resistergli»[9]. Gli Shardana furono in seguito inseriti nelle forze armate egizie e utilizzati nella zona di confine con gli Ittiti, partecipando di conseguenza allo scontro armato di Qadesh (Kadesh). Il più importante avvenimento, durante la conduzione politica e amministrativa del monarca egiziano Merenptah, fu il combattimento a Perire[10] contro la confederazione denominata dei Nove Archi, nel delta occidentale del Nilo, tra il quinto ed il sesto anno nei quali fu a capo del Paese delle Due Terre. La razzia eseguita dalla confederazione sopramenzionata fu tanto dolorosa che l’area venne abbandonata, divenendo un luogo perlopiù incolto in cui il bestiame brucava l’erba spontanea.
Merenptah narra il conflitto in quattro brevi testi scritti: la Grande iscrizione di Karnak, che descrive lo scontro armato, l’obelisco del Cairo, la stele di Atribis, nella quale si riesce a leggere una esposizione sintetica dell’iscrizione di Karnak, e una tavola lapidea, infissa in posizione verticale nel terreno, scoperta a Tebe, la stele di Merenptah, che sottolinea la situazione di non belligeranza in seguito al successo militare. I brevi testi scritti riportano che nella confederazione dei Nove Archi, formata parzialmente da tribù libiche che avevano la direzione delle manovre militari, vi era una notevole presenza di popoli del mare (gli Ekwesh, i Teresh, i Lukka, gli Shardana e gli Shekelesh). Il sovrano egizio sostiene che ebbe la meglio sui nemici solamente in sei ore[11], privando della vita 6.000 fanti e catturando 9.000 nemici[12]. La stele di Merenptah ricorda una ulteriore azione militare, capeggiata da Merenptah stesso, verso la regione di Canaan[13], dove vengono menzionati per la prima volta gli Israeliti[14].
Ramses III, secondo faraone della XX dinastia, dovette ostacolare una nuova penetrazione e diffusione in Egitto (la più conosciuta grazie ad una serie di documenti) da parte dei popoli del mare nel corso dell’ottavo anno[15] in cui guidò il Paese delle Due Terre. Egli racconta questo evento in un testo scritto di una certa estensione nell’edificio[16], dedicato al culto di divinità, di Medinet Habu[17]: «le nazioni straniere (Popoli del Mare) hanno messo a punto una cospirazione presso le loro isole. Improvvisamente essi hanno abbandonato le loro terre e si sono gettate nella mischia. Nessuno poteva resistere alle loro armi: da Hatti, a Qode, a Cherchemish, ad Arzawa e Alashiya, tutte furono distrutte allo stesso tempo. Un campo militare fu da loro insediato in Amurru; qui essi fecero strage della gente del posto e la terra fu lasciata in uno stato di desolazione come se non fosse mai stata abitata. Quindi essi si diressero verso l’Egitto dove era stato innescato il focolaio della rivolta. La loro confederazione era composta dai Pelaset, dagli Tjeker, dagli Shekelesh, dai Denyen e dagli Weshesh. Essi misero le proprie mani sulla terra che si stendeva, mentre i loro cuori confidavano che il piano sarebbe andato in porto»[18].
DIFFUSIONE DEI POPOLI DEL MARE
Dal momento che di alcune civiltà, fra le quali quella ittita[19], micenea e lo stato monarchico di Mitanni[20], non si hanno più notizie pressappoco dal 1175 a.C., gli storici hanno sostenuto che la loro scomparsa venne provocata dalle occupazioni territoriali da parte dei popoli del mare. I racconti di Ramses sulle scorrerie nel Mediterraneo orientale vengono avvalorati dalla devastazione di Hatti, Ugarit[21][22], Ashkelon e Hazor. È da mettere in evidenza che queste occupazioni territoriali non erano dovute solamente a campagne militari ma anche alle collegate e rilevanti migrazioni di popoli per terra e mare[23] alla costante ricerca di nuovi territori nei quali stabilirsi[24].
IPOTESI SULLA PROVENIENZA DEI POPOLI DEL MARE
Gli Shardana vengono nominati per la prima volta nei documenti egiziani e più precisamente nelle lettere di Amarna (1350 a.C. pressappoco) mentre fu a capo del Paese delle Due Terre Akhenaton. Appaiono in seguito quando diressero ed amministrarono lo Stato egizio Ramses II, Merenptah e Ramses III con i quali si scontrarono in parecchi combattimenti sul mare. 520 Shardana appartennero alla guardia reale di Ramses II nel corso dello scontro armato di Qadesh (Kadesh) e, ancora come soldati al servizio di chi li pagava, si insediarono nel Medio ed Alto Egitto sino al termine dell’epoca ramesside, come attestato da molteplici testi amministrativi risalenti al periodo in cui governarono Ramses V (pressappoco 1175 a.C.–Tebe, più o meno 1145/1144 a.C., XX dinastia) e Ramses XI (…-1078/1077 a.C., XX dinastia).
I combattenti Shardana sono raffigurati nell’edificio di Medinet Habu, dedicato al culto di divinità, con armi di una certa estensione, armi corte adatte agli scontri ravvicinati, lunghe aste munite ad un’estremità di una punta e scudi di forma circolare. Indossano gonnellini poco estesi in lunghezza, hanno armature per proteggere il busto e la testa (quelle che coprono il capo sono fornite di corna). La somiglianza tra l’equipaggiamento bellico dei militi Shardana e quello dei Nuragici della Sardegna, ed inoltre l’affinità del vocabolo Shardana con quello di Sardi-Sardegna[25], hanno fatto supporre a diversi studiosi (come all’archeologo dell’Università di Cagliari Giovanni Ugas) che gli Shardana fossero un popolo originario della Sardegna o che si fosse stanziato nell’isola a causa della tentata penetrazione e diffusione nel Paese delle Due Terre.
Invece i Šekeleš o Shakalasha sono stati accomunati ai Siculi, popolo indoeuropeo che si stabilì al termine dell’età del bronzo nella Sicilia orientale, cacciando verso occidente i Sicani. Una provenienza egeo–anatolica è in ogni caso altamente possibile. I Peleset sono stati associati ai Filistei, dei quali parla pure la Sacra Bibbia. Infatti stando alla stessa arrivavano da Kaftor, probabilmente coincidente con Creta. I Filistei si impossessarono, nella fase finale dell’età del bronzo, della Palestina dove fondarono numerosi centri urbani[26]. I rinvenimenti archeologici farebbero considerare l’ipotesi di una provenienza egea di questa etnia, verosimilmente micenea. Scoperte fatte da poco tempo hanno consentito di fissare la loro venuta in Sardegna contemporaneamente o precedentemente a quella dei Fenici. Gli Zeker o Tjeker vengono citati pure da testi ittiti e paiono avere con i Peleset la stessa origine, si differenziano solamente a motivo del loro interesse per le attività marittime. Sono stati pure posti in rapporto con i Teucri. All’opposto i Libu o Libici si stanziarono al di sotto della Cirenaica. Nelle raffigurazioni egiziane i Libu hanno peculiarità somatiche europee: incarnato di colore rosa, occhi azzurri e barba bionda slavata. I Lukka era probabile che abitassero presso il litorale marino meridionale dell’Anatolia e l’isola di Cipro. Erano ritenuti nei testi ittiti una nazione a tutti gli effetti con signoria sul mare. In seguito si insediarono verosimilmente nell’area anatolica della Licia. Si pensa che siano identificabili con i Licii e si potrebbe parlare in questo caso di un popolo greco-indoeuropeo. La denominazione di tale gente ha avuto origine dalla radice indoeuropea leuk–luk (luce). Gli Eqweš o Akawaša coincidono probabilmente con gli Ahhiyawa dei documenti ittiti di Hattuša[27] e Ugarit, ovvero verosimilmente gli Achei, Micenei di origine greca, che si erano oramai installati sul litorale marino occidentale dell’Anatolia. Un intralcio all’identificazione fra Eqweš e Ahhiyawa (o Achei) è dato dal fatto che i primi pare che eseguissero il taglio totale o parziale del prepuzio e che questa usanza fosse alquanto inusuale fra i popoli indoeuropei, ai quali gli Achei appartengono. La Millawanda dei documenti ittiti è possibile che corrisponda a Mileto[28], mentre Wiluša farebbe probabilmente riferimento a Ilio (Troia).
Invece i Tereš o Turša (popolazione di origine verosimilmente non indoeuropea ma probabilmente egeo–ellenica, stabilitasi nei territori settentrionali dell’Anatolia) sono messi in stretta relazione con i Tirsenoi o Tirreni, vale a dire gli Etruschi. Questa identificazione pare confermare la narrazione di Erodoto[29] sulla provenienza anatolica di questa gente, ma specialmente la leggendaria parentela degli Etruschi con i Troiani, celebrata da Virgilio nell’Eneide. Relazioni dei Tirreni o Etruschi con l’isola di Lemno (che dista pochi chilometri da Troia) parrebbero esserci state a motivo del rinvenimento della Stele di Lemno, un breve testo scritto recuperato nel 1885, in cui è utilizzata la Lingua lemnia (un idioma che presenta affinità con l’etrusco). La stele sopramenzionata è sottoposta, ad ogni modo, alla valutazione attenta degli archeologi dal momento che parrebbe attribuibile al VI secolo a.C. Eppure ai Tirreno–Etruschi, nei documenti d’età miceneo–ittita o nelle composizioni classiche in versi di carattere narrativo (Odissea e Iliade), non vi è alcun accenno o allusione. Alternativamente diversi storici evidenziano il rapporto che intercorre tra la loro denominazione e l’ebraico Taršiš, oltre all’iberico Tartessos. Infine dei Danuna o Denyen, di origine anatolica, è stata suggerita una loro identificazione con i Dauni e i Danai, ulteriore appellativo dei Micenei di discendenza greca. L’egittologa Alessandra Nibbi (30 giugno 1923–15 gennaio 2007) affermò con convinzione, iniziando dal 1972[30], che l’identificazione delle popolazioni denominate Popoli del Mare dipendesse da una errata interpretazione dei documenti egiziani, specialmente della Grande iscrizione di Karnak.
Riferimenti
[1] H. WILSON, I segreti dei geroglifici, Newton & Compton, Roma 1998. [1] Beckerath, J. Chronologie des Pharaonischen Ägypten. Mainz: Philipp von Zabern, 1997, p. 190.
[2] Gardiner, A. H. Ancient Egyptian onomastica. vol. I. London: Oxford University Press, 1968, p. 196.
[3] Scrittura adoperata dai Micenei. Si è rivelata essere una modalità espressiva arcaica dell’idioma greco.
[4] Pilo di Messenia fu un centro abitato greco del Peloponneso.
[5] Se ne parlerà diffusamente in questo articolo più avanti.
[6] Aa.Vv. Antiche Civiltà. vol. I. Milano: RCS, 2005, p. 132.
[7] Centro urbano cananeo di epoca remota sul litorale marino del Libano, più o meno 37 km a settentrione di Beirut.
[8] Località archeologica in Egitto.
[9] Kitchen, K. A. Pharaoh Triumphant: The Life and Times of Ramesses II, King of Egypt. Warminster: Aris & Phillips, 1982, pp. 40-41.
[10] Wilkinson, T. L’antico Egitto. Torino: Einaudi, 2012, pp. 343-344.
[11] Cimmino, F. Dizionario delle dinastie faraoniche. Milano: Bompiani, 2003, p. 285.
[12] CantÙ, G. I misteri delle piramidi: magia e segreti dell’Antico Egitto. Milano: Giovanni De Vecchi, 1998, p. 228.
[13] Grimal, N. Storia dell’antico Egitto. Bari: Laterza, 2011, p. 351.
[14] Wilson, H. I segreti dei geroglifici. Roma: Newton & Compton, 1998, p. 97.
[15] Aa.Vv. Egitto: Storia e Mistero. Novara: De Agostini, 1999, p. 311.
[16] Aa.Vv. Egittomania. vol. II. Novara: De Agostini, 1999, p. 213.
[17] Denominazione attuale della località che accoglie un insieme di edifici dell’antico Egitto, dedicati al culto di divinità. È situata sulla sponda occidentale del Nilo, in prossimità di Tebe.
[18] Pritchard, J. B. Ancient Near Eastern Texts relating to the Old Testament. Princeton: Princeton University Press, 1969, p. 262.
[19] Bresciani, E. L’Antico Egitto. Novara: De Agostini, 2000, p. 272.
[20] Regno collocabile nella Mesopotamia settentrionale. Raggiunse la sua massima espansione sotto Shuttarna II.
[21] Centro abitato di un passato lontano del Vicino Oriente, a breve distanza dal moderno insediamento abitativo di Latakia in Siria.
[22] Jacq, C. L’Egitto dei grandi faraoni. Milano: Mondadori, 1999, p. 271.
[23] Lovelli, G. Rerum antiquarum et byzantiarum fragmenta. Tricase: Libellula, 2016, p. 48.
[24] Jacq, C. Vita quotidiana dell’antico Egitto. Milano: Arnoldo Mondadori, 1999, p. 221.
[25] Schlogl, H. A. L’antico Egitto. Bologna: Il Mulino, 2005, p. 102.
[26] Aa.Vv. Gli Egizi e le prime civiltà. Novara: De Agostini, 1998, pp. 176-177.
[27] Città sede degli organismi legislativi e amministrativi centrali dello Stato ittita. Inoltre fu una importante località religiosa e culturale.
[28] Insediamento abitativo sul litorale marino della Caria, in Asia Minore. Si caratterizzò per essere un discreto centro culturale, economico e politico.
[29] Storico dell’antica Grecia.
30] Nibbi, A. The Sea Peoples: A Re-examination of the Egyptian Sources. Oxford: The Church Army Press & Supplies, 1972.
*Fonte: https://storiedistoria.com/2016/10/i-popoli-del-mare/
La civiltà Assiro-Babilonese
A partire dal 3500 a.C. la Mesopotamia venne abitata da fiorenti civiltà come i Sumeri, gli Accadi, i Babilonesi, gli Assiri, gli Ittiti, gli Hurriti e i Cassiti. Alcune di queste civiltà fecero importanti scoperte e invenzioni. Per esempio i sumeri furono tra i primi a inventare la scrittura mentre i babilonesi hanno inventato uno dei primi codici di leggi della storia, il Codice di Hammurabi. Alcune di queste civiltà, come gli assiri, hanno fondato un vasto impero. Nel 500 a.C. circa la Mesopotamia venne conquistata dall’Impero persiano. Col passare dei secoli la Mesopotamia fece parte di vasti imperi come quello seleucide, parto, sassanide, arabo e ottomano. Attualmente la Mesopotamia corrisponde all’odierno Iraq, a parte della Siria orientale, alla Turchia sudorientale e all’Iran sudoccidentale.
Chi erano gli Assiri
Popolazione semitica, forse proveniente dall’Arabia; stanziatisi in Siria, dalla quale penetrarono a più riprese nell’alta valle del Tigri presso le montagne dell’Armenia e nelle valli dello Zeb, in quella regione che fu detta appunto Assiria. Presero il nome dalla città di Assur da essi fondata come prima capitale. Gli scavi ci rivelano che dopo il dominio babilonese essi subirono quello degli Ittiti, poi ancora quello di Babilonia. Verso il 1500 a.C. essi conquistarono l’indipendenza e a poco a poco estendono la conquista ai popoli vicini, fondando l’impero assiro che comprende, oltre la Mesopotamia babilonese, gran parte dell’Asia Minore.
Il massimo della conquista e della potenza lo raggiunsero sotto il regno di Tiglat-Pileser (1146-1093 ca. a.C., salito al trono nel 1115). La capitale da Assur fu portata a Ninive. Dopo la morte di Tigla-Pileser l’impero andò in rovina. Ultimo grande re fu Assurbanipal, detto dai Greci Sardanapalo (669-626), il cui regno fu celebrato per lo splendore di cui si circondò. Ma dopo la sua morte, l’impero, che già era scosso da brividi rivoluzionari, fu spartito fra i Babilonesi insorti, i quali si erano alleati al re dei Medi Ciassare (612-606). Ninive fu distrutta,
Mesopotamia culla della civiltà
Regione dell’Asia occidentale tra il Tigri e l’Eufrate, confinante con il Curdistan, I’Iran, l’Arabia, la Siria e il Golfo Persico. Popolazione mista: Arabi, Greci, Curdi, Persiani, Armeni, ecc. Il terreno nella parte meridionale è di natura alluvionale, particolarmente fertile e molto ben irrigato; il clima è arido pertanto prevalgono coltivazioni di cereali, tabacco, cotone, datteri. Inoltre il sottosuolo è ricco di giacimenti petroliferi. Per le sue caratteristiche territoriali, e per la sua posizione geografica, la Mesopotamia è stata la culla di una delle civiltà antiche più fiorenti, definita sumeroaccadica, sviluppatasi nell’arco di tre millenni. I primi ad abitare stabilmente il territorio (3200-2800 a.C.) furono i Sumeri di origine incerta, che si dedicarono allo allevamento e all’agricoltura.
Conoscevano già i metalli e a loro si deve l’invenzione della scrittura, utilizzata per la registrazione di dati amministrativi che da pittorica divenne cuneiforme impressa su tavolette d’argilla molle. Il territorio venne diviso in città-stato, spesso in conflitto tra loro, amministrate da un re e alcuni governatori. La Mesopotamia nella fase sumera fu unita per la prima volta sotto Sargon I di Accad (2350-2300 a.C.) e vide il suo massimo splendore sotto Gudea di Lagash (III dinastia Ur 2200 a.C.).
Successivamente vi furono altri periodi caratterizzati dalla presa di potere di popoli che qui si svilupparono: gli Amenorrei (XIX sec. a.C.), sotto i quali Babilonia divenne il più importante centro culturale e religioso del territorio; i Cassiti (XIV sec. a.C.) che introdussero l’uso del cavallo e di macchine da guerra e che videro aprirsi le rivalità tra il sud e il nord del paese; gli Aramei che furono soggiogati, in un periodo di decadenza, dalla vicina Assiria (VIII, VII sec. a.C.) ma che non accettarono mai i loro re e in ogni momento manifestarono la loro ribellione; si profilò poi quello che viene chiamato il periodo neobabilonese (VI sec. a.C.), durante il quale si ebbe la restaurazione del potere degli Aramei e la Mesopotamia visse un momento di grande espansione sotto Nabucodonosor, grazie anche all’alleanza con i Medi, che conquistò le terre fino all’Egitto e fece di Babilonia la più grande città del mondo.
Il periodo che vide la potenza dei persiani che capeggiati da Ciro II la conquistarono (V sec. a.C.), fu la prima della serie delle dominazioni straniere che negli anni seguenti vide nelle sue terre Alessandro Magno (331 a.C.), i Romani (la Mesopotamia settentrionale costituiva il limite estremo dell’impero romano; 92 a.C.), gli Arabi mussulmani ed infine gli Ottomani che causarono una decadenza irreversibile. Nei tre millenni di vita della Mesopotamia l’arte ebbe una presenza significativa in tutte le sue forme, dalle statue alla decorazione alla oreficeria, che spesso furono realizzate in onore dei re o degli dei, fino all’architettura che ha sottolineato i momenti di massimo splendore, attraverso strutture mastodontiche, templi, e torri (torre di Babele).
Babilonia la grande capitale dell’Asia minore
Le città principali oltre a Babilonia abbiamo:Uruk, Ur, Eridu, Lagash a sud; Accad e Akshak a nord. L’origine dello Stato Babilonese va attribuita agli Accadi che dal 2450 al 2150 a.C. in unione coi Sumeri stanziati nel sud della Mesopotamia. Unificarono la regione ad opera del re Hammurabi, sesto re della dinastia babilonese 1792-1750 a.C., che ne tra l’altro estese i domini in Siria; a lui inoltre si deve il famoso codice, risale anche a questo periodo la massima fioritura artistica e letteraria dell’area
Conquistata successivamente dagli Assiri IX-VIII sec. a.C. Nel 625 ebbe inizio la dinastia neobabilonese o caldea che cacciò dal paese gli Assiri e con Nabucodonosor II 605-562 estese l’impero fino a Gerusalemme e all’Egitto. Nel 539 i Persiani, invasero il territorio conquistandolo, da qui fu un succedersi di conquiste da Alessandro Magno 331, poi dai Seleucidi, dai Parti e in fine dai Romani. La civiltà assiro-babilonese è prevalentemente basata sulla cultura sumere, dalla Mesopotamia, anche grazie ai traffici con i Fenici, la sua cultura si diffuse per tutto il Mediterraneo entrando in contatto col popolo greco, che prese da essa molti elementi della sua civiltà e della sua arte.
Gli Assiri furono un popolo prevalentemente guerriero, molto duro nei confronti dei popoli vinti. Babilonesi, al contrario, furono un popolo dedito prevalentemente all’agricoltura, all’artigianato e al commercio anzi che alla guerra.
Religiosità e politeismo
Gli assiro-babilonesi erano politeisti. le loro divinità rappresentavano prevalentemente le forze delle natura. Le divinità più importanti costituivano una triade cosmica di origine sumerica: Anu, dio del cielo; Enlil, figlio di Anu, dio del cielo e creatore della terra; Ea, dea dell’acqua dolce. Molto importante fu Ishtar, dea dell’amore e della fertilità, rappresentata nella stella Venere. Vi erano infine degli dèi nazionali, che acquisivano maggiore o minore importanza secondo il popolo predominante in un dato periodo storico: Morduk era importante nel primo e nel secondo impero babilonese, Assur durante l’impero assiro.
Gli Assiro-Babilonesi credevano in una folta schiera di demoni quasi tutti malvagi, rappresentati sotto forma di animali e di mostri: tori alati con teste umane, draghi ed altre divinità mostruose. Gli Assiro-Babilonesi furono tra i primi popoli a dedicarsi all’osservazione degli astri in quanto credevano che gli astri e i fenomeni naturali fossero in grado di influenzare il loro destino da ciò l’evento di caste sacerdotali o divinatori che diedero un grande sviluppo all’astrologia e lo studio. per l’interpretazione di fenomeni naturali.
Ordinamento politico-sociale
L’Assiria e la Babilonia, costituivano uno stato ben organizzato Il Grande Re era sovrano assoluto e primo tra i sacerdoti, in contatto diretto con gli dei .Il regno era diviso in province. Ciascuna provincia era guidata da un governatore il quale in nome del re amministrava la giustizia, riscuoteva le imposte, arruolava la popolazione per i lavori obbligatori e per il servizio militare in caso di guerra.Lo stato si reggeva su di una burocrazia efficiente tanto da essere imitata dai Persiani, dagli stati ellenici e poi dall’impero romano. Numerosi erano gli scribi, alle dipendenze dei re e dei governatori.
L’economia
L’attività economica principale di Assiri e Babilonesi fu l’agricoltura. molte e perfette erano le opere di canalizzazione delle acque finalizzate all’irrigazione.Anche l’industria fu molto sviluppata, soprattutto nel tessile, nella metallurgia, nell’oreficeria, nella ceramica, nella profumeria. Gli Assiri, amanti del lusso, furono famosi per le stoffe a vivi colori, per i mobili rivestiti o intarsiati di metallo per i monili delicatamente cesellati, i Babilonesi per i mattoni smaltati per i sigilli cilindrici di pietra dura, per i gioielli, i metalli.
Ma l’attività che permetteva ai popoli della Mesopotamia di primeggiare in ricchezza e potenza fu sicuramente il commercio che, favorito dalla posizione geografica, rese questa terra l’emporio di tutte le carovane provenienti dall’India, dall’Arabia, dall’Africa.
La cultura
La cultura era privilegio dei sacerdoti, ma non solo e la burocrazia capillare faceva sì che la scrittura fosse patrimonio di moltissimi scribi. La scrittura aveva carattere cuneiforme, era prodotta da uno stilo su una tavoletta di creta, aveva carattere fonetico pur non possedendo le vocali, le tavolette dopo la scrittura venivano cotte al sole o al fuoco.
La scrittura cuneiforme fu decifrata, pur in mezzo a grandi difficoltà, verso la metà del secolo scorso. Nel 1835 il console inglese a Bagdad, G. Rawlinson, trovò un’iscrizione trilingue, che dal luogo del ritrovamento, fu detta iscrizione di Behistun, in cui lo stesso testo era scritto in antico persiano cuneiforme, in medosusiano e in babilonese. Qualche anno più tardi uno studioso tedesco il Grotejend, riuscì a decifrare tale iscrizione, dandoci la chiave della scrittura cuneiforme.
La letteratura, che ebbe carattere prevalentemente religioso, presenta, tra le opere principali, due grandi poemi epico-religiosi:come 1’Enuma elish, il poema della creazione, che intende glorificare il dio Marduk come creatore dell’universo; e il poema di Gilgamesh, pervaso da un desolato pessimismo, il quale narra i vani sforzi di un leggendario re sumero per raggiungere l’immortalità, tra l’altro, in questo poema troviamo per la prima volta la descrizione di un diluvio, molto simile a quella della Bibbia.
Le scienze più coltivate, furono l’astronomia, in cui i Babilonesi godettero la fama di più sapienti conoscitori dei cielo essi dividevano l’anno in 12 mesi secondo i movimenti della luna, i mesi in settimane, le settimane in giorni secondo il nome dei pianeti; distinguevano i pianeti dalle stelle; conoscevano l’eclittica e lo zodiaco, per cui potevano predire le eclissi solari e lunari,.in matematica essi conoscevano tanto il sistema decimale quanto quello sessagesimale, le quattro operazioni, l’elevazione a potenza. In geometria, divisero il cerchio in 360° gradi.. Furono eccelenti ingegneri e idraulici, come dimostrano le numerose opere per regolare il corso del Tigri e dell’Eufrate,
Le arti -Gli Assiro-Babilonesi coltivarono soprattutto l’architettura, che, come in Egitto, tende ad avere un’impronta di straordinaria grandiosità. Essa, non disponendo di cave di pietra da taglio, dovette far uso di mattoni, tenuti insieme con bitume, fecero uso per la priva volta, dell’arco e della volta, precorrendo in quest’arte la perizia degli architetti etruschi
I principali monumenti architettonici furono i templi a forma di torre gli Ziqqurat, con terrazze digradanti, in cima alle quali sorgeva il santuario, che fungeva anche per le osservazioni astronomiche, e i palazzi reali, con sale spaziose e giardini pensili Famose sono le mura di Babilonia, di forma quadrangolare, lunghe circa 18 km Gli Assiro-Babilonesi coltivarono anche la scultura e la pittura che rappresenta talora mostri bizzarri, come il toro alato con la barba ben arricciata e con in capo una tiara.
L’invenzione della scrittura
Ai sumeri si attribuisce l’invenzione di una delle più antiche forme di scrittura apparse nel mondo. la scrittura sumerica è formata da circa 1500 segni diversi, cuneiformi per la loro forma a cuneo; essi venivano impressi mediante una cannuccia su tavolette di argilla, che poi si cuocevano al forno. La scrittura cuneiforme si diffuse in tutta la Mesopotamia e oltre, fino al Mediterraneo, e fu adottata anche dai persiani. Leggerla per noi è molto difficile; il merito di averla decifrata, verso la fine del Settecento, è di uno scienziato tedesco, Grotefend. La scrittura fu utilizzata dai sumeri anzitutto per annotazioni pratiche e necessità economiche (compravendite, liste di merci, ecc.); poi servì ai re per registrare le tasse, amministrare la giustizia, fissare il ricordo di importanti avvenimenti politici o militari. In seguito vennero scritti anche testi di carattere scientifico (astronomia, matematica, ecc.) e opere letterarie, la più antica delle quali, risalente circa al 2000 a.C., è la cosiddetta Epopea di Gilgamesh, l’eroe metà uomo e metà dio di cui si raccontano le gesta.
Il più antico codice del mondo
I sumeri originariamente non costituirono un regno unitario, ogni città era un piccolo Stato autonomo, retto da un proprio re-sacerdote. In uno di queste città stato ad Ur, si è scoperta una raccolta di leggi, che è considerata il più antico codice del mondo, databile intorno al 2100 a.C. Queste leggi sono ispirate a idee per quei tempi assai progredite. Ad esempio, gli atti di violenza sono puniti con un risarcimento in argento e non con la vendetta ,come si verificherà invece circa cinque secoli più tardi, con il celebrato e notissimo Codice babilonese di re Hammurabi.
Lo studio del cielo e la misura del tempo
Come già avevano fatto gli antichi sumeri, i babilonesi diedero una grande importanza all’osservazione e allo studio degli astri, perché credevano che nei movimenti celesti si esprimesse la volontà degli déi e si potessero leggere il futuro e il destino dell’uomo. Le loro osservazioni, anche se basate su credenze magiche e religiose, diedero origine a conoscenze esatte, che contribuirono allo sviluppo dell’astronomia.
Così, i sacerdoti babilonesi impararono a distinguere i pianeti dalle stelle fisse e i segni dello Zodiaco; scoprirono il moto dei pianeti, le cause delle eclissi e delle fasi della Luna; riuscirono a calcolare le posizioni di Mercurio e l’orbita della Luna; trovarono il sistema per accordare il mese lunare con l’anno solare (da loro calcolato in 365 giorni e 1/4), intercalando un mese ogni tre anni solari. Insieme con l’astronomia fecero notevoli progressi anche la matematica e la geometria.
Furono i babilonesi a determinare le misure di tempo, di lunghezza e di peso, di cui poi si servirono gli altri popoli dell’antichità, compresi i greci e i romani. Il giorno fu diviso in 24 ore; l’ora in 60 minuti primi e in 3.600 minuti secondi; l’unità di peso, il talento (= 2.523 grammi), fu divisa in 60 mine e la mina in 60 dramme. Le credenze magiche sumerico-babilonesi ebbero una straordinaria diffusione e fortuna. Che gli astri abbiano un’influenza sulla vita dell’uomo, che l’eclissi sia un preavviso di sventura, che esistano giorni fausti e giorni infausti, sono tutte idee di origine mesopotamica: ancora oggi, è su queste idee che si fondano gli oroscopi e le altre tecniche di “lettura” del futuro.
Gli alimenti
Assieme ad altri popoli medio orientali come, in particolare, gli egizi, i sumeri furono tra i primi a fabbricare il pane, un alimento ricavato dalla farina di frumento, divenuto poi tipico delle popolazioni mediterranee. Essi appresero cioè a far lievitare la farina, controllando sapientemente il processo naturale della fermentazione. Contemporaneamente inventarono la birra, che si ottiene anch’essa dalla fermentazione di cereali. Pane e birra, cioè un cibo e una bevanda che non esistono in natura, ma sono costruiti dall’uomo. Oltre al pane, i sumeri consumavano zuppe d’orzo, formaggio di capra, carne di maiale e di pecora, pesci di fiume, datteri, fichi, uva, ortaggi e legumi.
I modi di vita
Nell’ archivio di Ebla, dedicato in prevalenza ad atti amministrativi, si sono trovate anche testimonianze della vita quotidiana, come le pagelle degli studenti e i compiti in classe con le correzioni. Secondo Paolo Matthiae, capo della missione archeologica italiana, la società eblaita sarebbe stata molto più aperta e civile di tutte le altre del Medio Oriente; per esempio, pare che la donna godesse di una dignità e di un’importanza sociale sconosciute in altri Stati di quel tempo. Altre scoperte, come i raffinatissimi oggetti d’oro e gli ornamenti preziosi rinvenuti nelle tombe del palazzo reale di Ebla, fanno pensare a modi di vita molto evoluti e a capacità artistiche e artigianali assai sviluppate.
Come vivevano gli antichi popoli della Mesopotamia? Le testimonianze in proposito non mancano. Le case erano costruite secondo uno schema molto semplice, che risaliva ai sumeri: un cortile-giardino centrale e, intorno, quattro-sei stanze, con porte e finestre sul cortile e nessuna finestra verso l’esterno. Alquanto basse, con un pianterreno e un primo piano, avevano i muri grossi di mattoni d’argilla pressata, seccati al sole, talvolta anche cotti in fornace. Anche i grandi palazzi seguivano il medesimo schema, moltiplicato decine e decine di volte; un esempio significativo è la reggia di Mari (2000 a.C.) presso l’Eufrate, costituita di 300 vani, su un’area di 30.000 metri quadrati.
Il cibo della terra e delle acque
I popoli della Mesopotamia avevano a disposizione cibi molto variati. La maggior parte proveniva dalle attività agricole: pane di frumento, focacce d’orzo, legumi (fave, lenticchie), una gran quantità di verdura e di frutta: datteri e fichi, mele, prugne, noci, cocomeri. Gli orti di Babilonia, sapientemente irrigati, erano famosi per i limoni e gli aranci, i pistacchi, le albicocche e tanti altri frutti che solo molti secoli più tardi sarebbero giunti in Occidente. Un’altra importante risorsa erano i pesci di fiume. Erodoto, uno storico greco, racconta che venivano seccati al sole e poi, pestati in un mortaio, ridotti in una specie di farina che veniva utilizzata per fare focacce e torte.
Viaggi terrestri e fluviali
Pochi viaggiavano: gli unici erano gli incaricati del re, i soldati, i mercanti che trasportavano merci; usavano dei carri trainati da asini. Solo dopo il II millennio a.C. incominciarono ad apparire i cavalli. I viaggi per terra erano molto faticosi e non frequenti; ad essi si preferiva il trasporto via acqua, sui fiumi, con battelli a remi o a vela.
La medicina
Le prime forme a noi note dell’arte medica sono state trovate in Mesopotamia. Uno scienziato americano, S.N. Kramer, specialista nella lettura di testi sumerico- babilonesi, afferma che il primo medico di cui si sappia il nome è “un certo Lulu, che abitò nella città di Ur verso il 2700 a.C.; così pure proviene dalla Mesopotamia il più antico testo contenente indicazioni di medicinali. Eccone qualche esempio. Una pomata: polverizzare delle pere e della manna, mescolare con fondo di birra e applicare sulla parte malata”. Un decotto: “sciogliere la resina di una pianta con birra calda, versare il liquido in olio e far bere al malato”. Una lozione: “triturare radici di piante e pelle di serpente, versare in acqua bollente e lavare la parte malata”. Si praticava anche la chirurgia, come confermano gli strumenti che si sono trovati e anche i segni di interventi scoperti nelle ossa. E da notare che le leggi ritenevano personalmente responsabili i medici se le loro prestazioni fallivano. Ad esempio leggiamo nel Codice di Hammurabi: “Se un medico ha operato un uomo libero con un bisturi di bronzo e gli ha salvato la vita, sarà ricompensato con dieci pesi d’argento. Se invece gli produce la morte, gli saranno tagliate le mani
Il fascino del dodici
Per misurare il tempo, le ore del giorno e lo scorrere dell’anno, così come i pesi, le lunghezze, i prezzi ed ogni altra cosa, i babilonesi presero come base il numero 12, con i suoi multipli e sotto-multipli: a tale numero, infatti, molte civiltà antiche attribuirono un valore sacro, quasi magico.
Fonte: UMSOI – http://umsoi.org/2018/08/mesopotamia-la-civilta-assiro-babilonese/
Antico Egitto
Descrizione generale
L’Egitto antico si formò in un’area singolarmente ben determinata: un profondo solco vallivo è tracciato, al margine orientale dell’altopiano sahariano, dal corso del Nilo che porta le sue acque dal cuore dell’Africa al Mediterraneo; l’ultimo tratto di questa valle costituisce l’Egitto propriamente detto e in quest’area nacque, già alla fine del Neolitico, una civiltà straordinaria che si sviluppò per circa tre millenni.
Storia: dalle origini alle dinastie tinite (3200 a.C.-2778)
“Per le cartine storiche vedi il lemma dell’8° volume.” Abbonda nell’antico Egitto la documentazione storiografica (liste di re, annali dei singoli faraoni, iscrizioni biografiche, stele commemorative, documenti amministrativi pubblici e privati, testi letterari), tuttavia il primo a porsi il compito di una narrazione coerente e completa delle vicende del suo popolo, nell’ambito e in funzione della cultura tolemaica, fu Manetone. A lui si deve la divisione dei periodi storici per dinastie, ossia per gruppi o famiglie di sovrani, in numero di 30 da Menes alla conquista di Alessandro Magno. Le fonti a disposizione sono spesso letterarie (dirette o indirette), ma grande peso ha anche la documentazione archeologica. Fonti diverse (da quelle cuneiformi alla Bibbia, alle fonti classiche) integrano i dati indigeni. I problemi di cronologia sono alquanto complessi poiché gli Egizi non datavano secondo un sistema assoluto, ma per anni di regno, ricominciando il computo a ogni nuovo sovrano.
Il calcolo è reso possibile da liste di re che pure possediamo (quella già citata di Manetone, la pietra di Palermo, le liste di Saqqâra e Abido, il Papiro dei Re di Torino); ma lo stato delle fonti e il fatto che, specie in periodi di torbidi, più re regnarono contemporaneamente, rende assai complessa la ricostruzione di un quadro cronologico esatto. “Per la storia vedi le carte tematiche alla pagina 481 dell’8° volume.” Tuttavia si conoscono tre date esatte, basate su osservazioni astronomiche, per i regni di tre faraoni: Sesostri III, Amenofi I e Thutmose III, e concordanze con altri avvenimenti del Vicino Oriente permettono il computo di datazioni assai probabili, anche se con qualche tratto di convenzionalità. L’inizio dell’età storica si situa intorno al 3200-3000 a. C. (o intorno al 2850 secondo la cosiddetta cronologia corta). In tale epoca, dopo un periodo su cui si è molto congetturato, ipotizzando regni del Nord e del Sud, dapprima divisi, poi unificati e di nuovo divisi, il regno del Sud, che aveva come capitale Hierakonpolis, conquistò il Nord, la cui capitale era Buto, unificando il Paese sotto l’autorità personale del sovrano. Le lotte per l’unificazione sono testimoniate da figurazioni più che da testi. Una mostra il re Narmer (generalmente identificato con il Menes di Manetone, unificatore dell’Egitto e fondatore di Menfi) con le due corone del Nord e del Sud, segno che l’unificazione è già avvenuta. Le prime due dinastie sono dette tinite (età tinita, 3000-ca. 2778) dalla capitale This, situata nei pressi di Abido, e hanno lasciato imponenti testimonianze archeologiche nelle tombe dei sovrani e dei loro familiari e seguaci rinvenute ad Abido e a Saqqâra. Per quanto le vicende e perfino l’ordine di successione dei sovrani presentino vaste zone di incertezza, si assiste in questo periodo al formarsi di uno Stato centralizzato, sottoposto all’autorità di un re-dio (gli competono infatti i titoli di “Horus” e “Le due Signore” che lo identificano appunto con queste divinità) coadiuvato da una già efficiente schiera di funzionari, il che permette la progettazione e l’attuazione di lavori a largo raggio, come lo scavo di canali e la costruzione di dighe, primo indispensabile passo verso l’ampliamento dell’agricoltura e la trasformazione dell’economia.
Storia: l’Antico Regno (2778 a.C.-2220 ca.)
Con la III dinastia si entra nell’Antico Regno (2778-2220 ca.) propriamente detto. Il passaggio pare non sia stato violento perché Gioser, il I re della III dinastia, è probabilmente figlio di Khasekhemui, ultimo faraone della II dinastia. La capitale passa a Menfi e l’organizzazione burocratica dello Stato si amplia con l’apparire di una nuova figura di funzionario, diretto coadiutore del sovrano, che poi si chiamerà tati (visir). Il regno di Gioser I sembra un momento fondamentale nello sviluppo della cultura egiziana, testimoniato dalle costruzioni in pietra della piramide a gradoni di Saqqâra. Più oscuri sono i regni dei successori. La IV dinastia inizia con Snofru, di cui si conoscono spedizioni in Libia, in Nubia e nel Sinai. I regni dei successori, Cheope, Chefren e Micerino, sono noti quasi esclusivamente attraverso le loro imponenti costruzioni funerarie, le piramidi di El-Gîza, che testimoniano di un’economia accentrata nelle mani del sovrano e di una sapiente organizzazione del lavoro collettivo. Le necropoli annesse alle piramidi ospitano mastabe di funzionari, spesso imparentati con il sovrano. I titoli e le funzioni mostrano come il potere sia fortemente accentrato e come quasi tutta la burocrazia ruoti, anche fisicamente, attorno al re. Un sistema così compatto non poteva durare a lungo: la IV dinastia finisce oscuramente e la V dinastia mostra i segni di una crisi ormai in atto. I primi tre sovrani della V dinastia (Userkaf, Sahura e Neferkara), secondo la leggenda, sono figli del dio Râ e della sposa di un sacerdote di Eliopoli e i loro successori, oltre ad avere nomi composti con Râ, portano tra i loro titoli quello di “figlio di Râ”, indicando con ciò una dipendenza dal Sole (prima erano invece identificati con il dio Horus e le due dee dinastiche).
È questo un chiaro segno del potere che il clero (in questo caso il clero eliopolitano) va assumendo a fianco dell’autorità regale. Nello stesso tempo un altro elemento centrifugo si ha nelle grandi famiglie della nobiltà provinciale che si trasmettono ereditariamente, di padre in figlio, le cariche prima assunte per nomina regale. I sovrani della VI dinastia tentano di controllare questa spinta centrifuga, ma sono costretti continuamente a concessioni di autonomia politica e amministrativa verso il clero e le famiglie nobiliari. Il primo re di questa dinastia fu Teti, di cui non si sa molto; gli succedettero Userkara, Pepi I e i figli Merenra I e Pepi II. Quest’ultimo, salito al trono a 6 anni, regnò per ben 94 anni, ed è proprio sotto di lui che si compie la decadenza dell’Antico Regno. Nulla sappiamo di preciso sulle cause ultime della fine della dinastia, culminata in una rivoluzione sociale che traeva la sua origine da cause assai più antiche e di cui approfittarono i nobili provinciali per crearsi una loro autonomia nei paesi di origine.
Storia: il Medio Regno (2000 a.C.-1785)
Il I periodo intermedio (2220-2065 ca.) fu un’epoca dalle caratteristiche feudali, in cui l’Egitto appare frazionato in piccoli potentati autonomi foggiati sul modello della monarchia centrale. Intorno al 2300 a. C. una casata, stabilita in Eracleopoli, controlla la regione centrale (IX e X dinastia), ma viene poi a conflitto con i nomarchi di Tebe, finché, verso il 2065, un re tebano, Mentuhotep I (dell’XI dinastia), afferra di nuovo saldamente nelle sue mani l’Egitto unificato e dà inizio al Medio Regno (2000-1785 ca.). All’XI dinastia, dei Mentuhotep, succedette la XII, costituita dai membri di una famiglia di visir. Il primo sovrano è Amenemhat I, il cui regno finì bruscamente per una congiura di palazzo. Gli succedette il figlio Sesostri I che intraprese vaste conquiste in Nubia. Meno noti i regni dei successori Amenemhat II e Sesostri II. Sesostri III fu invece uno dei più grandi faraoni della storia egizia e il suo nome ricorre anche nelle leggende narrate dagli storici greci. Fece fortunate campagne in Palestina e in Nubia, dove stabilì fortezze. Il figlio Amenemhat III si occupò principalmente dello sfruttamento agricolo ed economico dell’Egitto, specie del Faiyûm. Sotto i successori Amenemhat IV e Sobekneferura (una regina) avviene una rapidissima decadenza che dà inizio al II periodo intermedio (1785-1580 ca.), periodo che presenta tuttora molti punti oscuri, a cominciare dalla sua durata che oggi è valutata intorno ai 200 anni in luogo dei 1583 dati da Manetone.
L’Egitto appare di nuovo smembrato: nella regione tebana continua, almeno formalmente, la regalità indigena con la XIII e la XIV dinastia, mentre nel Delta iniziano, dapprima lentamente sotto forma di infiltrazioni e poi in forma sempre più violenta, le invasioni di popolazioni nomadi asiatiche, i cosiddetti Hyksos (principi dei popoli stranieri). Ben presto essi si stabiliscono in Avaris, nel Delta orientale, dove costruiscono una fortezza, spingendosi poi fino a Menfi, e a un certo momento fino a Gebelein, a sud di Tebe, forti del possesso di nuove armi, di cavalli e carri da guerra. Una volta sedentarizzati assumono usi e costumi degli Egizi e costituiscono delle vere e proprie dinastie (la XV e la XVI) con titoli e cerimoniale regali. Per un certo periodo vi furono rapporti di tolleranza reciproca con i Tebani, che avevano anch’essi costituito una dinastia, la XVII. Fu solo intorno al 1580 a. C. che si arrivò allo scontro diretto tra gli Hyksos e gli Egizi in grado ormai di far leva sul nazionalismo indigeno, mortificato dall’invasione. Uno dei re della XVII dinastia tebana, Seqnenra, probabilmente morì in battaglia (la sua mummia presenta un’ampia ferita alla fronte); il figlio Kamose continuò la lotta che fu portata a termine da Ahmose, il fondatore della XVIII dinastia. Costui assediò Avaris e la conquistò, inseguendo gli invasori fin nella Palestina meridionale.
Storia: il Nuovo Regno (1580 a.C.-1085)
Si iniziava così, in questo clima di vittoria e nell’esaltata rinascita di uno spirito nazionale, il Nuovo Regno (1580-1085 ca.), uno dei periodi più floridi e fortunati dell’antico Egitto. La profonda crisi del II periodo intermedio non era però passata invano; gli Egizi cominciarono a rendersi conto che i territori a est dell’Egitto potevano costituire una minaccia e, per difendersene, occorreva attaccare e sottomettere le popolazioni siro-palestinesi nel loro stesso ambiente.
Questa fu la politica attuata dallo stesso Ahmose e seguita dai suoi successori Amenofi I, Thutmose I e Thutmose II. Come prima conseguenza di queste campagne si ebbe in Egitto un afflusso di ricchezze che, unito alle aumentate conoscenze di popoli diversi, introdusse esigenze di lusso e di raffinatezza assieme a nuove credenze che cambiarono profondamente il modo di vivere. Una battuta di arresto in queste campagne asiatiche si ebbe sotto la regina Hatshepsut, ma il suo successore Thutmose III riprese con eccezionale vigore la politica espansionistica in Asia. Egli portò a termine 17 campagne militari, volte a riconquistare Siria e Palestina e a perseguire i Mitanni che fomentavano le rivolte fin oltre l’Eufrate. Queste campagne avevano scopo intimidatorio più che di vera e propria conquista: il faraone si accontentava infatti di assicurarsi la fedeltà dei capi dei Paesi vinti, attuando così una specie di protettorato. Tuttavia la fluidità del mondo asiatico, teatro di continue lotte locali e continuamente premuto da invasori provenienti da est (prima i Mitanni, poi gli Ittiti e più tardi gli Assiri, i Neobabilonesi e infine i Persiani) rese il sistema assai aleatorio e richiese continui interventi armati. Né si perse di vista la Nubia, che anzi venne annessa più strettamente e posta sotto l’autorità di un viceré, “il Figlio Regale di Kush”.
A Thutmose III succedettero Amenofi II e Thutmose IV, sotto i cui regni cominciò a profilarsi in Asia la nuova minacciosa potenza degli Ittiti, che cozzando con i Mitanni indussero questi ultimi a riavvicinarsi all’Egitto. Amenofi III, figlio e successore di Thutmose IV, cercò di mantenere in pace l’impero, creando alleanze anche per mezzo di matrimoni con principesse straniere. Intanto all’interno andava sempre più affermandosi il potere del clero di Ammone, al cui tempio affluiva gran parte delle ricchezze asiatiche e nubiane. Intorno al 1350 la crisi scoppiò per opera di Amenofi IV, figlio di Amenofi III, sfociando in una rivoluzione religiosa che abolì tutti i vecchi dei riconoscendo come unico dio Aton, il “disco solare”. L’unico intermediario tra Dio e gli uomini divenne il sovrano stesso, ristabilendo così quella figura di re-dio, unico arbitro delle vicende umane, che dalla prima età menfita era andato perdendo ogni vitalità. Insieme venne esautorata anche la vecchia nobiltà, in quanto i funzionari erano di nomina regale e non legati alle vecchie famiglie (almeno formalmente).
Il suo distacco dal passato è sottolineato dal cambiamento di nome, da Amenofi (Ammone è in pace) in Ekhnaton (Colui che è utile ad Aton), e dalla fondazione di una nuova capitale, Akhetaton (L’orizzonte di Aton). Ben presto tuttavia clero e nobiltà ripresero il sopravvento e lo stesso sovrano fu costretto a tentare una riconciliazione che però non valse a salvare la sua riforma. Alla sua morte gli succedette, forse solo per pochi mesi, Semenkhara, seguito poi da Tutankhamon. Dopo un breve regno di Ai, la XVIII dinastia terminò con l’ascesa al trono di Horemhab, un ex generale, proveniente da una famiglia di nomarchi, la cui attività fu volta soprattutto a esautorare le autorità provinciali restaurando il potere centrale assai provato dall’ultima crisi. La XIX dinastia, che con Ramesse I succedette senza scosse a Horemhab, portò al potere una famiglia di militari originaria del Delta. Essi mantennero la capitale a Tebe, ma nello stesso tempo conservarono legami assai stretti con la loro città di origine e, con fine intuito politico, affiancarono al dio nazionale Ammone i loro dei Seth (venerato a Tani), Ptah (il dio dell’antica capitale Menfi) e Râ (il potente dio di Eliopoli). Con ciò ottennero di poter controllare tutto il Paese dalla Vallata al Delta e insieme di limitare, senza troppo urtarne la suscettibilità, l’influenza del clero di Ammone.
Il successore di Ramesse I, Seti I, contrastò vittoriosamente le ribellioni in Asia, fomentate dagli Ittiti, e le invasioni delle tribù ariane provenienti dalla Libia. La lotta contro gli Ittiti fu proseguita dal figlio Ramesse II, forse il più famoso dei sovrani egizi, che ebbe un regno lunghissimo e si segnalò soprattutto per la sua attività di costruttore. Ai primi anni del suo regno, intorno al 1294, risale la famosa battaglia di Qadesh contro gli Ittiti, che ebbe esito incerto anche se poi fu sfruttata da Ramesse, con abile propaganda, come una splendida vittoria personale. Il vero successo della battaglia si ebbe però nella stipulazione di un trattato di pace, suggellato da un matrimonio tra il faraone e la figlia del re degli Ittiti, in cui, oltre alla reciproca convivenza, i due popoli si impegnavano alla mutua difesa, soprattutto in vista di un nuovo pericolo proveniente da Oriente: gli Assiri. La situazione rimase stazionaria sotto il regno di Merenptah, che respinse energicamente dal suolo stesso dell’Egitto gli invasori Popoli del mare, provenienti dalla Libia: ma precipitò sotto gli ultimi sovrani della XIX dinastia.
Un ultimo soprassalto di energica ripresa si ebbe sotto Ramesse III della XX dinastia che, ispirandosi alle imprese del suo omonimo predecessore, combatté e vinse i Popoli del mare e le tribù coalizzatesi sul fronte libico, ma la fine oscura del re, perito forse per una congiura di palazzo, dette il via alla decadenza. Ormai l’Egitto non poteva più contare sul suo isolamento, nuove forze entravano in gioco sconvolgendo gli antichi equilibri, armate potenti premevano sia da Oriente sia dal mare sia dalla Libia, fresche di nuove energie e dotate di armi più potenti. Era la crisi del passaggio dall’Età del Bronzo all’Età del Ferro e l’Egitto, privo di minerali utili e ancorato alle sue tradizioni ormai millenarie, restava al di fuori, sorpassato, mentre la sua stessa estensione e il tradizionale antagonismo tra Delta e Vallata ne impedivano un’efficace difesa. Gli ultimi re della XX dinastia, Ramesse IV-XI, sono comparse insignificanti.
Storia: la Bassa Epoca (1085 a.C.-332)
Verso il 1085 (Bassa Epoca, fino al 332 a. C.) il potere passò nelle mani di un sommo sacerdote di Ammone, Herihor, che, pur in presenza di una misera figura di re, Smendes (fondatore della XXI dinastia), assunse titoli regali. Vi furono così due capitali, una religiosa a Tebe e una politica a Tani, nel Delta, mentre le istituzioni si andavano sgretolando sotto la vana copertura di accademici orpelli. Si rappezzarono templi, si nascosero le mummie dei faraoni perché non si riusciva più a difenderle nelle loro tombe, si trafficava con i Paesi orientali, ma non si poteva impedire che i messi egizi venissero vilipesi in terra straniera. Nel frattempo mercenari di origine libica, prestanti servizio nell’esercito, si erano stabiliti a Eracleopoli e tra essi emerse una famiglia i cui membri assunsero cariche sacerdotali e civili finché, intorno al 950 a. C., uno di loro, Sheshonq, occupò il trono fondando la XXII dinastia che assunse i caratteri di una dittatura militare, avente come capitale Bubasti nel Delta.
Sheshonq riprese anche le campagne in Asia, arrivando fino a Gerusalemme, di cui saccheggiò il tempio, e riuscì anche, per un certo tempo, ad assicurarsi un controllo sul clero di Ammone, creando una nuova figura sacerdotale da contrapporre al gran sacerdote di Ammone: la “Divina Adoratrice” o “Sposa del Dio”, scelta tra le principesse della famiglia reale. Ciò però non valse a frenare i torbidi e le divisioni interne, ormai troppo radicate nel Paese, al punto da dare di nuovo origine a una società di tipo feudale, che perdurò nelle dinastie XXIII e XXIV. La situazione si complicò con l’arrivo in Egitto di conquistatori nubiani (forse discendenti da sacerdoti egizi esiliatisi a Napata), con a capo Piankhy, figlio di Kashta. Egli penetrò in Egitto presentandosi come restauratore della genuina tradizione egiziana; se ne tornò quindi a Napata, lasciando a Tebe, in sua vece, un governatore. Le ribellioni ripresero, costringendo il fratello di Piankhy, Shabaka, a riprendere la lotta. A Shabaka succedettero Shabataka e poi Taharqa, sotto il cui regno gli Assiri invasero l’Egitto due volte (671 e 669), questa volta spingendosi fino a Tebe. Sotto Tanutamon, l’ultimo sovrano della XXV dinastia, gli Assiri conquistarono per la terza volta l’Egitto (664), respingendo la dinastia etiopica nel Paese d’origine, dove poi diede vita al regno meroitico. Nel 663 un principe di Sais, Psammetico, approfittando delle divisioni interne degli Assiri e forte dell’aiuto del re di Lidia Gige, che gli inviò mercenari greci e carii, riuscì a ristabilire l’unità interna dell’Egitto fondando la XXVI dinastia, l’ultimo periodo di fioritura dell’Egitto, in cui un cosciente ritorno alle tradizioni riportò nella letteratura e nell’arte i modi e il linguaggio dell’Antico e Medio Regno, vagheggiati come favolosa età dell’oro.
I Greci penetrarono in Egitto come mercenari e mercanti, ampliando gli orizzonti della cultura indigena. All’esterno intanto la potenza neobabilonese si era sostituita a quella assira e con essa cozzarono Nekao, che fu sconfitto da Nabucodonosor, e Apries, che fu poi detronizzato dal suo generale Amasi. Il figlio di Amasi, Psammetico III, fu a sua volta sconfitto dal re persiano Cambise, che nel 525 invase l’Egitto, installandovi una satrapia. La XXVII dinastia di Manetone è appunto costituita dai sovrani persiani Cambise, Dario I, Serse, Artaserse, Dario II (423-404). L’Egitto fu reso di nuovo indipendente da Amirteo di Sais, l’unico re della XXVIII dinastia (404-398), e riuscì, pur con alterne vicende, a conservare la libertà per altre due dinastie indigene, la XXIX con capitale Sebennito e la XXX con capitale Mendes (entrambe nel Delta). Tuttavia nel 341 l’Egitto ricadde sotto il dominio persiano cosicché Alessandro Magno, quando nel 332 conquistò il Paese, apparve come un liberatore e fu proclamato “Figlio di Ammone” dall’oracolo dell’oasi di Sîwa.
Storia: l’età greco-romana
Dopo la morte di Alessandro Magno, iniziò il regno dei sovrani tolemaici, nato dalla spartizione dell’impero di Alessandro tra i suoi generali (i diadochi) e dall’assegnazione della regione a Tolomeo Lago, che nel 304 vi assunse il titolo di re sull’esempio di quanto aveva fatto Antigono. La dominazione tolemaica rappresentò nel complesso un periodo di pace e di benessere e durò per tre secoli, fino al 31 a. C. I Tolomei, fin dai primi tempi della loro dominazione, cercarono di ingraziarsi la popolazione indigena proclamandosi eredi dei faraoni e assumendone tutto il cerimoniale, professando ossequio agli antichi dei (molti templi, tra i più importanti dell’Egitto, furono rifatti o costruiti ex novo in questo periodo) e creando addirittura divinità ibride come Zeus-Serapide, ma non arrivarono mai a fondere le due popolazioni.
Si ebbero così due culture che vissero affiancate, senza amarsi e senza comprendersi: da una parte il mondo ellenistico che ha trovato in Alessandria la sua più brillante capitale, e dall’altra il mondo egiziano, sopravvissuto a se stesso e chiuso ormai in un accademico e bigotto isolamento. Dell’amministrazione faraonica, i Tolomei conservarono e potenziarono l’organizzazione burocratica, il sistema fiscale, il carattere ufficiale imposto anche alle trattative private con la stesura di contratti depositati presso un notaio. Vi sono notizie di rivolte, specie nella Tebaide, la regione più lontana dal potere centrale e in cui più viva restava la tradizione, specie sacerdotale, finché nell’84 a. C. Tebe fu distrutta da Tolomeo IX Latiro. Un tentativo di far leva sul nazionalismo più vasto fu compiuto dall’ultima regina d’Egitto, Cleopatra, l’unica che parlasse la lingua egizia, ma il suo sogno finì con la sconfitta di Azio.
I Romani, conquistato l’Egitto, ne fecero una provincia a statuto speciale rispetto alle altre province dell’Impero, governata dagli stessi imperatori per mezzo di un prefetto di rango equestre. Inoltre il territorio era interdetto ai personaggi di rango senatorio. E gli imperatori, come già i Tolomei, si considerarono eredi dei faraoni e si fecero spesso rappresentare in abito e stile egizi, con il nome in geroglifici racchiuso in un cartiglio. Le istituzioni tolemaiche furono generalmente conservate e ci si appoggiò più all’elemento greco che a quello indigeno, tanto che, quando nel 212 Caracalla concesse la cittadinanza romana a tutti i cittadini dell’impero, gli Egizi, tranne i più illustri, ne restarono esclusi. Nei sec. I e II l’Egitto fu considerato “il granaio dell’impero” e da questa pesante situazione uscì fortemente impoverito, mentre sempre più si accentuava lo sfacelo delle classi abbienti, costrette a compiti amministrativi di cui dovevano sostenere anche le spese. Con la riforma dioclezianea l’Egitto venne diviso in tre province e venne a far parte della Diocesis Orientis governata da un prefetto avente sede in Antiochia. In questo periodo l’elemento ellenizzato, tranne che in Alessandria, andò perdendo la sua supremazia, mentre si fece strada di nuovo quello indigeno.
Nello stesso tempo si andava sempre più diffondendo, specie tra gli indigeni, il cristianesimo e si sviluppava una nuova lingua erede dell’antico egiziano, ma scritta in caratteri greci: il copto. Tuttavia anche l’avvento del cristianesimo non placò le lotte civili; anzi, dapprima si ebbero le fanatiche persecuzioni degli ultimi pagani, poi le contese, sempre violente, tra melchiti e monofisiti in cui si rispecchiava forse la sempre viva tensione tra mondo alessandrino e mondo indigeno, contadino, il primo volto a raffinate speculazioni teologiche, mentre il secondo, più rozzo ed elementare, diede vita al fenomeno del monachesimo. Nel 451 la ribellione del patriarca Dioscoro, che, avendo accettato l’eresia monofisita, era stato condannato dal Concilio di Calcedonia, staccò definitivamente la Chiesa copta dall’autorità di Bisanzio, sanzionando un conflitto che era anche politico. Nel 616 i Persiani, guidati da Cosroe, invasero l’Egitto, tenendolo in loro potere fino al 628 e, dopo una brevissima riconquista bizantina, intervennero gli Arabi che nel 641 lo invasero al comando di ʽAmr ibn al-ʽĀṣ battendo i Bizantini a Heliopolis.
Religione: generalità
Per la difficoltà di ridurre la religione egiziana a un unico sistema organico, gli studiosi, partendo dai miti cosmogonici, vi hanno individuato tre complessi principali arcaici (a partire dal III millennio), collegati ad altrettante città e sedi di culto: Eliopoli (la “Città-del-Sole”), Menfi (la capitale dei costruttori di piramidi), Ermopoli (la “Città-di-Ermete”, ossia del dio egiziano Toth che i Greci identificarono con il loro Ermete). La cosmogonia eliopolitana ha per protagonista il dio Sole (Râ), la menfitica il dio Terra (Ptah, detto anche Ta-tenen, Terra-che-si-solleva, con allusione alla sua emergenza dal Nun, il caos acquatico primordiale), e l’ermopolitana un gruppo solidale di 8 dei (ogdoade) intesi come un’unica entità cosmogonica ripartita per 4 aspetti in 4 coppie (un dio e una dea per coppia): Nun e Nunet (l’acqua primordiale), Heh e Hehet (lo spazio infinito), Kek e Keket (le tenebre), Ammone e Amonet (ciò che è nascosto).
Ogni mito, però, non ha valore a sé stante, perché, per esempio, l’ogdoade è un’emanazione di Râ. L’individuazione delle tre cosmogonie “fondamentali” non è utilizzabile nella ricerca di una forma religiosa che trascenda i singoli elementi, né questa forma religiosa sembra poter risultare dalle divinità dell’antico Egitto, perché anche in questo caso si è finito per assegnare singole divinità a singoli centri cultuali, spiegando poi la loro emergenza nella cultura egiziana con l’importanza politica assunta da quei centri nel corso del tempo; e, come per i miti cosmogonici, ci si è trovati di fronte a “sintesi” o “teocrasie” come quella di un Amon-Râ derivata dalla fusione del dio Râ di Eliopoli con il dio Ammone di Tebe. Anche in questo caso si ha una subordinazione delle concezioni divine a una forma religiosa che le trascende. Questa si fa intelligibile solo muovendo dalla concezione della regalità sacra, perché la regalità s’identifica con la forma religiosa egiziana: senza trascendere né esserne trascesa. Il che è bene espresso dal rito con cui il faraone, in quanto personificazione dell’Egitto stesso, adorava la propria immagine, come rappresentazione di tutta la sacralità. Quell’unità culturale che noi chiamiamo Egitto è sorta con la concezione della regalità (sacra): l’unificazione politica del Paese viene senza alcun dubbio attribuita all’istituto regale; non è assurdo, dunque, pensare che lo stesso istituto abbia acquisito l’unificazione culturale, e perciò anche religiosa, dell’Egitto.
Quando si parla di religioni etniche, come fu l’egiziana, non bisogna attribuire a esse contenuti validi di per sé (siano miti cosmogonici o concezioni divine), ossia credibili in assoluto come verità di “fede”. In una religione etnica ogni contenuto (e quindi anche le cosmogonie e gli dei) contribuisce all’edificazione politico-sociale di quel popolo che ne è portatore, e va pertanto considerato esclusivamente alla luce di questo suo fine. Per l’Egitto l’istituto regale è la ragion d’essere del popolo egiziano, per cui la religione egiziana è e si esplica soltanto in sua funzione e quindi si può dire che ogni mito e ogni divinità, in Egitto, esistano e siano documentati in funzione del re. Sopra questa o quella cosmogonia c’è il mito del concepimento divino di ogni singolo re. Al di là della concezione eliopolitana del dio Râ, o di quella tebana del dio Ammone, o della teocrasia Amon-Râ, c’è l’idea che il faraone sia figlio di Amon-Râ. Si arriva a dire, come è documentato, che è il faraone a illuminare con i raggi solari, è lui a far germinare la terra, ecc., quasi che non ci fosse bisogno di un dio-sole, di un dio-terra, ecc. È in questo quadro che si spiegano le “sintesi” e le “teocrasie” e finalmente la famosa riforma “monoteistica” di Amenofi IV (1360-1340 a. C.), il quale, perseguendo una sua politica ordinatrice dell’impero egiziano, ha creduto di poter vanificare tutte le entità divine riducendole alla forma emblematica del “disco solare” (Aton).
E il difetto di questa riforma – rilevabile a posteriori dalla sua sfortuna – non è nell’impossibilità di vanificare gli dei tradizionali, ma in una contraddizione interna: gli dei tradizionali non avevano una realtà culturale scindibile dalla regalità, e pertanto eliminandoli si minava alla base lo stesso istituto regale. Ossia: il re riformatore perdeva la capacità di fare la riforma. Del resto la riforma di Amenofi mirava alla costituzione di un organismo politico supernazionale, in cui il nuovo dio Aton doveva provvedere non soltanto agli Egizi ma anche alle altre genti dell’“impero”, e questa tendenza universalistica contrastava con la sostanza della religione etnica tradizionale. “Per approfondire Vedi Gedea Arte vol. 1 pp 140-145, 172-185” “Per approfondire vedi Gedea Arte vol. 1 pp 140-145, 172-185”
Religione: il mito di Osiride
Il complesso mitico-rituale del dio Osiride emerge tra gli altri culti in vista dell’individuazione di una realtà religiosa panegiziana. Ciò è possibile perché in questo complesso si cala completamente la sacralità dell’istituto regale; in esso si risolvono le contraddizioni inerenti alla condizione umana e mortale del faraone, chiamata a esprimere un’idea divina e immortale che la trascende. In altri termini: la vita del faraone che finisce con la sua morte è una “vicenda” che si svolge necessariamente sul piano della storia, mentre ciò che egli rappresenta (l’Egitto) deve essere un’entità sottratta al divenire storico, e quindi alla morte.
C’è bisogno di un “superamento” della morte del faraone che assicuri continuità all’Egitto. Tale superamento, che in uno Stato moderno sarebbe ottenuto da una costituzione, nell’antico Egitto era ottenuto mediante il mito osirico. I protagonisti del mito sono: Osiride, figlio del dio-terra Geb e della dea-cielo Nut (intesi come principi cosmogonici assoluti); la sua sorella-sposa Iside; il fratello antagonista Seth; il figlio Horus. La vicenda mitica: Seth uccide Osiride e ne fa a pezzi il corpo; Iside ricompone il cadavere del marito e ha da lui un figlio, Horus; questi uccide Seth, vendicando il padre e sostituendolo sul piano della “vita”; Osiride continuerà a esistere ma sul piano della “morte”: diventerà il dio dei morti. In questo mito d’indubbie origini predeistiche (gli dei infatti dovrebbero essere immortali) si cala la sacralità del faraone “mortale” e “dio” a un tempo. Non si tratta dell’identificazione meccanica del faraone con Osiride, ma della fondazione dei valori della regalità mediante una “vicenda” mitica che la sottrae alla storia, liberandola della “vicenda” storica determinata dalla vita e morte di ogni singolo faraone. Soltanto alla sua morte il faraone veniva “osirizzato”, ossia, mediante un rito, identificato con Osiride; il suo successore, invece, assumeva il titolo di Horus. Iside in questo contesto è presente per il suo nome significativo: vuol dire “trono”.
Quanto a Seth, la sua posizione è ambigua: sta probabilmente a rappresentare la “deperibilità” del faraone (e dunque la sua parte “cattiva”, non divina), su cui tuttavia Horus (ossia lo stesso faraone vivente) ha la meglio; ma è da notare che qualche re della II dinastia si fa chiamare Seth invece di Horus, il che sottrae Seth a un giudizio etico (il “nemico malvagio”) e lo riduce al ruolo di antagonista necessario allo sviluppo della vicenda mitica in cui deve calarsi la vicenda regale della morte e della successione al trono. Da notare infine che, oltre all’identificazione della regalità con il complesso osirico, si ha anche l’inverso, ossia l’identificazione di Osiride con la regalità: il dio nel mito era immaginato come un re dell’Egitto (il primo re) e, dopo morto, come il re dei morti. Rispetto a quel punto di partenza, per la comprensione della forma religiosa egiziana, che ci è parso essere l’istituto regale, Osiride dunque diventa necessario a differenza degli altri che sono soltanto contingenti. Se teoricamente il faraone può sostituire tutti gli dei settoriali o locali, altrettanto avviene per Osiride: se il faraone può sostituire un dio-sole e un dio-terra, Osiride si sostituisce, con il sistema delle “teocrasie”, nel campo d’azione del dio-sole Râ (formula: Amon-Râ-Osiride) e del dio-terra Ptah (formula: Ptah-Sokaris-Osiride). Il dio Toth di Ermopoli cede a Osiride il carattere di “incivilitore” o “fondatore della civiltà”, per ridursi a suo “scriba”.
E si potrebbe continuare così, ma in sostanza Osiride, come il faraone, è l’Egitto stesso: la morte del dio è equiparata all’inondazione del Nilo; il rito che la evocava aveva luogo nell’ultimo mese della stagione dell’Inondazione; e nel primo giorno della stagione dell’Emersione, quando il suolo egiziano fecondato dal Nilo risorgeva a nuova vita, si erigeva la colonna djed (nella scrittura ideografica significante “stabilità”), che poteva essere intesa come la “colonna vertebrale di Osiride”. Quanto sopravvisse alla fine dell’Egitto dopo la sua ellenizzazione e la conquista romana fu proprio il complesso osirico; ma indice della nuova situazione (non c’era più l’istituto faraonico, né l’Egitto come entità politico-culturale) fu lo spostamento di importanza da Osiride a Iside, alla quale dea s’intitolarono i “misteri” (isiaci) sorti sul modello greco dei “misteri eleusini”. Il “superamento della morte” che Osiride prospettava al faraone si risolveva, a livello della gente comune, nella credenza in una vita oltretombale che non trova riscontro in alcuna delle antiche culture mesopotamiche e mediterranee. Le idee egiziane sull’oltretomba muovono dal riconoscimento di una parte indeperibile dell’uomo (le due “anime”: il ka, “forza vitale” che viene trasferita nell’immagine funeraria, e il ba, una specie di “doppio” che con la morte si libera dal corpo per la nuova vita), ma soprattutto si fondano sull’acquisizione al diritto di una vita oltretombale mediante una vita adeguata all’ordine costituito, un “ordine cosmico” personificato dalla dea Maat, il cui nome significa “verità” o “giustizia” (è un concetto intraducibile); in altri termini mediante la perfetta subordinazione al faraone che di quell’ordine è promotore e garante.
Chi muore si presenta al giudizio di Osiride che commisura il suo cuore a Maat, mediante l’immagine di una pesa: se risulterà “giusto” sarà salvo, se “ingiusto” morrà una seconda volta e definitivamente. In Osiride, dunque, si risolve il problema della morte, non soltanto come superamento della contraddizione insita nell’istituto regale, ma anche della contraddizione insita nella condizione umana. Tutto ciò, ovviamente, nei limiti della condizione “egiziana”, perché essere Egizi significò in vita venire rappresentati da un faraone, e dopo la morte da Osiride.
Religione: panorama spazio-temporale delle divinità egiziane
In epoca preistorica è già attestata la credenza in una vita ultraterrena, accompagnata al culto di animali, di piante e di oggetti. Lo zoomorfismo è una caratteristica costante della religione egiziana (in genere, corpo umano e testa di montone, di vacca, di falco, di cane, d’ibis, ecc.), a ricordo forse di antichi culti totemici. Tra la fine della preistoria e l’inizio dell’età storica il panorama delle divinità offre già un quadro completo e ben individuato nelle singole località: a Elefantina, nella estremità meridionale del Paese, era venerato Khnum, dio dalla testa d’ariete, con le compagne Satis e Anuki; a Edfu un dio-falco, Horus; a el-Kab la dea-avvoltoio Nekhbet; a Hieraconpolis un altro Horus; a Hermonthis un altro dio-falco, Month; altri dei-falchi avevano un proprio culto in altre città della Vallata e del Delta; a Koptos aveva il proprio culto un dio antropomorfo e itifallico, Min, datore di fecondità e protettore delle vie carovaniere; a Dendera era venerata la dea-giovenca Hathor, connessa con Horus: dea celeste e funeraria, presiedeva all’amore e alla guerra, mutevole nell’aspetto di donna o di vacca; ad Abido era fiorente il culto alla dea Khenty-Amentyw, con aspetto di cane; ad Akhmin ricompare il dio Min; ad Asyût, Anubi, il curatore dei cadaveri, e Upuant, la guida dei morti, entrambi con aspetto canino; a Ermopoli dominava il saggio Toth, distributore della sapienza e dio della scrittura e della luna, con aspetto di babbuino o d’ibis; nel Faiyûm, zona di laghi, era venerato il dio-coccodrillo Sobek; Menfi onorava Ptah, dio creatore, assieme alla sposa Sechmet e al figlio Nefertum; a Sais, la dea Neith in forma umana; a Buto, una dea-serpente; a Busiride, prima Anegti e poi Osiride; a Sebennito, gli dei Shu e Tefnut; a Behbet, Iside; a Mende, un dio-ariete; a Bubasti, la dea-gatta Bastit; al confine orientale il dio-falco Sopdu.
All’inizio dell’epoca storica, per il fenomeno del sincretismo, diverse divinità s’identificarono fra loro scambiandosi aspetto, attributi e funzioni oppure costituendosi in triadi a carattere familiare: si ebbero così la triade menfita formata da Ptah, Sechmet e Nefertum; la tebana con Ammone, Mut e Khonso; quella più diffusa e popolare di Osiride, Iside e Horus, presente ancora in epoca tarda. Sorgevano frattanto i grandi sistemi teologici, fondati su divinità a carattere universale e raccolte in gruppi: la Grande Enneade con il dio primordiale Aton, da cui sono generati Shu (l’aria) e Tefnut (l’umidità); da questi nascono Geb (la terra) e Nut (il cielo), che a loro volta generano Osiride, Iside, Seth e Nefti. Secondo il sistema teologico di Ermopoli, da un originario caos acquatico sono generate quattro coppie di dei: i maschi-serpenti e le femmine-rane; dalla stessa acqua s’innalza un primo coacervo di terra, nido di un misterioso uovo, dal quale nasce il sole. Di ben diverso valore speculativo è la teologia menfita, che dice il mondo opera della parola creatrice di Ptah. Miti e leggende accompagnano l’evoluzione religiosa: di questi è tipico il ciclo di Osiride. Un altro ciclo si formò attorno a Râ, dio del sole, signore del mondo. La purezza della religione egiziana fu contaminata, all’inizio del Nuovo Regno, dai culti di divinità asiatiche, fra cui principali quelli a Qadesh, Reshef e Astarte; nel contempo, come antidoto alle difficoltà del vivere quotidiano, la devozione del popolo s’indirizzò verso divinità minori e locali, come Bes, Toeri e Mert-Seger, oppure rielaborò il culto d’Iside e di Osiride fuori degli schemi ufficiali e con forti connotazioni patetico-umane; frequente si fece pure il ricorso agli oracoli e ai sogni per ottenere un responso diretto dalla divinità o per avere una rapida giustizia dove la burocrazia religiosa era troppo lenta o inefficace. Questo processo si accentuò nella Bassa Epoca con l’affermazione di culti locali e la loro contemporanea degradazione fino a formulazioni abnormi. Nel periodo tolemaico il sincretismo completò la contaminazione della religione egiziana in un forzato connubio con gli dei greci: tipico è il dio Serapide, nuova forma di Osiride-Api. Il cristianesimo spazzerà via con la sua foga giovanile gli antichi dei: nel 391 venne bruciato il Serapeo di Alessandria e nel sec. VI chiuso il tempio di File, ultimo rifugio della religione egiziana.
Diritto
In mancanza di raccolte giuridiche, la sola fonte che fornisca qualche indizio sull’esistenza di leggi è lo storico Diodoro Siculo. Questi ipotizza che già Menes abbia legiferato, ma è fortemente improbabile che si trattasse di leggi scritte; nel corso del primo millennio a. C. si sarebbero avute diverse codificazioni: Bocchoris (720-715), Psammetico I (663-609), Amasi (569-526). La notizia sembrerebbe confermata da reperti nella tomba di Rekhmara, visir dell’Alto Egitto durante la XVII dinastia, raffiguranti quaranta rotoli di papiro, che ragionevolmente dovrebbero contenere testi di leggi. Un decreto penale di Horemhab sopra una stele di El-Karnak fa pensare che leggi scritte esistessero almeno dalla XIX dinastia. Di estremo interesse sono i papiri che, avendo conservato numerosi atti della prassi, consentono di ricostruire alcuni aspetti del diritto privato, seppure con discontinuità: molto rari per l’epoca più antica, abbondano nei tempi più recenti e sono redatti in lingua demotica.
Ordinamento giuridico e istituzioni
Il faraone riuniva sotto la sua autorità l’Alto e il Basso Egitto incarnandosi nelle loro divinità principali. Nel campo amministrativo le più importanti funzioni furono dapprima esercitate da un visir (tati, l’uomo per eccellenza) che, dietro investitura faraonica, aveva il potere di “dare leggi, conferire cariche, accertare i confini per distinguere un possessore da un suo vicino” (secondo alcuni studiosi una sorta di cesaropapismo). Con il tempo però si accentuò la tendenza ad affidare specifiche competenze a un certo numero di alti funzionari: tesoriere, cancelliere, economo, archivista. L’importanza della burocrazia, e in particolare degli scribi, si accrebbe durante il Nuovo Regno, tanto che alcuni parlano di “socialismo di Stato”: il territorio era diviso in 42 nómoi, ognuno retto da un nomarca, e comprendente città e villaggi con propri capi, assistiti da notabili locali, che avevano funzioni amministrative e giudiziarie. I rapporti tra il faraone e i nomarchi furono, durante i secoli, più volte turbati dalle tendenze separatistiche di questi ultimi. Altrettanto complessi furono i rapporti tra il faraone e l’aristocrazia sacerdotale che cercò sempre di esercitare una notevole influenza politica mediante la conferma oracolare della legittimità del faraone, contro la tendenza della corte a confinare i sacerdoti a esclusive funzioni religiose. Non è possibile accertare l’esistenza di schiavi durante l’Antico e Medio Regno, anche se è probabile che in quell’epoca i prigionieri di guerra fossero utilizzati come schiavi pubblici. È invece accertata l’esistenza di schiavi privati durante il Nuovo Regno.
Appare certo che lo schiavo potesse compiere atti giuridici: agire contro il padrone, possedere un piccolo patrimonio e crearsi una famiglia. § Per quanto concerne l’organizzazione familiare, i documenti relativi all’Antico Regno ce ne presentano uno stadio già sviluppato: spiccato era l’individualismo, con conseguente limitazione della potestà paterna e dell’autorità maritale, per cui tanto la moglie quanto i figli godevano di propria capacità giuridica. Il matrimonio era su base prevalentemente monogamica, ma esisteva anche la poligamia. Durante il Nuovo Regno i mutamenti economico-sociali affermarono nella struttura familiare la responsabilità del padre o, in sua mancanza, del figlio maggiore. Egli rispondeva, dinanzi al faraone, del lavoro imposto alla famiglia e dell’esecuzione delle prestazioni relative: tale fenomeno determinò l’accentuarsi dell’autorità paterna. Un ritorno all’individualismo, con caratteri ancora più marcati, si ebbe durante l’epoca saitica in cui si ristabilì la piena parità giuridica fra gli sposi. Per contrarre matrimonio era ora indispensabile il consenso degli sposi e la donna poteva disporre dei suoi beni e aveva, al pari del marito, il diritto di divorziare: in questo caso ella riprendeva la sua dote e il marito era tenuto a consegnare i propri beni ai figli nati dal matrimonio. Il problema successorio trova gli studiosi ampiamente divisi riguardo sia alla successione ab intestato sia a quella testamentaria.
Nel primo caso, la differenza fondamentale è tra chi sostiene la successione del figlio più anziano e chi afferma l’uguale posizione di tutti i figli, escludendo ogni privilegio. È possibile che entrambe le ipotesi siano valide con riferimento a diversi contesti socio-economici; nel secondo, pare debba escludersi l’esistenza del testamento vero e proprio: esistevano invece atti inter vivos in cui una parte o tutti i beni del disponente erano assegnati a una o più persone; il documento, quasi certamente, era trattenuto dal disponente fino alla sua morte, come garanzia. Durante il Nuovo Regno, l’“erede” diveniva tale soltanto se provvedeva alla sepoltura del defunto. Questa specie di testamento scomparve nel corso del I millennio a. C. Un soggetto poteva trasferire la proprietà di tutti o parte dei suoi beni, di solito immobili, a sacerdoti che provvedessero a tutto quello di cui il disponente abbisognasse dopo la sua morte. § Riguardo alla proprietà fondiaria, teoricamente la terra era di proprietà del faraone che poteva concederla in godimento a templi o a privati; in realtà, accanto al dominio prevalente del faraone, pare esistesse anche la proprietà privata: infatti, fin dall’Antico Regno, i documenti ci informano di privati che disponevano liberamente delle loro terre; nei periodi feudali, la terra si concentrò nelle mani di pochi grandi proprietari. Almeno fino alla XVIII dinastia l’obbligazione contrattuale si costituiva mediante un giuramento (contratto formale) o l’accettazione di una controprestazione (contratto reale). Il giuramento veniva prestato dalle due parti: l’una asseriva di aver eseguito la prestazione, l’altra prometteva di eseguire la controprestazione. Dalla XIX dinastia, il giuramento comparve sempre meno frequentemente, finché, alla fine del Nuovo Regno, non risultò più necessario.
Scienza e tecnica
La documentazione pervenutaci relativa all’antica scienza egiziana, sviluppatasi fino al sec. XII a. C., attesta la sostanziale assenza di un metodo realmente speculativo nell’affrontare i problemi di ordine scientifico. La scienza, infatti, fu appannaggio esclusivo dei sacerdoti che se ne servivano a scopi politici e religiosi mentre agli scribi era lasciato il compito di trasmettere un corpus di nozioni tecnico-scientifiche indispensabili per la risoluzione di problemi quasi identicamente ricorrenti, fra cui primario fu quello dell’utilizzazione delle piene periodiche del Nilo. Per la matematica, il più importante dei papiri ritrovati, detto Rhind, fu compilato da uno scriba di nome Ahmes nel 1660 a. C. ca., ma riproduce un documento di epoca molto anteriore.
Esso comprende 84 problemi che esemplificano i metodi di calcolo utilizzati dagli Egizi. Il sistema numerico era decimale, ma non era noto il valore posizionale di una cifra, e venivano utilizzate solo frazioni a numeratore uno, a eccezione di 2/3. Il carattere pratico si manifesta anche per la geometria, sviluppata soprattutto in funzione dell’agrimensura e della costruzione di edifici; essa si limitava a regole apprese empiricamente per calcolare la superficie di alcune figure e anche di solidi. Notevole è il fatto che per il calcolo della circonferenza veniva applicato un valore di 3,1604, cioè assai prossimo a quello di π. Le osservazioni astronomiche sono documentate dalle iscrizioni e raffigurazioni del cielo dipinte sui sarcofagi; da queste si ricava che gli Egizi dividevano le stelle della fascia equatoriale in trentasei gruppi, ognuno dei quali, quando sorgeva all’orizzonte immediatamente prima dell’alba, indicava l’inizio di un periodo di dieci giorni. L’anno aveva inizio al levare eliaco di Sothis, o Sirio, la stella che appare in corrispondenza delle periodiche inondazioni del Nilo, e il calendario comportava 12 mesi di trenta giorni ciascuno, cui venivano aggiunti 5 giorni supplementari che corrispondevano alle feste delle principali divinità.
La medicina raggiunse un livello notevole anche se fu intimamente legata a concezioni religiose e quindi accompagnata a pratiche magiche; fiorì anche, accanto alla medicina sacerdotale, una pratica medica popolare, professata da personaggi simili agli uomini-medicina tipici della cultura africana. Famoso è il processo di mummificazione che ha conservato fino a noi i corpi dei faraoni e dei nobili delle più antiche dinastie egizie. Nel papiro chirurgico di Smith (1700 a. C.), si trovano 48 precise descrizioni anatomiche e sintomatologiche seguite da prescrizioni e chiarimenti complementari. Nel papiro medico di Ebers, compilato nel 1600 a. C., si trova la descrizione di ben 47 malattie con i sintomi del caso seguiti da una diagnosi e da una prescrizione che attesta il buon livello raggiunto dalla farmacopea fondata su una profonda conoscenza della botanica e dell’erboristeria. In architettura e in idraulica furono raggiunti grandiosi risultati grazie soprattutto all’elevata abilità manuale di una mano d’opera a basso costo (servitù del tempio, schiavi); furono così realizzate le piramidi, che richiedevano il trasporto e la squadratura di enormi massi, e la canalizzazione del Nilo, senza impiegare strumenti meccanici più complessi della leva, del rullo e del piano inclinato. Per quanto riguarda le applicazioni tecniche, l’Egitto contava su una fiorente metallurgia, soprattutto dell’oro, su una produzione rilevante di ceramica, vetreria, tessuti, oggetti in legno, generi alimentari conservati, produzione spesso basata sul lavoro “a catena” sia di schiavi sia di liberi (si passava, con una serie di operazioni manuali “specializzate”, dalla materia prima al prodotto finito). Ciò favorì le ricerche sui materiali che, unitamente a quelle sulle proprietà di erbe e composti naturali, vengono considerate come le prime elementari nozioni di chimica. Pur avendo notevoli commerci con l’estero, anche con i Paesi delle coste etiopica (il paese di Punt) e sudarabica, la tecnica navale egiziana non fu brillante, limitandosi ad adattare per i trasporti di mare le imbarcazioni usate per la navigazione fluviale.
Lingue e scritture
I quesiti posti in Egitto dall’apparire di una lingua scritta all’alba del III millennio a. C. sono di molteplice natura e concernono la lingua, la scrittura come sistema funzionale e la scrittura come rappresentazione grafica. Queste tre componenti, nel corso della loro lunga storia, seguono vicende disuguali anche se in certa misura tra loro corrispondenti. In Egitto fin da principio è attestata una sola lingua nazionale, chiamata appunto “egiziano”. Essa costituisce gruppo a sé stante all’interno della famiglia camitosemitica, accanto a cuscitico, berbero e semitico (rapporti sono stati riscontrati anche con lingue negre). Storicamente non consta che essa fosse imposta al Paese da un popolo invasore. Siccome fino al sopravvento della lingua degli invasori arabi, che avvenne dopo il sec. X dell’era volgare, la lingua egiziana rimase il principale veicolo di cultura in Egitto per quattro millenni, essa subì modificazioni significative nella struttura e nel lessico, producendo varie lingue successive che stanno tra loro in rapporto genetico. Queste trasformazioni comportano il passaggio da una fase sintetica a una fase spiccatamente analitica.
Dalla lingua più anticamente attestata, detta antico egiziano, si passa gradualmente al medioegiziano o egiziano classico, completamente formato già verso il 2100 a. C. In questo idioma furono composte le maggiori opere letterarie, religiose e scientifiche, ed esso fu adoperato fino a quando si scrisse in geroglifici, come lingua dotta e sacra dell’Egitto. La parlata usata dal popolo continuò tuttavia in rapida evoluzione e ricevette dignità ufficiale con la “rivoluzione” di El Amârna (1300 a. C.). Tale favella, il neoegiziano o egiziano tardo, presenta caratteri profondamente analitici e una forte penetrazione di parole straniere, secondo una tendenza che continua in demotico (attestato dal 600 a. C.) e in copto (dal sec. III d. C.). La lingua copta, espressione anche dell’Egitto cristiano, è differenziata in parecchi dialetti, in ordine di tempo: akhmimico e subakhmimico, fayumico, saidico, bohairico, l’ultimo dei quali è la lingua liturgica della Chiesa copta. Delle lingue straniere parlate in Egitto solo alcune hanno lasciato tracce: l’accadico, come lingua diplomatica del II millennio a. C.; l’aramaico, usato dalle colonie semitiche al tempo dell’impero persiano; il cario, proveniente dall’Anatolia; soprattutto il greco, che con i Tolomei divenne lingua dell’amministrazione. § La scrittura indigena dell’Egitto è un’invenzione originale della fine del IV millennio a. C. Pur nella sua complessità offre una serie di accorgimenti che la rendono logica e funzionale e ha subito nel tempo solo trasformazioni secondarie, benché da essa si sia probabilmente sviluppata l’idea dell’alfabeto in Asia.
Il principio consiste nel combinare rappresentazioni di cose e di suoni. Vige un criterio di semplificazione e di economia, sia nel disegno delle forme, sia nell’adozione di segni diacritici, sia nell’esclusione delle vocali dalla lettura delle parole. Si ottengono così solo schemi consonantici, accompagnati da segni che non si leggono, ma precisano sia il senso sia il suono dei vocaboli (determinativi). Ogni parola tende a un’ortografia costante; tuttavia il mutare della lingua porta alla preferenza di grafie storiche o pseudoetimologiche (tipiche del neoegiziano e del demotico). È da menzionare anche l’uso dei segni con valori segreti (criptografia). Il sistema dura vitale fino in età romana, ricreando al suo tramonto nuovi numerosi usi e forme di segni (tolemaico). La lingua copta si scrive invece con un alfabeto greco, ma presenta un fonetismo fortemente alterato. § La scrittura egizia disegna i suoi simboli o “geroglifici” copiandoli dal mondo della valle del Nilo, con una sensibilità estetica che si mantiene attraverso tutte le età, pur con gusto e stile diversi. Accanto alle forme figurate per la scrittura corrente si adattano fin dalle origini forme semplificate, dette ieratico. Nello stesso tempo la scrittura amministrativa evolve verso criteri di assai maggiore semplicità e sbocca nel demotico. Nei primi secoli della nostra era, dopo vari tentativi, l’alfabeto greco fu definitivamente adattato per scrivere la fase linguistica nota come copto. In rarissimi casi la scrittura egizia fu adoperata per lingue diverse dall’egiziano. Solo tardi le scritture geroglifica e demotica furono adattate dalla civiltà meroitica, che adopera un numero limitato di segni con valori alfabetici. Sull’argomento si vedano anche le voci Deir el Medina, óstraka, papiro, scriba.
Letteratura: generalità
Le lingue dell’Egitto sono tutte attestate in forma letteraria, in un continuo accrescimento di esperienze e di moduli che portano al loro alto perfezionamento. La conservazione delle opere è però casuale e con ingenti lacune, per la deperibilità dei materiali (papiri, pergamene, óstraka, epigrafi); inoltre solo una parte di esse è realmente documentata nel periodo che le produsse, ma l’indagine storica consente spesso una datazione attendibile. Si può infatti seguire l’evoluzione dei diversi generi nel corso delle età e quasi sempre risalire alla loro origine, a causa della precoce invenzione della scrittura. La letteratura dell’antico egiziano raggiunge già una notevole varietà di modelli. Oltre agli scritti di carattere religioso, che sono i più diffusi e riprendono in parte tradizioni preistoriche (Testi delle Piramidi), risalgono all’Antico Regno, anche se spesso trasmessi da copie posteriori, scritti morali (genere sapienziale, che culmina nelle Massime di Ptahhotep), scientifici (testi medici), speculativi (Teologia Menfita), naturalistici e geografici (rappresentazioni del mondo e della fauna nel tempio solare di Niuserrê; liste di domini funerari), giuridici (decreti regali e contratti privati), storici (costituiti soprattutto da autobiografie di personaggi, ma anche da cronache ufficiali come gli Annali della Pietra di Palermo), narrativo-dialogici (brevi scenette di genere raffigurate nelle tombe). Resoconti di viaggi ed esplorazioni in Asia e in Africa sono riportati dalle biografie di Weni e dei principi di Elefantina.
Letteratura: il periodo classico
Il periodo considerato classico già dagli Egizi appartiene all’egiziano medio (dal 2100 a. C.), che sopravvisse in certi usi fino alla scomparsa dei faraoni quando da lungo tempo tale lingua era desueta, e nel quale furono tradotte e commentate anche opere del periodo precedente (testi religiosi, Massime di Ptahhotep, il Trattato di Chirurgia del papiro Smith). Tale fase è contraddistinta da una grande produzione letteraria di ispirazione multiforme. Continua una massiccia composizione di testi religiosi e funerari (i Testi dei Sarcofagi) che incorporano inni, rituali, formule magiche, drammi sacri. La forma drammatica è conservata anche dal Cerimoniale per l’Intronizzazione di Sesostri I e dal Mito di Osiride, celebrato durante le feste di Abido.
Si diffonde la narrativa con opere di vigore stilistico (Avventure di Sinuhe e Racconto del Naufrago; la collana di leggende storiche contenuta nel papiro Westcar, per citare le più famose), non senza rapporti con l’attitudine alla descrizione che si sviluppa in parecchie autobiografie private e con un intento propagandistico. Infatti alla letteratura pessimistica causata da un periodo torbido intorno al 2200-2100 a. C., con opere complesse aventi diversi tratti comuni (Suicida,Canto dell’Arpista,Ammonimenti di Ipu), subentra dopo il rafforzamento dello Stato una direttiva politica, in forma morale (Insegnamento per Merikara), polemica (Insegnamento di Amenemhat I), profetica (Profezia di Neferti), celebrativa (Panegirico regale; inni vari), satirica (Insegnamento di Kheti), che si manifesta anche nelle opere di intento più genericamente narrativo e retorico. Fra queste ultime, i discorsi dell’Oasita facondo, di Sisobk, di Khakheperrasonb. Lo sforzo di educare una classe di amministratori comporta sia iniziative di propaganda (il già menzionato Insegnamento di Kheti, o Satira dei Mestieri) sia la creazione di un genere didascalico, rappresentato da sussidiari scolastici (Libro della Kemit) come da opere enciclopedico-lessicografiche (gli Onomastica), in cui si codifica la tendenza a classificare e catalogare, che è propria di varie attività fin dall’Antico Regno.
Impulso ricevono pure l’epistolografia e la storiografia, individuabile in sezioni limitate delle opere politiche e narrative (perciò sempre ispirata dal faraone) e in taluni resoconti schematici (Annali di Thutmose III). Circa la forma, si suppone un largo uso di prosa cadenzata, oltre a una certa varietà di espedienti retorici (allitterazioni, parallelismi, antitesi), spinti talora al virtuosismo (inni redatti come cruciverba). L’esposizione avviene in prima e in terza persona; il dialogo è alla base del testo del Suicida e delle Azioni drammatiche. La letteratura scientifica è presente con trattati vari di medicina (papiri Smith ed Ebers principalmente), veterinaria (papiro di Illahun), calcolo e geometria (papiri di Mosca e Rhindi). Sotto forma specialmente figurata si possono menzionare saggi di scienze naturali (zoologia, botanica, mineralogia). Questa letteratura, tutta documentata per il Medio Regno, fu ulteriormente arricchita nelle età successive, anche se con l’influsso della parlata neoegiziana.
Letteratura: le opere in lingua neoegiziana
La letteratura in lingua neoegiziana nasce in circostanze in cui si vuol dare un volto popolare agli scritti pubblicati. Il primo monumento in tal senso sono le stele di Kamose che narrano la cacciata degli Hyksos (1580 a. C.), riproponendo il Racconto di gesta del re, tema che ebbe singolare fortuna nel Nuovo Regno. Del neoegiziano si serve poi largamente l’Età di El Amârna (1300 a. C.) per diffondere le nuove dottrine religiose (Inno ad Aton), di impostazione universale e naturalistica. Presto appaiono opere narrative in una lingua carica di reminiscenze medioegiziane (I due fratelli, Il principe predestinato), e si conoscono opere in egiziano classico tradotte in neoegiziano, come le Massime di Any e il Rituale per sconfiggere il Maligno. Particolare rilievo assumono in neoegiziano il poema epico (Poema di Qadesh), la lirica (canti d’amore “nel giardino”, “in riva al fiume” e altri; inni religiosi), la pedagogia (antologie scolastiche dette Miscellanee per il carattere eterogeneo; nuovi Onomastica o Elenchi di cose; esercizi didattici documentati dagli scavi di Deir el Medina; costituzione di un canone di scrittori).
Continua la diffusione della magia con ricche collezioni di formule profilattiche e di amuleti (le più celebri sono nei papiri di Torino, di Leida e di Londra), l’oniromanzia (papiro Beatty III), i calendari dei giorni fasti e nefasti (papiri al Cairo e Londra), gli oracoli. Rimangono diversi rituali per il culto di vari dei nei propri edifici, e una massa di papiri che accompagnavano le mummie nella tomba o Libro dei Morti. La mitologia si esprime in forma narrativa (Racconto di Horus e Seth), nasce l’allegoria (Racconto di Verità e Menzogna) e l’apologo (Giudizio del corpo e della testa); la favola esiste solo in forma figurata. Le composizioni scribali aggiungono esempi di epistolografia e di satira (Epistola satirica). La cronografia è documentata dal Canone dei Re conservato a Torino. Compilazioni geografiche si ricavano da indizi indiretti (per esempio: liste delle città e dei paesi dell’ecumene; registri di catasto in documenti amministrativi come il papiro Wilbour; descrizioni di luoghi particolari in varie occasioni (Avventure di Wenamon). Si hanno carte geografiche (miniere del Wadi Hammamat in un papiro di Torino; topografia dell’Oltretomba, come l’Amduat; mappamondi primordiali) e raffigurazioni astronomiche nei soffitti delle tombe dei re. Si descrivono le prime istituzioni politiche (Discorso per l’insediamento del visir).
Si intuisce un vario interscambio con la civiltà asiatica, che continua nella letteratura demotica. Nella mitologia e nella magia fanno apparizione divinità e culti siriani (leggende di Astarte e di Anat); nel campo del diritto è da menzionare il trattato internazionale stipulato da Ramesse II con gli Ittiti; nel genere morale si riscontrano relazioni fra le Massime di Amenemope e i Proverbi di Salomone; il Poema di Qadesh e le Avventure di Wenamon sono frutto di esperienze comuni ad altri popoli mediterranei; vi è più tardi influsso mesopotamico nell’astrologia (presagi ricavati dalle eclissi).
Letteratura: la letteratura demotica e templare
Nella letteratura demotica (dal 500 a. C.) si continua l’ispirazione civile, dove spiccano i due generi della sapienza e della narrativa. Mentre la prima rifà schemi antichi (Insegnamento di Ankhsheshonq), la seconda assume ora l’aspetto di cicli ricchi e complessi, che mostrano talora il romanzo in una forma perfetta (Petubasti e Setne). Ma il periodo demotico è distinto da un cospicuo numero di documenti legali (testamenti, compravendite) dei quali son pervenuti interi archivi che permettono di ricostituire il diritto civile. Si è anche annunciata la scoperta di un codice di leggi. Si allargano anche gli studi grammaticali, con paradigmi di forme, che avevano già fatto la prima apparizione nel Nuovo Regno. In demotico sono infine opere religiose, funerarie, magiche, pseudostoriche (Cronaca demotica). Contemporaneamente la cultura templare continua ad utilizzare l’egiziano classico nel tentativo di dare una sintesi finale ai riti (nei templi tolemaici e romani, in cui compare anche qualche allusione alla chimica, nella preparazione di ricette), alle tradizioni religiose locali (trattati di topografia cultuale), in cui si avverte a volte anche una più larga visione del mondo (Racconto della Principessa di Battriana), alla storia e alla cronografia (la Storia dell’Egitto, in greco, di Manetone), persino alla scrittura (liste di geroglifici, con un’eco in Orapollo). Manca tuttavia una creatività originale e le tradizioni letterarie sono destinate all’oblio. Nell’anima popolare, pur nel contesto della mutata cultura copta, si conserverà l’inclinazione al romanzo, costituita dai frammenti del Romanzo di Alessandro e dal Romanzo di Cambise, così come riappariranno in testi gnostici e cristiani alcuni tratti dell’immaginazione antica.
Letteratura: l’età cristiana
La narrativa egizia di età cristiana continua l’inclinazione indigena per il romanzo (Ciclo di Petubasti) e ci è documentata da scarsi resti, attestati soltanto in copto (Romanzo di Cambise), tradotti in greco (come l’introduzione alla Storia di Imhotep del papiro di Ossirinco), oppure in greco e in copto come il Romanzo di Alessandro. Questo nulla ha a che vedere con i Fatti di Alessandro attribuita a Callistene, ma fu redatto in ambiente alessandrino del sec. III d. C. ed ebbe vastissima risonanza. Delle varie traduzioni dal greco (armena, siriaca, araba, etiopica, latina, ecc.) che sono note, rimangono alcuni fogli relativi a una recensione copta, che conserva episodi originali, quali le imprese in Elam e in Persia o lo stratagemma della finta morte del conquistatore. Il racconto prescinde dalla verità storica e geografica (Alessandro appare come figlio del faraone Nectanebo), contiene varianti e contraddizioni e attinge largamente al meraviglioso, onde il successo della saga, nonostante la povera qualità letteraria.
Arte: l’età predinastica e arcaica
La storia dell’arte egiziana è una disciplina relativamente recente. È solo a partire dai primi decenni dell’Ottocento che Champollion, il decifratore dei geroglifici, ponendosi in aperto contrasto con le affermazioni di Winckelmann e dei suoi stessi contemporanei che definivano “curiosità” i prodotti artistici dell’Antico Egitto, osava affermarne la grandezza. Da allora gli studi e le scoperte hanno grandemente arricchito la nostra valutazione critica con l’apporto di una straordinaria quantità e varietà di materiale che le favorevoli condizioni climatiche hanno contribuito a conservare. Si tratta di materiale generalmente ben datato, grazie alle iscrizioni che quasi sempre accompagnano ogni categoria di monumenti.
È tuttavia un’arte sostanzialmente anonima (pochi sono i nomi degli artisti e quasi sempre non connessi con le loro realizzazioni) e di cui si ignorano in genere i fondamenti teorici, contrariamente a quanto avviene, per esempio, per la storia dell’arte greca e romana. Tralasciando i manufatti di età predinastica, che pure raggiungono livelli di notevole raffinatezza nell’industria ceramica e litica (culture di El-Badâri e di Naqâda), all’inizio dell’epoca storica le più importanti testimonianze figurative sono quelle stesse che ci forniscono i dati per la ricostruzione degli avvenimenti. Si tratta di teste di mazza e di tavolozze in scisto (analoghe a quelle che venivano usate per stemperare il belletto, ma aventi qui la funzione di offerta rituale) su cui sono raffigurati gli avvenimenti che portarono all’unificazione dell’Egitto. Tali la mazza del Re Scorpione e la paletta di Narmer in cui si trovano, già mature, alcune delle convenzioni e dei motivi tipologici che continueranno poi lungo tutta la storia dell’arte egizia: la rappresentazione del corpo umano come complesso di elementi frontali e laterali, l’uso di registri per indicare valori spaziali, il gusto della composizione ritmica, i canoni di misura che regolano le proporzioni delle figure.
Dell’architettura di quest’epoca, trattandosi in genere di costruzioni in mattoni crudi, poco è rimasto. Le tombe e i cenotafi (Menfi e necropoli di Abido) dei sovrani e dei grandi funzionari sono già chiaramente scandite nei due elementi che saranno sempre caratteristici della sepoltura egizia: l’infrastruttura destinata a contenere il cadavere e il suo corredo e a essere chiusa definitivamente dopo il funerale, e la sovrastruttura con il luogo per l’offerta, accessibile ai vivi. Nelle tombe più ricche la sovrastruttura ha un muro perimetrale a nicchie che risale forse a modelli mesopotamici. L’ultimo frutto dell’impostazione narrativa arcaica si ha nel complesso funerario di Gioser a Saqqâra, la cosiddetta piramide a gradoni. Qui per la prima volta la tomba regale viene nettamente differenziata da quella dei funzionari, con l’adozione di una sovrastruttura composta da più mastabe sovrapposte (tombe a tumulo rettangolare, a pareti rastremate), che sarà l’antecedente tipologico della piramide. Intorno sono vari edifici che riproducono in pietra quelli più antichi di canne, legno e mattoni crudi ove avvenivano le cerimonie del culto, specie quelle volte a esaltare il re-dio. “Per approfondire Vedi Gedea Arte vol. 1 pp 146-149” “Per approfondire Vedi Gedea Arte vol. 1 pp 146-149”
Arte: l’Antico Regno (2778 a.C.-2220 ca.)
Nell’età menfita, soprattutto durante la IV dinastia, l’impulso accentratore della regalità divina produsse anche nelle arti i suoi frutti. Il linguaggio formale, dettato dagli artisti della capitale, diventa sommamente stringato, intellettuale, tendente a un’impassibile geometria. Il monumento tipico dell’epoca, la piramide (di cui gli esempi più famosi sono le tre piramidi di Cheope, Chefren e Micerino a El Gîza può servire da paradigma per questa concezione. Essa forse deriva tipologicamente e concettualmente dalla piramide a gradoni, ma in realtà se ne distacca profondamente. Si ha qui e nei templi annessi, come nelle mastabe dei funzionari, un’architettura volta a creare forme geometriche pure, prive di interesse per gli spazi interni che si riducono a piccoli vani, quasi scavati nell’interno di una roccia. La medesima concentrazione e lo stesso rigore stilistico si osservano nella scultura a tutto tondo e nel rilievo.
Le statue dei sovrani e dei funzionari della IV dinastia non indulgono a ricerche descrittive o espressive; l’individualità del personaggio rappresentato non è quasi mai affidata ai dati fisiognomici, ma ad altri elementi: il nome scritto, le caratteristiche tipologiche del volto, dell’atteggiamento o dell’abbigliamento. Perfino le statue dei sovrani, come quelle di Chefren e di Micerino, pur nella presenza di alcuni dati fisiognomici, sono più astratte idealizzazioni che veri ritratti. Fanno eccezione solo alcune mirabili realizzazioni alle quali sarebbe difficile negare il carattere di ritratto: la statua di Hemiunu (Hildesheim, Museo) e il busto di Ankhhaf (New York, Metropolitan Museum). Si vedano invece per confronto le due statue in calcare dipinto di Rahotep e Nofre al Cairo. Durante la V e VI dinastia questo rigore si allenta, in coincidenza con il rinascere delle spinte centrifughe da parte degli ambienti provinciali. Qui le vecchie tradizioni che non si erano mai spente, pur sotto l’influsso delle scuole della capitale, riprendono vigore, senza abbandonare le conquiste stilistiche dell’epoca precedente, e introducono nuova linfa vitale nell’astratto tessuto del rigorismo menfita.
Vi è un’aspirazione all’individualità che nella statuaria produce alcuni mirabili capolavori quali lo Scriba del Louvre e lo Scekh el-Balad, e nella figurazione piana dà origine agli splendidi rilievi che ornano gli ambienti interni delle mastabe: scene di caccia, pesca, allevamento del bestiame, offerte funerarie. Simile interesse narrativo si ha in alcune statuette di personaggi deformi e di servitori intenti a macinare il grano o a fare la birra, in cui la rottura degli schemi tradizionali sarà fecondo germe di rinnovamento per le realizzazioni future. Nell’architettura si abbandona l’astrattezza geometrica in favore di un più sciolto articolarsi delle strutture e degli elementi che le compongono. Le piramidi regali più piccole hanno templi funerari in cui colonne a capitello floreale si sostituiscono ai nudi pilastri del tempio di Chefren e le pareti sono ravvivate da rilievi. Anche le mastabe dei funzionari vengono scavate all’interno per creare le stanze per il culto e la camera per la statua (serdāb). I templi dedicati al culto solare riprendono forse modelli arcaici, incentrati su un pilastro all’aperto circondato da un cortile, di cui il più imponente doveva essere il santuario di Eliopoli. Il tempio di Abū Gurāb, costruito da Neuserra, è l’unico di cui si possa ricreare l’aspetto, mentre scarse tracce si hanno di quello di Userkaf. Nel periodo intermedio il processo di allentamento della tensione menfita per opera degli ambienti provinciali giunge alle sue estreme conseguenze. Le botteghe provinciali, abbandonate a se stesse, senza la possibilità di innestare le proprie esperienze su una solida cultura formale, raggiungono talvolta risultati felici per vivacità e freschezza di ispirazione, ma nella maggior parte dei casi si hanno soltanto conquiste casuali o informi abbozzi. Così per esempio nelle figurazioni piane si abbandona la rigida composizione a registri per una più istintiva visione spaziale, senza però riuscire a concretare queste esperienze in un coerente linguaggio formale (decorazioni nelle tombe del Medio Egitto a Beni Hasan, Asyût, Nağ el Deyr; nel sud a El Muʽalla, a Gebelein; e, sul confine meridionale, vicino ad Aswân). “Per approfondire vedi Gedea Arte vol. 1 pp 130-132” “Per approfondire Vedi Gedea Arte vol. 1 pp 130-132”
Arte: il Medio Regno (2000 a.C.-1785 ca.)
È solo con l’inizio del Medio Regno e con la riconquista dell’unità nazionale che queste esperienze vitali, confluendo nuovamente sul filone tradizionale, diventano linguaggio stilistico. Il primo importante monumento risale appunto al riunificatore dell’Egitto, Mentuhotep I ed è il suo tempio funerario a Deir el-Bahari. Qui una piccola piramide si innalza su un basamento a due ordini circondato da porticati, e un altro porticato trasversale dà accesso agli ambienti funerari scavati nella montagna. Vi si sentono le esperienze dell’architettura menfita e insieme dell’architettura funeraria provinciale, con le sue tombe scavate nella roccia, ma rinnovate da un’esigenza di rendere più mossi gli spazi. È ancora un’architettura di soli esterni, ma sentiti in modo assai diverso dalla lineare purezza menfita. Anche le statue del fondatore, completamente avvolte in un bianco mantello, nella loro voluta rozzezza appaiono programmaticamente perentorie, nell’intento di affermare la riconquistata regalità.
La XII dinastia si mantiene in questa linea, ponendosi con ancor maggiore coerenza alla riconquista della tradizione. I sovrani adottano di nuovo la piramide come sepoltura (anche se con assai minore impiego di mezzi), ma di essa, e in genere dell’architettura di quest’epoca, poco è rimasto. Dei templi divini, per la maggior parte distrutti per far luogo a edifici più recenti, restano un piccolo tempio a Medinet Madi nel Faiyûm e un sacello per la barca sacra a El-Karnak (ricostruito da blocchi reimpiegati in un pilone del tempio di Karnak), aventi entrambi una pianta assai semplice: santuario a tre celle preceduto da un atrio con colonne quello di Medinet Madi, padiglione periptero quello di El-Karnak. La statuaria dell’inizio della dinastia ricalca, forse un po’ freddamente, i moduli menfiti (come le statue di Sesostri I da el-Lisht) e il linguaggio formale si fa più caldo e spontaneo solo verso la fine della dinastia e particolarmente nei ritratti di Sesostri III e Amenemhat III, in cui i volti dei sovrani appaiono, in contrasto con le serene e idealizzate immagini del re-dio menfita, emaciati, affaticati e oppressi dal peso del potere e delle responsabilità. Nel rilievo e nella pittura, che da questo momento vanno acquistando sempre maggiore importanza, prevale l’interesse narrativo, il gusto di riprodurre avvenimenti notevoli e atipici, come il trasporto di un colosso e l’arrivo di tribù asiatiche che è pretesto a un gioco di colori. “Per approfondire Vedi Gedea Arte vol. 1 pp 133-134” “Per approfondire Vedi Gedea Arte vol. 1 pp 133-134”
Arte: il Nuovo Regno (1580 a.C.-1085 ca.)
Con la XVIII dinastia l’Egitto, reduce dalla vittoria sugli Hyksos, avanza in Asia e ne riporta ricchezze che vengono distribuite tra le diverse classi della popolazione. L’allargarsi del numero dei fruitori del prodotto artistico fa sì che questo tenda a trasformarsi in prodotto di artigianato, sia pure di altissimo livello, che si avvale di tecniche raffinate e di una lunga tradizione, cui si aggiunge una sensibilità per il decorativo propria dell’arte siro-palestinese.
La capitale è trasferita a Tebe, luogo di origine della dinastia e sede di culto del dio nazionale, Ammone, considerato patrono della rinascita e delle feconde conquiste asiatiche, e al quale i sovrani dedicano templi grandiosi. Sulla riva orientale del Nilo, dove aveva sede la città, si sviluppano i due templi monumentali di El-Karnak e di Luxor che, iniziati dai primi sovrani della XVIII dinastia, continueranno poi a essere ampliati in tutte le epoche successive. In essi lo spazio e l’architettura non sono più forme geometriche impenetrabili, ma insiemi articolati in cui si può entrare, muoversi, in cui luci e ombre vivificano interno ed esterno ormai concepiti come un tutto unico.
Tra gli edifici più notevoli, il cosiddetto “salone delle feste” di Thutmose III, a pianta basilicale, con il tetto a due livelli sostenuto da colonne a forma di pali da tenda, e il nucleo del tempio di Luxor, dovuto ad Amenofi III, in cui il cortile è preceduto da un grande corridoio a colonne. Sulla riva occidentale, invece, sorgono le necropoli in cui le tombe regali, per maggiore sicurezza, sono nascoste nelle viscere della montagna (Valle dei Re e Valle delle Regine), mentre i templi funerari, prima connessi con il sepolcro, e ora totalmente scissi, sorgono nella parte pianeggiante al di qua della catena libica. Capolavoro dell’epoca è il tempio di Hatshepsut, dovuto all’architetto Senmut (uno dei pochi di cui si conosca il nome), costituito da terrazze porticate a livelli successivi, innalzantisi per mezzo di rampe fino all’alta parete rocciosa che sovrasta la regione ed entro la quale si scavano gli ambienti del santuario. L’architettura si inserisce con grande eleganza nell’ambiente naturale, sull’esempio certo del precedente tempio di Mentuhotep che sorge accanto, ma con un’audacia innovatrice ancora maggiore.
La scultura, il rilievo e la pittura dell’inizio della dinastia riflettono appieno le ricerche di eleganza formale. Un linguaggio più sciolto si ha nella pittura, ampiamente usata nella decorazione delle tombe, che spesso trova accenti di estrema freschezza e vivacità, specie quando riesce a liberarsi dalle pastoie della tradizione e delle scene prefissate e inventa particolari inediti, con una tecnica di pennellata sciolta e vivace, senza linea di contorno. In questo mondo elegante e composto, di grazia sorridente, piomba la violenza della rivoluzione amarniana che, specie all’inizio, nei colossi e nei rilievi di El-Karnak, rovescia programmaticamente e provocatoriamente ogni ricerca di eleganza, accentuando in senso espressionistico tutte le spiacevolezze del modello che è, in questo caso, il faraone stesso. A El Amârna, la nuova capitale fondata in onore del disco solare, il linguaggio si fa più misurato senza però abbandonare quella ricerca della Maat (la verità) che è alla base di tutta la riforma di Ekhnaton. C’è l’esigenza di rappresentare la vita nel momento in cui si sta svolgendo, nel suo movimento, nel suo variare, e perciò con il gusto del particolare, delle forme sgraziate in contrapposto all’ideale bellezza dei modelli precedenti. Il faraone demiurgo diventa il soggetto principe, non più ritratto aulicamente sul trono, ma colto nelle situazioni quotidiane, mentre accarezza la sposa Nefertiti o tiene amorosamente in collo le figliolette o piange disperato la morte di una di esse.
Il linguaggio formale è qui incentrato su ricerche luministiche; la luce crea la forma e la fa mutare volta a volta secondo il punto di vista da cui la si osserva. Basti osservare la mirabile serie di sculture trovate nello studio dello scultore Thutmose. Con l’abbandono di El Amârna e la rinuncia agli ideali religiosi che ne erano a fondamento, anche la violenza rivoluzionaria del linguaggio artistico cade a favore di una vera e propria restaurazione, che però non potrà eliminare le conquiste ormai raggiunte: una maggior libertà nelle raffigurazioni, l’abbandono degli schemi e un ritmo sempre più narrativo e quotidiano, sia che si raffiguri il sovrano nell’intimità sia che vengano narrate le sue imprese guerresche, come nei rilievi di Ramesse II e III, con le scene della battaglia di Qadesh e delle lotte contro i Popoli del mare, veri manifesti propagandistici destinati a tutto il popolo. Si sviluppa in quest’epoca la pianta del tempio che diventerà canonica: pilone, cortile porticato, ipostila (sala a colonne), vestibolo, santuario.
L’esterno è un nudo muraglione, animato sulla facciata dalla presenza del pilone, costituito da due alte torri rastremate ai due lati della porta; l’interno intende mostrare la sempre maggiore sacertà dei luoghi man mano che si avanza verso il sacrario, diminuendo gli spazi e accentuando le ombre. Si rovesciano qui i rapporti architettonici dell’età menfita: là si era trattato di un’architettura solo di esterni, qui invece è quasi esclusivamente l’interno che appare degno di attenzione. Vi è anche in quest’epoca uno straordinario gusto del colossale, sia nella scultura sia nell’architettura, che trova il suo apice in Ramesse II, infaticabile costruttore, e nel suo successore e imitatore Ramesse III. Al primo risalgono, tra l’altro, la grande sala ipostila di El-Karnak, il Ramesseo (il suo tempio funerario) e i due templi di Abu Simbel; al secondo il tempio fortezza di Medinet Habu (tempio funerario cinto da un muro con torri e ornato da monumentali figurazioni a rilievo) e il tempio di Khonsu a El-Karnak.
Arte: dalla Bassa Epoca (1085 a.C.-332 ca.) all’Epoca Greca (332 a.C.-30 ca.)
Il periodo di decadenza seguito alla morte di Ramesse III è caratterizzato dalla produzione su larga scala di statuette di bronzo, tra cui emerge quella ageminata d’oro, d’argento e di elettro della “Divina Adoratrice” Karomama (ora a Parigi, Louvre). Intorno al 725 una dinastia nubiana penetra in Egitto con il proposito di restaurarvi la vera tradizione egizia. Così, di fronte alle ormai stremate raffinatezze delle dinastie XXI-XXIV, si riafferma, durante la XXV dinastia, una rude vigoria che ha i suoi modelli nelle età più antiche, con un senso un po’ esteriore della forza che si esprime con teste tonde e corpi pesanti, e un nuovo amore per il ritratto. Queste tendenze sono portate avanti dalla XXVI dinastia saitica, che ancora più scolasticamente si rifà ai modelli dell’Antico e Medio Regno.
Si ripetono tipi, abbigliamenti, atteggiamenti ormai abbandonati da secoli, con un gusto per la perfezione tecnica, per l’impiego di materiali difficili da lavorare (pietre dure, come il basalto, raggiungono la levigatezza del bronzo). L’ultimo periodo della storia egiziana, quello della dinastia tolemaica (323-30 a. C.), vede coesistere due culture che non riescono a fondersi. Alessandria diventa centro brillantissimo di cultura ellenistica, mentre nel resto del Paese continua stancamente la cultura indigena. Vi furono tentativi di compromesso tra le due arti, specie nei primi momenti, come nella tomba di Petosiri a Ermopoli, ma non ebbero seguito. Statue di Tolomei o di imperatori romani in costume egiziano sono sovente ibridi fastidiosi. Gli unici accenti di credibilità si hanno in alcuni ritratti, dove le esperienze dell’età saitica si fondono con quelle dell’ellenismo, creando un tipo che, pur restando nell’ambito dell’ellenismo, ha un suo proprio accento che lo differenzia da quello degli altri Paesi ellenizzati.
E sempre nel campo del ritratto si avranno nella tarda età romana i cosiddetti ritratti del Faiyûm, dipinti su tavole o anche su tela e posti sul volto del morto. L’arte più propriamente indigena continua anch’essa con un accentuarsi di ricerche luministiche e un farsi più sensuale delle forme. Statue e rilievi di questo periodo hanno un’accentuata unità stilistica, tanto più notevole quanto più l’elemento indigeno va perdendo importanza politica. E tuttavia a quest’epoca di sfacelo risalgono alcuni tra i templi meglio conservati dell’Egitto, estrema concessione dei regnanti alla religione e alle tradizioni nazionali. La pianta è ormai codificata nella successione dei suoi elementi, si moltiplicano cripte e corridoi nascosti a rendere sempre più chiusa e soffocata in se stessa una religione ridotta a pratica cultuale, e anche i rilievi che ornano le pareti e le colonne hanno ormai riferimento soltanto al culto. Tra gli esempi più straordinari si ricordano i templi di Dendera di Kôm Ombo,, di Edfu, dell’età tolemaica; quello di Kalabsha dell’età augustea e soprattutto il mirabile complesso degli edifici di File, cui Traiano aggiunse l’elegante chiosco. Con la diffusione del cristianesimo ha inizio nel sec. IV una nuova fioritura artistica nell’Egitto cristiano, che trova la sua splendida stagione nell’arte copta, sviluppatasi tra il sec. V e il VI. “Per approfondire Vedi Gedea Arte vol. 1 pp 138-139” “Per approfondire Vedi Gedea Arte vol. 1 pp 138-139”
Musica
Antichissime sono le testimonianze della civiltà musicale dell’Egitto, il solo Paese che narri la storia completa della sua musica dai tempi primitivi a oggi. Gli scavi nelle necropoli hanno accertato infatti la presenza di un’attività musicale già nel periodo predinastico. Di origine magica e totemica, la musica liturgica era amministrata inizialmente da sacerdoti-musici e fu probabilmente solo vocale fino al Nuovo Regno, poi entrarono nel tempio gli strumenti (il sistro, strumento egiziano per eccellenza, il flauto, l’arpa, il doppio clarinetto, la lira, il tamburo, il liuto e il doppio oboe, quindi campane e campanelle di bronzo e il trìgonon greco) e al culto parteciparono anche donne musiciste. Anche la musica di corte era rigorosamente organizzata; si conosce inoltre l’esistenza di musica profana, al di fuori della corte, e di varie accademie musicali femminili. Nulla sappiamo invece delle melodie; non è rimasta traccia di notazione musicale e solo gli strumenti rivelano che la musica egiziana dovette conoscere gamme a intervalli ampi, come anche sistemi esotici cromatici. Certamente la cultura musicale egiziana esercitò influssi rilevanti sulla formazione di quella greco-romana. Nel periodo ellenistico, subita la cultura greca, Alessandria ne divenne centro universale, importante poi per il primo cristianesimo e per la prima liturgia musicale cristiana (vedi copti). Qui la tecnica scoprì il primo organo (l’idraulo di Ctesibio) e la musicologia fece la somma delle sue ricerche (Claudio Tolomeo, sec. II d. C.).
Danza
Numerose sono le testimonianze sulla danza nell’antico Egitto. Al pari della musica, essa aveva carattere sia sacro sia profano. Una placca eburnea predinastica riproducente un faraone nell’esercizio di una danza sacra, la rituale “corsa attorno al muro” propria della cerimonia d’incoronazione e, ancora, le molte immagini di danzatrici riprodotte in affreschi e bassorilievi sepolcrali – con le quali figurano le direttrici della danza nell’atto di imprimere la giusta cadenza tramite un battito di mani o uno schioccare di dita – oltre ad attestare l’importanza rituale della danza egizia, documentano la ricchezza e la varietà delle danze eseguite: lente e vivaci, acrobatiche ed erotiche, con costumi ridottissimi o arricchiti nelle varie epoche da veli, monili, elaborate parrucche. Resta notizia di grandi trattenimenti organizzati dalle più importanti amministrazioni signorili, nei quali la danza era sempre presente: sembra, inoltre, accertato anche l’uso di “quadri viventi”, specie nel Medio Regno. Anche il popolo accedeva alla danza nelle grandi festività, con danze rituali (per esempio, quelle in onore della dea Hator), agresti o guerresche.
Teatro
Nell’Egitto antico il teatro rimase confinato entro i limiti del tempio o nelle immediate vicinanze e costituì con la danza, che però sussisteva anche come attività autonoma, una componente delle azioni drammatiche che si svolgevano durante celebrazioni religiose, riti funebri, ecc. Forme di spettacolo predilette erano pure le competizioni sportive di lottatori (a corpo libero o armati di bastoni), tenute anche davanti al faraone e alla sua corte. Il teatro drammatico vero e proprio si esprimeva con un tipo di rappresentazione abbastanza simile ai misteri medievali dell’Occidente europeo, in cui si raccontavano miti come, per esempio, quello di Osiride, secondo quanto testimoniato dalla cosiddetta Stele di Shabaka, recante il testo di un libretto che serviva da guida al regista per lo svolgimento scenico dello spettacolo. Sembra comunque che il grosso pubblico potesse assistere soltanto alle parti più propriamente narrative della vicenda, mentre quelle di carattere esoterico erano riservate agli iniziati. Sono stati inoltre ricostruiti (soprattutto per merito dell’egittologo francese Étienne Drioton) testi di altri antichissimi drammi (XVIII o XIX dinastia), quali un superspettacolo sacro per le feste del dio Horo e una vera e propria moralità. Inoltre si conservano testimonianze di un teatro popolare di saltimbanchi o simili, totalmente indipendente dal culto e dalla corte.
BIBLIOGRAFIA
Per la storia
J. A. Wilson, The Burden of Egypt, Chicago, 1951; Sir A. Gardiner, Egypt of the Pharahos, Oxford, 1961; Autori Vari, in Cambridge Ancient History, vol. I-II, Cambridge, 1962-65; E. Drioton, J. Vandier, Les Peuples de l’Orient Méditérranéen, II, Parigi, 1962; S. Donadoni, Le fonti indirette della storia egiziana, Roma, 1963; C. Aldred, Gli Egiziani, tre millenni di civiltà, Roma, 1988.
Per la religione
J. Vandier, La religion égyptienne, Parigi, 1944; J. Cerny, Ancient egyptian religion, Londra, 1953; B. De Rachewiltz, Introduzione allo studio della religione egiziana, Roma, 1954; S. Donadoni, La religione dell’Egitto antico, Milano, 1955; idem, La religione dell’Egitto antico: Testi, Bari, 1959; S. Morenz, Aegyptische Religion, Stoccarda, 1960; F. Cimmino, Akhenaton e Nefertiti, Milano, 1987.
Per la scienza e la tecnica
Glanville (a cura di), L’eredità dell’Egitto, Milano, 1953; De Rachewiltz, Vita nell’antico Egitto, Firenze, 1958; F. Aborio Mella, L’Egitto dei faraoni. Storia, civiltà, cultura, Milano, 1989.
Per la scrittura
K. Sethe, Das hieroglyphische Schriftsystem, Lipsia, 1935; P. Lacau, Sur le système hiéroglyphique, Il Cairo, 1954; L. Cottrell, Leggere il passato, Milano, 1974; W. Warburton, Scrittura e civiltà. Saggio sui geroglifici egiziani, Ravenna, 1986; S. Pernigotti, Leggere i geroglifici, Casalecchio di Reno, 1988.
Per la lingua
A. Erman, H. Grapow, Wörter buch der ägyptischen Sprache, Lipsia-Berlino, 1925 e segg.; A. Erman, [Agyptische Grammatik, Berlino, 1928; idem, Neuägyptische Grammatik, Lipsia, 1933; E. Edel, Altägyptische Grammatik, Roma, 1955; G. Lefebre, Grammaire de l’égyptien classique, Parigi, 1955; P. E. Cleator, Lost Languages, Londra, 1959; R. O. Faulkner, A Concise Dictionary of Middle Egyptian, Oxford, 1962; A. Gardiner, Egyptian Grammar, Londra, 1968; P. Du Bourguet, Grammaire égyptienne, Lovanio, 1971.
Per la letteratura
S. Donadoni, La letteratura egizia, Firenze, 1967; E. Bresciani, Letteratura e poesia dell’Egitto antico, Torino, 1970; S. Donadoni, Testi religiosi egizi, Torino, 1970; Autori Vari, Letteratura e poesia dell’antico Egitto, Torino, 1990.
Per l’arte
H. Schaefer, Amarna in Religion und Kunst, Lipsia, 1921; H. Schaefer, W. Andrae, Die Kunst des Alten Orients, Berlino, 1925; G. Farina, La pittura egiziana, Milano, 1929; I. Noshy, The Arts in Ptolemaic Egypt, Oxford, 1937; C. Aldred, Old Kingdom; Middle Kingdom, New Kingdom Art, in “Ancient Egypt”, 3 voll., Londra, 1949-51; S. Donadoni, Arte egizia, Torino, 1955; W. S. Smith, The Art and Architecture of Ancient Egypt, Harmondsworth, 1956; W. Wolf, Die Kunst Aegyptens. Gestalt und Geschichte, Stoccarda, 1957; H. Schaefer, Von [Agyptischer Kunst, Wiesbaden, 1963; A. M. Donadoni Roveri, E. Leospo, A. Roccati, Splendori dell’antico Egitto, Novara, 1981; J. Baines, J. Malek, Atlante dell’antico Egitto, Novara, 1985.
Fonte: http://www.sapere.it/enciclopedia/Egitto+%28civilt%C3%A0+antica%29.html
Miti, Storia e Tradizioni
Kore e le Ninfe nel Mediterraneo, tra api e miele
di Barbara Crescimanno*
Il mito di Kore e Demetra è una storia mediterranea con diverse varianti, di cui una ambientata in Sicilia, tra Enna, Siracusa e l’Etna. Nella versione siceliota del mito si incontrano diversi strati culturali, afferenti a visioni “religiose” della vita alquanto distanti tra loro. Le fonti sono prevalentemente di epoca greca: è la storia che ci hanno raccontato i “vincitori”, cioè coloro che ci hanno lasciato testi scritti, parlando per sé e per tutte le popolazioni mute alle cui culture i Greci hanno sovrapposto la loro dal momento del loro arrivo in Sicilia.
Tenendo conto della consapevole tendenza ellenica a deformare e “normalizzare” i miti preellenici, alle fonti letterarie bisogna affiancare quanto può essere attinto dagli studi di altre discipline (archeologia, archeomitologia, antropologia…) che possono aiutare a ricostruire un significato spesso diverso, e molto più denso, rispetto all’immagine oggi veicolata nelle scuole di una inerme principessa rapita mentre era intenta con le ancelle a raccogliere fiori in un prato. Scrive Manni che «per certi aspetti la Sicilia ha sicilianizzato i Greci» [1]. nel colonizzare l’Isola essi hanno incontrato una cultura che è stata capace di assimilare, integrare e sincretizzare le due (e più) etnie in un nuovo insieme culturale. Cosa possiamo scoprire di nuovo quindi scavando di strato in strato? Nel mito vengono documentati alcuni passaggi cruciali: Demetra thesmoforos (portatrice di legge) è l’iniziatrice di una vita sedentaria e agricola. Il passaggio dal tempo di Kore a quello di Demetra è il racconto della cosiddetta rivoluzione neolitica dell’agricoltura, una rivoluzione alimentare e sociale. Il secondo passaggio è quello alle società patriarcali: Kore non celebra più lo hierogamos con Ade, ma viene da lui rapita con la forza e riceve come dono di nozze da suo padre Zeus la terra di cui – in un’era precedente – era lei la divina madre. Persephone rappresenta il tempo ciclico e la credenza pre-ellenica nella rigenerazione, mentre l’ellenico Ade rappresenta il tempo lineare che ha un principio ed una fine, l’ineluttabilità della morte.
Infine, il quarto è il passaggio dalla sacralità alla religione, dalla natura alla città e alle divinità poliadi [2]. Prima di diventare figlia di Demetra, Kore era una Ninfa. Diversamente dalle divinità olimpiche, le Ninfe (nome greco per figure sacre femminili pre-elleniche) sono legate ai luoghi naturali e selvaggi: i loro santuari non sono templi architettonicamente imponenti, ma fonti d’acqua, boschi sacri, grotte. Come si evince dai racconti di Nonno sulle ninfe Aura e Nicea, il passaggio alla città – e ai culti cittadini – è possibile solo attraverso la morte della Ninfa o il suo addomesticamento. Kore viene definita la Ninfa per eccellenza «in quanto esemplificazione mitica del passaggio dallo stato virginale a quello coniugale» (Lambrugo 2009: 140). Occorre quindi ricostruire un quadro più completo di questi personaggi mitologici. Il termine nymphe identifica delle figure liminali, poste tra l’umano e il divino, tra il mondo selvaggio e quello civilizzato, tra l’adolescenza e l’età adulta. Assimilate in alcuni testi a daimones, Jeanmaire le definisce «le fate di una mitologia degli spiriti elementari della natura»[3]. Da un lato abbiamo la definizione di uno stato sociale (giovane donna in età da marito, sposa novella [4]), dall’altro è notificato uno dei nomi del sacro, probabilmente di origine non indoeuropea come altri nomi del pantheon greco (come gli stessi Demeter [5] e Persephone).
Le più antiche attestazioni del termine – risalenti ad una rase preistorica del greco – sono legate alla sfera mitologico-religiosa. Omero le chiama «figlie di Zeus», certificandone la natura divina, ma per rintracciare la loro origine dovremo seguire un percorso tortuoso e labirintico, partendo da lontano. Studi di linguistica [6] hanno evidenziato come esista una interferenza lessicale tra il greco e l’ebraico in epoca pre-protostorica. C’é un insieme di nomi che si riferiscono a culti e riti dal rilevante significato simbolico e che sembrano una possibile eredità neolitica. Di questo insieme fanno parte due termini semitici che designano il MIELE e le API: troviamo infatti una analogia tra i termini ebraici strutturati sulla radice *DB(R) come debas/debar (“miele”) e Deborah (“ape, profetessa”), e i corrispondenti termini greci méli e Mélissa. In che modo sono collegati api e miele alle Ninfe? Porfirio ne parla, descrivendo la grotta di Itaca di cui si racconta nell’Odissea [7]:
In capo al porto vi è un olivo dalle ampie foglie: vicino è un antro amabile, oscuro, sacro alle Ninfe chiamate Naiadi; in esso vi sono crateri e anfore di pietra; lì le api ripongono il miele.[…] Qui scorrono acque perenni. In essa le api sembrano convivere con le Ninfe Naiadi [8] cui l’antro è consacrato. Continua Porfirio:
Le ninfe Naiadi sono dunque le anime che discendono nella generazione. Da qui discende anche l’uso di chiamare “ninfe” le donne che si sposano, come se contraessero un vincolo al fine di generare, e di cospargerle di acque attinte da fonti o correnti o sorgenti perenni.
Le Ninfe, come anime, vivono insieme alle api, entrambe potendo incarnarsi nella creatura che deve ancora nascere. Ancora: i favi sono stati usati, nel periodo arcaico, come tombe per i bambini morti prematuramente. Abbiamo dunque creature che abitano uno spazio tra la vita e la morte.
Esiste una complessa simbologia riguardante le api e il miele tra le culture mediterranee dell’età del Bronzo (anche se il legame tra api ed esseri umani è radicato già dai culti di eredità neolitica): l’ape era una creatura sacra, associata alla divinità. In uno dei miti più conosciuti Rhea, divinità pre-olimpica figlia di Gea ed Urano, partorì Zeus a Creta, nell’antro Ideo – al cui ingresso si innalzava un albero – grotta sacra alle api e sede di rituali iniziatici, in cui né dio né uomo potevano entrare, e furono proprio le api sacre a nutrire il neonato col miele: gli stessi elementi dell’antro descritto nell’Odissea. Ma le api dell’antro cretese, nei racconti degli autori classici, divennero Ninfe: una di queste, Melissa, era figlia del re Melisseo e, scrive Lattanzio, fu la prima sacerdotessa della Magna Mater: lei e le sue sorelle verranno chiamate Melissai.
Eritria-Greciaperiodo-ellenistico
Ninfe e api silvestri, nutrici divine, le troveremo sovrapposte in numerosi testi, entrambe associate ad habitat come i boschi, gli alberi e le grotte con acque, in quegli stessi luoghi cioè in cui le api allo stato selvatico depongono il miele e in cui sorgeranno i Ninfei (i santuari rupestri ad esse dedicati). «La divinità femminile che affida il suo piccolo neonato alle cure di ancelle divine o semidivine perché sia da esse svezzato, appare un topos riconducibile ai culti preistorici delle grandi dee madri» (Aspesi 2011: 67). Culti evidentemente pre-ellenici, occultati dalle successive invasioni indoeuropee: se delle Ninfe nutrono Zeus neonato, è evidente che esse occupano per prime il suolo in cui egli è arrivato successivamente [9]. Il cibo donato, il nettare o “biondo miele”, è chiamato il “dolce cibo degli dei” [10].
Ricordiamo così le Ninfe dell’Antro Niseo che nutrirono con il miele il divino Dioniso, e Meliteo (da meli, miele), figlio di Zeus e della Ninfa Otreide, nutrito da uno sciame di api; o le Thriai, le Ninfe-Muse che secondo Filocoro furono nutrici di Apollo; o ancora, la dea cretese Britomartis [11], il cui nome – secondo alcuni studiosi – significa proprio ape-Ninfa.
Torniamo a Melissa. Prima di diventare nome proprio, il termine significava letteralmente “quella del miele”, denominazione tabuistica [12] che finirà per sostituire il termine originale. Aspesi ipotizza che, una volta avvenuta la sostituzione, il preesistente termine nymphe sia rimasto ad identificare le figure divine eredi delle valenze sacrali appartenenti alle api. Scrive Mnasea, scoliaste d’epoca ellenistica:
Api sono coloro che consacrano la loro vita ai riti, e furono queste api-Ninfe a far desistere gli uomini da una dieta carnivora e a insegnare loro un regime vegetariano. Una di queste ninfe, Melissa, per prima scoprì dei favi, ne mangiò e mescolò miele e acqua; istruì le compagne e chiamò gli insetti melissai dal proprio nome.
Le Ninfe-Melisse sembrano dunque semidee o sacerdotesse che impiegano e somministrano il miele – dono divino – come nutrimento sacro. Ma non solo. In un papiro neoplatonico il dio Mitra viene definito «colui che sostiene con il miele», «colui che distrugge con il miele», «colui che crea con il miele», ricordando la divina Trimurti indiana formata da Visnu, Shiva e Bhrama.
Il miele, come le Ninfe, è un elemento ambiguo e liminare. Già dal periodo della protostoria greca questa sostanza – considerata estremamente rara e preziosa – é legata al mondo infero: veniva usato nelle libagioni durante i rituali funebri e offerto come sacrificio alle divinità ctonie. Glauco, il figlio di Minosse e Pasifae, torna alla vita dopo essere affogato nel miele [13], la pratica di imbalsamare i morti con il miele, grazie alle sue proprietà anaerobiche e antibatteriche, esisteva anche in Egitto e a Roma. Stazio, nelle Silvae, racconta che il corpo di Alessandro Magno era «perfusus Hyblaeo nectare», immerso nel miele ibleo, tanto che Augusto, tre secoli dopo, poté vederne il volto. I favi usati per i neonati morti prematuramente erano il modello di costruzione anche per le tombe a tholos micenee.
Del miele erano apprezzate anche le proprietà medicinali che ancora oggi gli riconosciamo: sedative, antibiotiche, antiinfiammatorie ed antibatteriche. Per questo era legato anche alla vita e alla nascita: era l’unico alimento destinato ai neonati nei primi due giorni di vita, ed era sicuramente alimento rituale per allevare i figli “divini”: lo abbiamo visto con Zeus e con Dioniso [14], Perfino il matematico Pitagora – probabilmente un iniziato ai misteri del monte Ida – attribuiva la sua longevità ad una dieta a base di miele. E se durante le Thesmoforie siracusane si preparavano mylloi (focacce) a base di sesamo e miele rappresentanti i genitali della dea, ancora oggi in India si usa spalmare del miele sul sesso della sposa in occasione delle nozze. Ancora la prima liturgia cristiana imponeva di far assaggiare il miele ai battezzandi, e continuava ad usarlo come libagione (insieme al vino e al latte) nei rituali funebri a Siracusa.
Ricorda la Albertocchi (2012: 68), citando Kerènyi, che il miele ha lo stesso colore del pallido sangue divino, l’ichòr omerico, e che lo stesso termine viene usato da Aristotele per definire il liquido amniotico delle partorienti. L’elemento liquido rientra nel complesso insieme simbolico al cui centro stanno le grotte-ninfeo, là dove nascono le sorgenti sotterranee. L’acqua – sacra alle Ninfe [15] e in alcuni testi sovrapposta ad esse come sinonimo – non è semplicemente un liquido dissetante, e non è ancora (siamo in un’epoca precedente alla “rivoluzione” agricola) importante per la cerealicoltura. L’acqua di sorgente è essenza ctonia: proviene dal ventre della Dea e i luoghi in cui essa sgorga sono luoghi di confine e insieme di collegamento tra due mondi altrimenti separati: il nostro mondo e il mondo infero. Perciò le api-Ninfe sono esseri che abitano il confine tra la vita e la morte, come ognuno di noi prima della nascita trascorre nell’acqua i nove mesi liminali della gestazione. L’acqua è quindi un elemento sacro e legato alla vita, alla morte, alla rinascita; essa risana, feconda, purifica [16].
Il legame tra Ninfe e acque sorgive, non “addomesticate” a scopo agricolo, chiarisce la loro relazione con la sfera del selvatico, e le sedi naturali delle api/Ninfe, le grotte da cui sgorgano acque perenni, rafforzano il simbolismo ctonio dell’insieme. È nelle grotte che ha avuto origine il culto dei morti: le grotte sono al contempo tombe dove i morti riposano e ventre gravido della Madre da cui si ri-nasce. Il miele, liquido amniotico divino usato nei riti funerari, e l’acqua sorgiva sono i mezzi per “conservare” e proteggere i morti e coloro che devono ritualmente ri-nascere. Ma il miele sembra legato anche alla parola, tramite la stessa radice relittuale semitica *DB(R) il cui significato è “effondere, fluire”. Dabar è la “parola ispirata”: profetica, poetica o cantata. Il profeta (o il poeta) è collegato all’ape: dalla loro bocca il miele/parola ispirata “fluisce” (Aspesi 2011: 75-82).
Ecco un altro insieme simbolico: in Mesopotamia il sumerico ka-lal, “bocca di miele”, è epiteto di divinità; e in un inno babilonese si dice di Ishtar: ha «labbra dolci come il miele, vita è la sua bocca». Nella letteratura greca troviamo diversi esempi di Ninfe o sacerdotesse legate all’attività profetica: Pindaro chiama la Pizia Melissa di Delfi, là doveun tempio venne costruito dalle api, e dove la prima profetessa di Gea fu la Ninfa Dafni; nell’Inno Omerico a Hermes le tre vergini-api «insegnano, in disparte, la divinazione»; la Ninfa Erato era profetessa di Pan in Arcadia; le Thriai nutrici di Apollo sono definite da Esichio le prime profetesse, e tali sono anche le ninfe Sfragitidi presso il monte Citerone (Andò 1996: nota 117). Anche Omero associa il miele alla parola, e insieme ai poeti i filosofi (Saffo, Pitagora, Pindaro, Platone, Socrate) vengono definiti ’nutriti e illuminati dal miele divino’. Lo stesso Pindaro sembra mettere in connessione méli (miele) e mélos (canto).
D’altronde il miele è l’ingrediente per una tra le più antiche misture psico-attive, tra le più semplici da realizzare e con grandi implicazioni cerimoniali: il melikratos (da miele e kratos “forza, potenza”) o idromele, formato dalla mescolanza di miele e acqua, la cui fermentazione produce una bevanda dal potere inebriante e di tradizione antichissima, precedente all’uso del vino e usato nei riti tesmoforici o di altre dee parthenoi [17]. Ma già nella grotta dell’Ida [18] dove crebbe Zeus Kretagenes si celebrava una festa misterica annuale con la preparazione rituale dell’idromele (Caruso 1994: 25): Plinio, descrivendo il procedimento per la preparazione della bevanda, sottolinea che la fase della massima fermentazione doveva avvenire al sorgere eliaco di Sirio, momento importantissimo nella religiosità greca, che corrispondeva, nei principali centri religiosi, al Capodanno.
Il miele è stato dunque nutrimento, farmaco, sostanza inebriante, e le Ninfe/Api sono le intermediarie, tra le divinità e gli esseri umani, tra cielo e terra, per questa sostanza sacra. Questi elementi ci spingono a comparare i riti legati alle Ninfe al viaggio sciamanico di altre tradizioni culturali, che comprende – oltre alle sostanze inebrianti – pratiche di digiuno, musica, danza e utilizzo rituale della voce per accedere a quegli stati non ordinari di coscienza dai quali potevano scaturire le visioni “profetiche” o “poetiche”. Le Ninfe, infatti, possono anche rapire: la ninfolepsia [19] ad esempio è un particolare stadio religioso, un entusiasmo profetico ispirato dalle Ninfe ai mortali, una dimensione estatica, non legata alla follia ma decisamente al mondo selvatico e non addomesticato, slegata dalla cornice cittadina. Il ninfolepto è catturato dalle Ninfe e «strappato alla polis, ma attraverso la possessione delle Ninfe riguadagna un ruolo sociale e mantico» (Schirripa 2009: 82-83). Nei ninfei si ritrovano iscrizioni e dediche di “rapiti” iniziati al culto delle ninfe. Socrate, nel Fedro, è un ninfolepto, ed evidenti tracce di questa forma di sacralizzazione si ritrovano nella poesia greca di ambito egizio, nelle dediche epigrammatiche alle ninfe del Nilo, nella tarda poesia orfica. Servio (Georgiche 4, 363) ci racconta di bambini offerti alle ninfe del Nilo, e suggerisce un rituale di iniziazione paragonabile alla discesa eleusina degli inferi. Non si può fare a meno di pensare ai racconti dei bambini “rapiti” o “scambiati” dalle Donne di Fora in Sicilia.
Dunque la voce, ma anche il canto e il pianto rituale, sono strumenti propri delle Ninfe, dai suoni spontanei della natura (la lalìa delle acque, lo stormire del vento, il fruscio delle canne) all’ololygmos (l’urlo notturno che le Ninfe lanciano alle epifanie della Dea o durante i riti funebri [20]). Anche i cori di adolescenti dei riti iniziatici sono modellati sull’archetipo divino dei cori di Ninfe (Calame 1977: 59 e passim). Ritorna una volta di più il legame simbolico tra le api e la morte: tra i termini con cui gli accadici chiamano l’ape c’è anche lallartu, ossia “la donna che si lamenta”, assimilando il ronzio delle api con il lamento rituale. Nella Valle del Nilo il suono delle anime dell’aldilà è paragonato ad uno sciame di api e Sofocle parla del ronzio prodotto dallo sciame dei morti [21].
e figura con scettro e kantharos (v), 200 a.C.
La figura delle Nymphai è dunque abbastanza complessa. Se il termine indica la novella sposa, è perché tra le caratteristiche riconosciute all’ape c’è l’operosità incessante considerata tipica del femminile, la purezza, il continuo prodigarsi per nutrire ed accudire che sono stimati aspetti necessari di una buona moglie. La donna gestisce la vita del focolare così come l’ape l’alveare, in cooperazione per il mantenimento del gruppo e della comunità [22].
Ma la Ninfa è anche la donna fuori dal periodo puberale e nel pieno della sua maturità fisica, pronta a vivere la sfera erotico-sessuale del matrimonio. È socialmente lecito manifestare la sfera Afrodisia durante le nozze e a questo momento sono legate piante specifiche: sesamo, mirto, e menta [23], simboli dell’aidoion femminile.
Come siamo arrivati dalle api al sesso femminile? I lessicografi ci riportano un elenco molto denso di significati per il termine nymphe: è la fase della crisalide delle api, il momento di passaggio tra il chiuso e l’aperto, tra il nascosto e il palese; ma è anche il bocciolo ancora chiuso delle rose; è la punta del vomere dell’aratro; è la nicchia scavata negli antri; è soprattutto la cavità sotto il labbro inferiore: la parte interna dell’aidoion femminile, la clitoride. La Ninfa è la clitoride e la sessualità della donna-ninfa o della divinità-ninfa è espressa tutta dal nome che porta [24].
Nell’arte greca del periodo arcaico e classico (VII-V sec. a.C.) avremo dunque – da una parte – la raffigurazione di Nympheutriai come pudiche vestali di nozze che presiedono ai riti nuziali accompagnando nei cortei nuziali Demetra, Hestia o Eileithyia, dee rispettivamente della prole, del focolare domestico e del parto. In altre raffigurazioni le troveremo invece in una veste molto differente: lussuriose partecipanti dei cortei dionisiaci, in cui Sileni e Ninfe si cercano, si respingono, si baciano, si abbracciano, fuggono, danzano, fanno l’amore:
Sileni e ninfe sono infatti entrambi incarnazione dell’ambiente montano e agreste, di un modo ancora libero e selvaggio di vivere gli impulsi sessuali e le forme di seduzione. […] Il termine greco nymphe, se da un lato indica la giovane donna in età da marito, dall’altro identifica anche la fanciulla nel pieno rivelarsi della sua sessualità, nella sperimentazione di un impulso erotico che verrà poi incanalato nella ’giusta’ direzione con la cerimonia del matrimonio e la procreazione. La ninfa è dunque anche la parthenos agrotera, ossia la giovane indomita e impulsiva, che ora soggiace piacevolmente, ora rifugge dalle brame dei sileni, di Pan, dei pastori e degli stessi dei, in quella fase dello sviluppo sociale e biologico che è a metà strada tra il vivere selvaggio e il vivere civile (De Francesco-Giacobello-Lambrugo 2009: 35).
C’è un ulteriore elemento che accomuna ninfe e api: la Danza [25]. È per mezzo di vibrazioni e movimenti circolari con schemi estremamente definiti che le api comunicano tra di loro il ritrovamento di una fonte di cibo, con una precisione massima per quel che riguarda la direzione e l’orientamento rispetto al sole, e la distanza della suddetta fonte dall’alveare. L’osservazione di questo modo ’danzante’ di comunicazione, legato alla forma circolare, al sole e al suo orientamento nello spazio, hanno dato inizio ad una serie di concatenamenti simbolici che hanno preso forma nei riti: l’identificazione del labirinto, con i meandri disegnati secondo il movimento della danza delle api, come spazio sacro; la danza come atto rituale che, insieme alle sostanze inebrianti ed intossicanti come l’idromele, finiva per indurre estasi o possessione [26].
Per chiarire questo collegamento è necessario fare un passo indietro, e tornare a quella interferenza lessicale riscontrata da Aspesi di cui abbiamo parlato. Abbiamo visto come la Grecia antica e la Bibbia condividano la metafora che collega la parola ispirata con il miele e l’ape. A partire dalla stessa radice, esiste un altro collegamento linguistico tra la base del termine greco labyr-inthos, precisato foneticamente in *dabur o *dapur [27] (dal miceneo cretese da-pu-ri-to, “focus cultuale- luogo del -”), e l’ebraico debir (il sancta sanctorum – focus cultuale del tempio gerosolimitano e sede dell’arca [28]). Entrambi i termini, come i precedenti, emergono da uno stesso sostrato linguistico-cultuale egeo-cananaico che nasce dai contatti tra la costa palestinese e l’Egeo cretese. Il significato che sembra comune ai due termini è quello di «sacro recesso pressoché inaccessibile». Seguendo questa pista, Aspesi trova un collegamento tra Debora e debir, «in considerazione delle relazioni tra ape e labirinto, inteso questo come specifico luogo di culto incentrato su di un sacro recesso» (Aspesi 2011: 98).
Tale relazione è testimoniata dalle evidenze archeologiche e letterarie dell’area egea e sembra avere epicentro a Creta. Il termine miceneo dapurito/labyrinthos deriverebbe da un termine autoctono con il quale i Minoici indicavano uno specifico luogo di culto all’interno dei palazzi cretesi, reinterpretazione architettonica delle grotte di culto cretesi di epoca neolitica, chiamate du-pu-re o dubure, caverne naturali o siti cultuali sotterranei. Nella famosa tavoletta di Cnosso in lineare B della fine del XV secolo a.C. troviamo l’offerta di anfore di miele alla cosiddetta Signora del Labirinto [29], che testimonia dei legami già riscontrati tra le api e i recessi naturali, sedi di culti preistorici con valenze labirintiche. Dell’Antro Ideo dove Rhea ha partorito abbiamo già parlato: un recesso ctonio sacro e inaccessibile. La grotta dell’Amnisos – prossima al palazzo di Cnosso – è invece sede del culto di Eileithyia [30] e presenta tracce di cinquemila anni di culto, dal neolitico all’età romana, attorno a due stalagmiti racchiuse da un muretto a secco con la stessa forma di meandro che troviamo all’interno del palazzo. Alla stessa radice *DB(R) è collegabile anche, rispetto allo stesso nucleo simbolico-concettuale di riferimento, il termine tabbur («ombelico, centro cosmico o centro focale»[31]), che associa all’ape sia le grotte che le cavità arboree, in particolare di alberi sacri come le querce di Delphi, dove le api selvatiche depongono il miele[32].
Questi luoghi sacri hanno molte caratteristiche assimilabili ai Ninfei: l’acqua sorgente o il bacino lustrale dei palazzi, l’oscurità e l’essenzialità dell’adyton del tempio di Gerusalemme, luoghi spesso connessi con la forma del meandro o della spirale. Un prototipo cretese del labirinto è quello a sette corridoi, con tracciato ortogonale a partire dal meandro centrale, oppure con linee curve. Si tratta di una raffigurazione che non segue una spirale continua, ma una successione di tratti che portano al centro con continue inversioni di tracciato, proprio come nella danza delle api [33]. Sono stati ritrovati, all’interno dei palazzi cretesi, vari bacini lustrali a pianta meandrica: A Cnosso, A Festo, ad Akrotiri (Thera) dove affreschi mostrano una divinità femminile in trono alla quale giovani donne recano offerte.
Dello stesso orizzonte simbolico-religioso fa parte la danza labirintica che Ariadne insegnò a Teseo, descritta da Callimaco come danza circolare attorno al simulacro di Afrodite a Delo, e denominata da Plutarco geranos. Omero nel parlarne fa riferimento al movimento della ruota del vasaio; Esichio lo glossa insieme ai termini choròs, kyklos, stephanos, e la chiama geren, confrontabile con l’ebraico goren: l’aia utilizzata per la trebbiaturae connessa a riti notturni, celebrati alla luce delle fiaccole, in cui la danza ha un posto molto importante. Allo stesso modo geranos è il «luogo delle danze labirintiche a Delo, presumibilmente implicate con riti agresti».
In alcune rappresentazioni vascolari, i danzatori o le danzatrici lasciano pendere dalle mani allacciate una stella a cinque punte o un disco con raggi: simboli astrali che potrebbero connettersi con indicazioni calendariali riguardanti i momenti dell’anno adatti alla semina e al raccolto. Sembra in effetti che la geranos venisse effettuata nel mese di luglio. In alcune iscrizioni fenicie è menzionato un “mese della danza” che coincide con luglio, in cui si svolgeva la festa di Astarte che i Greci identificano con Afrodite: lo stesso mese della levata eliaca di Sirio di cui abbiamo già parlato.
Le api/Ninfe sembrano dunque le Signore dei meandri labirintici – le viscere della Madre/Terra – luoghi di culto ctonio e di riti danzati legati alla fertilità della terra e della donna e ai ritmi astronomici che le connettono, alla morte e alla rigenerazione. Nel complesso di questa figura mitologica troviamo descritte semidee/sacerdotesse con capacità profetiche, interpreti della divinità e tramite della ispirazione poetica e dell’en-thusiasmòs attraverso l’utilizzo del miele e del canto rituale, espressione di una libertà sessuale non addomesticata e legata alla potenza creatrice divina, ma al contempo nutrici legate all’aspetto curotrofico della Dea madre. Come ricorda la Simonini (Porfirio 2006) «senza le Ninfe non si celebrano i riti di Demetra», e sacerdotesse e Ninfe sono entrambe considerate Api di Demetra a Corinto, come Melissai saranno chiamate le partecipanti alle Tesmoforie. Abbiamo corteggi di Melissai al Santuario Ideo di Rhea a Creta; per Artemide ad Efeso, dove la sacerdotessa maggiore era detta “apicultrice” e i sacerdoti “fuchi”, come se il Santuario fosse un alveare la cui Ape Regina era la dea in persona.
La Nymphe greca di età storica finisce per ereditare ed antropomorfizzare le valenze sacrali e simboliche caratteristiche dell’ape, epifania teriomorfa della divinità nella pre-protostoria delle popolazioni attorno al bacino del Mediterraneo – e non solo – lungo i millenni: della simbologia riguardante il miele e l’ape troviamo testimonianza – come abbiamo visto – in tutte le culture antiche dalle nostre coste fino all’India [34].
La Sicilia fa parte integrante di questa koinè linguistica e culturale. Oltre al legame tra le api e la dea Hyblaia, viene subito alla mente lo Zeus Meilichios di Selinunte: Zeus dalle parole di miele, i cui rituali dovevano comprendere l’utilizzo di questa sostanza sacra. Diodoro racconta ancora che Dedalo creò per l’Aphrodite Erycina un nido d’api in oro, simile a quello trovato a Cnosso. Ma soprattutto, non possiamo dimenticare il corteggio delle Ninfe di Kore, in Sicilia, chiamata melitodes (dolce come miele) da Teocrito e Porfirio, e abitante in una zona della Sicilia che viene definita da Diodoro omphalos, il centro dello spazio sacro.
I luoghi legati alle Ninfe (grotte, labirinti, adyton…) sono i santuari più rappresentativi dei culti femminili mediterranei d’eredità neolitica; le loro danze arrivano fino in età storica [35]: ne abbiamo esempio nelle pinakes votive della fine del V sec. a.C. in cui vengono rappresentate le Ninfe in forma di tre fanciulle, spesso all’interno della grotta-ninfeo, procedenti a passo di danza; o ancora le triadi di suonatrici di aulos, di cembali, di tamburelli ritrovate in Magna Grecia e, ovviamente, in Sicilia [36]. Ne troviamo traccia nei culti legati alle Fatae galliche, alle Rusalski russe, e, ovviamente, alle Donni di Fora siciliane.«E il coro dei satiri irsuti echeggiava con mistica voce.
Tutta la terra rideva, mugghiavano gli scogli,
le Naiadi mandavano grida, sul fiume dai flutti silenti
e le ninfe volteggiavano in un cerchio
e intonavano le note concordi di un siculo ritmo
come quello che le melodiose sirene spargevano
con bocca di miele.»
[ Nonno di Panopoli, Dionisiache ]
Note
- [1] E. Manni, Indigeni e colonizzatori nella Sicilia preromana, cit. in Martorana 1985: 16 (nota 36).
- [2] cfr. la teoria di Martorana sull’utilizzo politico del culto di Demetra e Kore, 1985.: 43.
- [3] Jeanmaire 1972.
- [4] Ninfa è ad esempio il termine che i poeti usavano per le Muse e le giovani spose quando per la prima volta si mostravano senza velo.
- [5] cfr. Aspesi 2011:. 205 e passim.
- [6] Aspesi 2011.
- [7] Porfirio 2006.
- [8] Le Naiadi sono le Ninfe dei fiumi, delle sorgenti e dei laghi; le Oreadi dei monti; le Driadi dei boschi e le Amadriadi degli alberi; le Oceanine (figlie di Oceano e Teti) dell’Oceano, appunto, e le Nereidi (figlie di Nereo e Doride) del mar Mediterraneo.
- [9] Lo Zeus kretagenes è, diversamente da quello olimpico, uno dei cosiddetti dying and rising god, una divinità che muore e rinasce ogni anno, come il sole e la vegetazione.
- [10] vv. 560-62 dell’Inno Omerico a Hermes.
- [11] Che i Greci identificheranno in una Ninfa Oreade o in Artemide.
- [12] Cioè necessaria per nominare un termine che è innominabile per tabù sacro.
- [13] Il mito adombra, come in altri casi, un processo di morte e rinascita rituale.
- [14] Era anche cibo iniziatico nei misteri Eleusini.
- [15] Le Ninfe, nella genealogia orfica, sono figlie di Oceano, come i fiumi e le sorgenti. Partecipano dell’acqua primordiale, principio di ogni cosa e di ogni essere vivente, e sono adorate come divinità delle acque e delle fonti. Nel processo evolutivo le specie viventi nascono nell’acqua e poi “migrano” sulle terre asciutte. Lo stesso processo avviene nella formazione del feto, che sembra “ricapitolare”, durante le varie fasi della gravidanza, la storia della vita sulla terra, passando attraverso diversi stadi dai Celenterati, ai Pesci, ai Rettili e ai Mammiferi – formando e poi abbandonando anche branchie e coda – prima di arrivare all’essere umano. Si ha l’impressione, come dicono i biologi, che «l’ontogenesi riassuma la filogenesi» (cioè la storia individuale riassuma il filo dell’evoluzione della vita).
- [16] Ciò spiega l’utilizzo delle acque di sorgente nei rituali di iniziazione delle donne che si preparano al matrimonio, e nei rituali di purificazione legati alla Parthenia. È per questo che le Ninfe sono patrone di sorgenti e fontane, dove le nimphe umane vengono a raccogliere l’acqua: i lessicografi testimoniano l’identità terminologica tra “sposa” e “fonte”.
- [17] cfr. Albertocchi 2012. Nella Lisistrata di Aristofane le fanciulle sacrificano ad Artemide, furiosa per un’orsa che le è stata sottratta dagli ateniesi. Il termine utilizzato è ek-meilissomenai. (C. Isler-Kerényi 2002: 117-138).
- [18] Il cui nome era Arkésion, caverna dell’Orsa. I greci indicavano il mammifero al femminile, quasi avesse un solo sesso. Animale materno per eccellenza ai loro occhi, ha un primo piano nei riti (le Brauronie ad esempio) e nei miti come nutrice: in orse si trasformeranno le ninfe nutrici di Zeus per sfuggire alla vendetta di Crono, per poi finire come costellazioni (vedi Caruso 1994: 26).
- [19] Nel sostantivo si riconosce la radice del verbo greco lambano, “prendere”, “afferrare”.
- [20] «Il grido è espressione di forza incontrollata, non ancora addomesticata nel canto e nel coro rituale, e si comprende soltanto alla luce del rapporto profondo che la ninfa intrattiene con la natura e con la morte. […] Dioniso è dio inteso come essenza musicale e le sue donne, Menadi e Ninfe, usano la voce anche come percussione violenta, come pura fonìa rituale» ( Schirripa 2009: 80).
- [21] Anche in India esiste un legame le api e il suono sacro: Bhramari Devi, la dea del nettare, prende il suo nome dal termine Hindi per “ape”. Si dice che Bhramari Devi emetta il suono ronzante delle api, chiamato “Bhramaran”, lo stesso che veniva riprodotto nei canti Vedici e che rappresentava il suono essenziale dell’universo, Anahata (“ininterrotto, incausato”).
- [22] In origine la comunità era quella delle Melissai, mentre in epoca storica la comunità diventa la polis organizzata intorno al cittadino, al marito, al padre di famiglia: la Nymphagoghìa è la processione notturna che porta la promessa sposa dalla casa del padre alla casa del marito in un contesto ormai decisamente patriarcale.
- [23] Il primo è simbolo di fecondità e viene impastato per i già citati mylloi siracusani e in una focaccia per gli sposi, ai quali si intrecciavano corone di mirto. La menta, chiamata sisymbrion, era considerata un afrodisiaco.
- [24] cfr. Pestalozza 2001: 23 e passim.
- [25] cfr. Lawler 1953-54.
- [26] Era credenza radicata nel mondo antico che le api fossero sensibili al ritmo, e che fosse possibile radunare gli sciami dispersi al suono dei cembali: questo ci ricollega al clangore delle armi dei Cureti sul monte Ida, che doveva nascondere a Crono i vagiti del piccolo Zeus. I Cureti potrebbero intendersi come primitivi apicoltori che con il frastuono ritmico guidavano gli sciami (Caruso 1994).
- [27] La decifrazione della lineare B ha portato ad abbandonare la tesi di un’etimologia di labyrinthos a partire dal termine lidio o cario labrys (bipenne), per legarlo al miceneo da-pu-ri-to.
- [28] Il debir del tempio ebraico è l’adyton dei templi siro-palestinesi preisraelitici e dei templi greci e sicelioti.
- [29] Nelle tavolette il miele non è mai negli elenchi di cibi quotidiani, ma in quelli relativi ai cibi e alle offerte per il culto.
- [30] La dea cretese e greca della nascita, figlia di Hera, divina aiutante delle donne in travaglio. Nonostante non avesse un grande ruolo nella mitologia olimpica, era una divinità il cui culto era di grande importanza e un grande numero di santuari a lei dedicati erano distribuiti in tutta la Grecia. Il suo culto principale era presso la grotta dell’Amnisos, dove si diceva fosse nata.
- [31] È interessante ricordare la connessione in greco tra omphalòs (ombelico) e omphé (parola divina, oracolo).
- [32] Debora potrebbe essere un neologismo da tabbura, “quella del tabbur”.
- [33] Il labirinto come spirale sembra una variazione tarda.
- [34] Il miele viene assimilato al Soma vedico. Il termine melìglossos è il corrispondente di màdhujihva, “dalla lingua di miele”, epiteto di Agni e Soma nella letteratura indiana. Il collegamento tra il miele e la parola divina è presente anche in accadico e nelle culture del Mediterraneo orientale antico, e l’ape è presente anche nelle concezioni religiose hittite quale simbolo di fertilità e animale sacro alla dea.
- [35] Quando subentreranno Hermes, o Apollo, o Pan a guidare le danze.
- [36] cfr. Bellia 2013.
Riferimenti bibliografici
Albertocchi M. 2012, Eugenie ebbre? Considerazioni su alcune pratiche rituali del Thesmophorion di Bitalemi a Gela, in “Kernos”, 25: 57-74.
Andò V. 1996, Nymphe: la sposa e le Ninfe, in “Quaderni Urbinati di Cultura Classica”, vol. 52, n. 1: 47-79.
Aspesi F. 2011, Archeonimi del labirinto e della ninfa, L’Erma di Bretschneider, Roma.
Bellia A. 2013, Gli strumenti musicali nelle performances rituali: qualche esempio dalla Sicilia greca, in “Dyonisus ex machina”, IV: 428-442.
Calame C. 1977, Les choeurs de jeunes filles en Grèce archaique, Ateneo, Roma.
Caruso F. 1994, Zeus Kretaghenes e i ladri di miele, in “CronArch”, XXXIII: 9-39.
De Francesco S., Giacobello F., Lambrugo C. 2009, L’immagine delle Ninfe, in Giacobello-Schirripa (a cura), Ninfe nel mito e nella città dalla Grecia a Roma, Viennepierre ed., Milano: 31-52.
Giacobello F. e Schirripa P. (a cura di) 2009, Ninfe nel mito e nella città dalla Grecia a Roma, Viennepierre ed., Milano.
Giuman M. 2008, Melissa. Archeologia delle api e del miele nella Grecia antica, G. Bretschneider, Roma.
Isler-Kerényi C. 2002, Artemide e Dioniso: Korai e Parthenoi nella città delle immagini, in B. Gentili-F. Perusino, Le orse di Brauron, Eds, Pisa : 117-138.
Lambrugo C. 2009, Ninfe di Sicilia, in Ninfe nel mito e nella città da Grecia a Roma, Viennepierre ed., Milano: 133-154.
Jeanmaire H. 1972, Dioniso. Religione e cultura in Grecia, Einaudi, Torino.
Lawler L. B. 1953-54, The dances and the sacred Bees,in “Classical Weekly”, 47: 103-106.
Martorana G. 1985, Il riso di Demetra, Sellerio, Palermo.
Pestalozza U. 2001, I miti della donna-giardino, Medusa, Milano.
Porfirio, 2006, L’antro delle Ninfe, a cura di Laura Simonini, Adelphi, Milano.
Schirripa P. 2009, La Ninfa cattiva, in Ninfe nel mito e nella città dalla Grecia a Roma, Viennepierre ed., Milano:71- 98.
___________________________________________________________________________________________
*Barbara Crescimanno è fondatrice e coordinatrice del gruppo di ricerca antropologica ed etnocoreutica TrizziRiDonna su danze, canti e pratiche tradizionali siciliane legate al mondo femminile (nel quale opera come ricercatrice, cantante, percussionista, danzatrice, docente); co-fondatrice a Palermo della Scuola di Musica e Danza Popolare del Centro delle Arti e Culture Tavola Tonda, all’interno della quale conduce i corsi di Introduzione alle danze tradizionali europee e del sud Italia.
(http://www.istitutoeuroarabo.it/) 1/7/2015
La leggenda di Osiride
Osiride era un mitico re dio degli abitatori del Nilo ; sovrano benefico indusse i suoi selvaggi sudditi a vivere in pace, a non sbranarsi a vicenda, ad abbandonare l’avventurosa vita nomade. A questo fine insegnò loro a lavorare la terra, a coltivare la vite e ad ottenere il vino, e l’orzo da cui trarre la birra. Mostrò loro come forgiare i metalli e le armi per difendersi dalle belve, li invogliò a vivere in comunità, a fondare città. Iside, la sorella sposa, per parte sua, guariva le loro malattie, scacciava gli spiriti maligni con arti magiche ; fondò la famiglia, insegnò agli uomini a fare il pane e alle donne tutte le arti muliebri, la tessitura, il ricamo. Insomma, inventarono la civiltà.
L’Egitto si trovò così nell’Età dell’Oro. Compagno e amico di Osiride era Thot, dio delle scienze, cui spettò il compito di insegnare agli Egizi a leggere e scrivere. Non contento di ciò, Osiride volle portare la sua benefica missione anche nel resto del mondo e, durante la sua assenza, lasciò la reggenza del trono a Iside. Ma ecco il fratello Seth, escluso dal trono in quanto figlio cadetto, tramare subito per usurparglielo : la vigile Iside riesce a stroncare ogni manovra.
Osiride torna dal viaggio, felicemente concluso, in compagnia di Thot e di Anubi ( dio dei morti ). Il perfido Seth, l’esatto opposto di Osiride, ordisce un orribile inganno : dà una grande festa in onore del fratello e durante il banchetto mostra agli invitati un magnifico scrigno finemente istoriato e tempestato di gemme e, scherzando, proclama che ne farà dono a chi, entrandovi, lo occuperà esattamente con il proprio corpo (l’aveva fatto costruire su misura per Osiride, che aveva una statura gigantesca). Ognuno dei commensali, ammirato per la preziosità dell’opera e desideroso di averla, ci si provò, ma risultava sempre troppo piccolo.
Alla fine fu la volta del re, la cui statura si attagliò a pennello.
Seth, fulmineo, con i suoi complici rinserra il coperchio, lo sigilla con piombo fuso e getta lo scrigno nel Nilo. Gli dei atterriti presero forme di animali per sfuggire a una simile sorte. Iside, disperata, si strappò le vesti e con l’aiuto di Thot riuscì a fuggire e partì alla ricerca della salma dello sposo per dargli almeno degna sepoltura.
Era scortata da sette velenosissimi scorpioni, terribile guardia del corpo. Giunse esausta alla città di Pa-sin ; ma lacera e sfinita com’era, non trovò ospitalità ( forse a causa del poco raccomandabile seguito ). Una donna le chiuse ostentatamente la porta in faccia. I sette scorpioni si consultarono tra loro sul modo di vendicare l’affronto alla dea, e ad uno a uno, avvicinandosi al loro capo, Tefen, iniettarono nella sua coda tutto il proprio veleno. Tefen, introdottosi nella casa della poco cortese signora, trovato il suo bambino, lo punse. La potenza del veleno era tale che la casa prese fuoco.
Frattanto una misericordiosa e umile contadina, Taha, impietosita da quel volto impietrito dal dolore, accolse Iside, spontaneamente ; l’altra, che si chiamava Usa, non trovò una sola goccia d’acqua per spegnere l’incendio e disperata, col bambino morente fra le braccia, vagava in cerca di aiuto, ma nessuno le rispondeva. Fu Iside che ebbe pietà di lei : impartì al veleno l’ordine di non agire e il bimbo guarì subito, mentre una pioggia miracolosa spegneva l’incendio.
L’ira del cielo s’era placata; Usa, pentita, capì di trovarsi di fronte ad un essere soprannaturale e offrì doni a Iside, implorandone il perdono. Iside riprese il vagabondare tra le infinite insidie che gli spiriti maligni, al servizio di Seth, cospargevano sulla sua via. Presso Tanis, da alcuni bimbi, seppe che la cassa, sul filo della corrente di quel ramo del Nilo, aveva raggiunto il mare aperto.
Disperata, camminò e camminò e giunse a Biblo. Proprio qui era approdata la tragica bara, tempo prima, tra i rami di un cespuglio che, al contatto col corpo divino, s’era trasformato in una splendida acacia che rinserrò la scrigno nel proprio tronco. Un giorno il re di Biblo, vedendo lo stupendo albero, ordinò che lo si tagliasse per farne una colonna del suo palazzo. Iside, giunta in città, tutte le notti si trasformava in rondine e svolazzava intorno alla colonna, lanciando strida strazianti, ma nessuno le faceva caso.
Alla fine decise di agire : si sedette presso la fonte, e quando le ancelle della regina vennero ad attingere acqua, prese a conversare, poi a pettinarle, a offrire divini profumi, con loro grande gioia. Anche la regina volle conoscere la straniera che, in brevissimo tempo, entrò nelle sue grazie e fu nominata governante del principino. Ogni notte, preso il suo aspetto di rondine, non cessava il suo pianto. La regina, una sera, volendo sincerarsi che il bambino dormisse, entrò nella sua camera e trovò uno spettacolo raccapricciante : la culla del figlioletto era circondata da alte fiamme e, a piè del letto, sette minacciosi scorpioni facevano la guardia. Atterrita, urlò, accorsero le guardie, accorse il re e la stessa Iside, al cui cenno le fiamme si spensero d’incanto. La dea svelò il proprio essere e rimproverò la regina ; riconoscente per l’ospitalità aveva deciso di rendere il principe immortale, e, per questa ragione, ogni notte lo immergeva nelle fiamme purificatrici. Ma purtroppo ora l’incanto era rotto.
La regina ne fu profondamente rattristata e il re, onorato d’aver dato ricetto a una dea, le offrì tutto ciò che lei volesse. Iside, naturalmente, chiese la grande colonna e lei stessa ne trasse lo scrigno e riempì il tronco di profumi, lo avvolse in aulenti bende e lo lasciò al re e al suo popolo come suo ricordo e preziosa reliquia. Ripresa la via del ritorno scortata da due figli del re, non seppe resistere a lungo : ordinò alla carovana di fermarsi e aprì la cassa. All’apparire del volto del marito le sue urla di dolore riempirono l’aria di un tale spavento che uno dei figli del re uscì di senno. Peggiore sorte toccò all’altro : Iside s’era chinata lacrimando sul caro viso, e l’ignaro ragazzo l’osservava incuriosito ; la dea, accortasene, gli lanciò una tale occhiata che il poveretto cadde fulminato.
Rimasta sola, Iside tentò di tutto, usò invano tutte le possibile formule magiche per richiamare in vita lo spose ; e, trasformatasi in falco, e agitando su di lui le ali per cercare di ridargli il soffio della vita, miracolosamente rimase fecondata. Giunta in Egitto, nascose la bara in un luogo romito presso Buto, tra le inestricabili paludi del Delta che la proteggevano dai pericoli. Ma per caso Seth, andando una notte a caccia al chiaro di luna, la trovò. Apertala e vista la salma del fratello, in preda al più scatenato furore la fece a brani, tagliandola in quattordici parti che sparpagliò per tutto l’Egitto. L’infelice Iside, al nuovo scempio, ricominciò la pietosa ricerca dei macabri resti e dopo immense fatiche riuscì a ricomporli ( tranne il membro virile divorato da un ossirinco, una specie di storione del Nilo ). Sui luoghi ove i resti furono trovati, sorsero cappelle e poi templi ai quali si compivano pellegrinaggi chiamati ” della ricerca di Osiride “.
Ricomposto il corpo, Iside chiamò a sé la diletta sorella Neftis ( incolpevole sposa del malvagio Seth ), Thot e Anubi. E con la scienza ereditata da Osiride, tutti insieme si prodigarono per rendere a Osiride la vita. Anubi imbalsamò il corpo e confezionò così la prima mummia, che fu fasciata e ricoperta di talismani. Sui muri del sepolcro, ad Abido, furono incise le formule magiche di rito. Accanto al sarcofago fu posta una statua del tutto somigliante al defunto.
Osiride così resuscitò, ma no poté regnare più su questa terra e divenne Re del “Sito che è oltre l’Orizzonte occidentale”, che trasformò da luogo cupo e triste in una landa ubertosa e ricca di messi. Compiuto il rito della sepoltura, Iside tornò a nascondersi nelle paludi per proteggere se stessa e soprattutto il nascituro dalle vendette di Seth. Quando Horo nacque, la madre lo protesse con tutto l’amore, invocò su de lui l’aiuto di tutti gli dei, poi gli insegnò la scienza, l’educò nel culto del padre. Horo crebbe ” come il sole nascente, il suo occhio destro era il sole, quello sinistro la luna ” ed egli stesso era un grande luminoso falco che solcava i cieli. E quando fu abbastanza grande, Osiride tornò una volta sulla terra per farne un soldato. Allora Horo, radunati tutti i fedeli del re tradito, partì alla ricerca di Seth per vendicare il padre.
La tremenda battaglia durò tre giorni e tre notti ; Seth e i suoi si trasformarono nei più terribili e imprendibili animali per cercare di sfuggire alla sconfitta : Horo mutilò Seth, ma questi di trasformò in un enorme maiale nero e ingoiò l’occhio sinistro di Horo : la luna cessò così di splendere, l’umanità era attonita. Alla fine Seth stava per soccombere, quando Iside cominciò ad intromettersi, a supplicare il figlio perché il massacro avesse termine : dopo tutto, Seth era suo fratello e marito della diletta sorella Neftis. Horo, in uno scatto d’ira, taglio la testa alla madre. Thot la guarì subito ponendole, al posto della sua, una testa di mucca. La battaglia riprese e durò all’infinito senza vincitori né vinti. S’intromise allora autoritariamente Thot, che guarì Seth ma gli impose di restituire l’occhio a Horo. La luna tornò a risplendere. Intervennero allora anche gli altri dei e posero la questione al giudizio di Thot. Fu un processo fiume che durò ottant’anni. Seth accusò Horo di non essere figlio di Osiride, essendo nato troppo tempo dopo la morte del vantato padre. Horo controbatté tacciando Seth di malafede ; e alla fine il Divino Tribunale sentenziò che Horo avesse il regno del Basso Egitto e Seth quello dell’Alto Egitto.
——–
Tratto da L’Egitto dei Faraoni di F.A. Mella, Mursia Editore
IL MISTERO DI ORIONE
di Enrico Galimberti*
Tutto ebbe inizio nel Museo di antichità egiziane del Cairo, nel 1982. Percorrendo la galleria principale, gli occhi dell’amico Robert Bauval (ingegnere edile studioso di Egittologia) furono catturati da una fotografia aerea delle piramidi di Giza. Mai prima d’allora gli era capitato di notare il curioso spostamento della piramide di Micerino rispetto all’allineamento sud-ovest delle due piramidi più grandi. Tutte e tre le piramidi erano disposte ognuna lungo il suo asse meridiano (nord-sud). Inoltre, le due maggiori erano disposte lungo la diagonale sud-ovest, indicando una probabile unitarietà del progetto. Tuttavia qualcosa non sembrava funzionare. Perché Micerino, altrettanto potente quanto i suoi predecessori e addirittura più amato dal suo popolo, si fece erigere un monumento assai più piccolo e meno maestoso? E inoltre, perché quella piccola piramide sembrava deviare dal progetto avviato? Un fatto era certo: Micerino sapeva che la sua costruzione sarebbe stata molto più piccola delle altre due a Giza. Simili monumenti dovevano essere progettati con un largo anticipo, e il faraone doveva avere approvato il piano. Perché dunque approvare un progetto che lo avrebbe sminuito rispetto ai due predecessori? Il punto è che le piramidi di Giza non erano viste come singole opere monumentali, ma come parti in un complesso monumentale più ampio, che facesse di Giza una necropoli e ricomponesse la terra dei morti, il Duat, luogo “dove si trova Osiride”.
A questo punto le domande erano: perché il piano generale prevedeva due grandi piramidi e una più piccola? Come collegare le piramidi a Osiride? e perché spostare la più piccola verso est? Nel 1983, in una notte stellata dell’Arabia Saudita, Robert si svegliò e con un amico si soffermò ad ammirare le stelle della Cintura di Orione e la Via Lattea. Mentre l’amico gli insegnava a calcolare il punto della levata di Orione all’orizzonte, Robert si accorse che la stella più piccola della Cintura era spostata leggermente verso est, e tutte e tre le stelle erano inclinate in una direzione sud-ovest rispetto all’asse della Via Lattea.
Gli vennero alla mente i Testi delle Piramidi:
“Il Duat ha afferrato la mano del re nel punto dove si trova Orione…O Re Osiride…Recati alla Via d’acqua…possa una via di stelle fino al Duat stendersi per te nel punto dove si trova Orione…”
Nasceva allora il lungo cammino della Teoria della Correlazione di Robert Bauval, ben descritta nel suo libro “Il mistero di Orione”.
Il 22 marzo 1993, i media di tutto il mondo annunciarono con grande risalto che Rudolf Gantenbrink, uno sconosciuto ingegnere tedesco esperto di robotica, aveva compiuto la più significativa scoperta archeologica del secolo. Assunto dall’Istituto archeologico tedesco del Cairo per migliorare la ventilazione della Grande Piramide, Gantenbrink aveva inviato un minuscolo robot comandato a distanza, UPUAUT 2(in egiziano antico “colui che apre la via”) su per il condotto meridionale della Camera della Regina. Arrestatosi dopo circa 65 metri, il robot rimandò attraverso un video le immagini di quella che pareva una porticina con una fascinosa fessura al di sotto. Il condotto misura 20X20 centimetri circa. Ma allora lo scopo dei condotti di aerazione non doveva essere quello di areare, ma qualcosa d’altro. Il primo aprile 1993, via fax Rudolf inviò a Robert i risultati delle sue misurazioni sulle inclinazioni dei condotti della Grande Piramide.
CONDOTTO | Gantenbrink | Petrie |
condotto sud Camera del Re | 45°00’00” | 44°30’00” |
condotto nord Camera del Re | 32°28’00” | 31°00’00” |
condotto sud Camera della Regina | 39°30’00” | 38°28’00” |
Dato che tutte le inclinazioni erano leggermente più accentuate di quanto prima stimato, l’epoca della Grande Piramide sarebbe risultata un po’ più recente. I condotti nord e sud della Camera del Re erano puntati rispettivamente verso Zeta Orionis e Alpha Draconis; il condotto sud della Camera della Regina era rivolto verso Sirio. Ecco i dati che ottenne Bauval:
Condotto | Gantenbrink | Epoca | Petrie | Epoca |
C. Re sud | 45°00’00” | c. 2475 a.C. | 44°30’00” | c. 2600 a.C. |
C. Re nord | 32°28’00” | c. 2425 a.C. | 31°00’00” | c. 2600 a.C. |
C. Reg. sud | 39°30’00” | c. 2400 a.C. | 38°28’00” | c. 2750 a.C. |
La conclusione era inevitabile. La Grande Piramide era stata costruita in un periodo compreso fra il 2475 a.C. e il 2400 a.C., quindi, in una data mediana attorno al 2450 a.C. Le ultime misurazioni di Rudolf confermavano che i due condotti meridionali erano stati costruiti circa nello stesso periodo e che il condotto più alto puntava verso Zeta Orionis, la stella più bassa nella Cintura di Orione, in corrispondenza con il quadro della Grande Piramide nella teoria della correlazione di Orione. I tre condotti rimandavano ora con esattezza alla disposizione delle stelle e all’epoca intorno al 2450 a.C.
L’Astronomia è fondamentale alla Teoria della Correlazione di Bauval. In un ciclo di circa 26.000 anni la terra oscilla leggermente sul suo asse e questo produce ad un cambio apparente della posizione delle stelle. Questo fenomeno è noto come Precessione (le stelle, ad ogni mezzo ciclo, si troveranno ad una declinazione più bassa o più alta rispetto all’orizzonte). Quando la terra oscilla, la Stella Polare, che segna approssimativamente il Polo Celeste, cambia. Attualmente è Polaris, dell’Ursa Minor, che marca il Polo Celeste ma al tempo delle Piramidi era marcato da Thuban nella costellazione del Drago. Nel 12.000 d.C. sarà Vega che marcherà il Polo. Ma allora, se Bauval trovò conferma del periodo storico in cui vennero edificate le piramidi, dove sarebbe il mistero? Niente Atlantide o alieni?
In effetti, la ricerca di Bauval si complicò in seguito a tali scoperte, ma non venne scalfita affatto, anzi, ne fu rinvigorita.
Le ultime misure per i condotti confermarono la stupefacente precisione dei costruttori della Grande Piaramide quando avevano puntato i condotti su Sirio e la Cintura di Orione. Dato che, probabilmente, conoscevano i mutamenti precessionali, era anche verosimile che si rendessero conto di come quei condotti marcassero un’epoca (c. 2450 a.C.) Nei testi religiosi egiziani, spesso leggiamo del “Primo Tempo” in cui Osiride governò l’Egitto durante una primeva età dell’oro. Gli Egizi credevano che molto tempo prima gli dei avessero stabilito il sistema dell’ordine cosmico e l’avessero trasferito sulla loro terra. Una razza di dei aveva governato l’Egitto per molti millenni, prima di affidarlo alla linea mortale eppure divina dei faraoni. I faraoni, dal canto loro, rappresentavano il collegamento sacerdotale con gli dei e, per estensione, l’anello di congiunzione con il Primo Tempo, di cui custodivano le leggi e le cognizioni di saggezza. A che epoca risaliva il Primo Tempo? Era possibile usare i condotti e la precessione per stabilirlo? E la questione aveva a che fare con il ciclo precessionale della Cintura di Orione?
Robert Bauval e Adrian Gilbert, autori del libro, decisero di studiare più a fondo i cicli precessionali e tornarono allo Skyglobe 3.5 per individuare il periodo in cui la Cintura di Orione aveva cominciato il suo ultimo ciclo.
Gli antichi sacerdoti-astronomi di Eliopoli conoscevano i segreti del tempo perché osservavano e studiavano il moto apparente delle stelle, del sole e della luna. Erano quindi in grado di fissare un indicatore che nei secoli fosse in grado di segnare un’epoca. Così fu per la data di costruzione della Piramide di Cheope. Il segreto era la conoscenza della precessione delle stelle e la capacità di calcolare la misura del cambiamento per gli astri di Orione, per le Iadi e per Sirio. Robert e Adrian analizzarono al computer le variazioni nella declinazione e nell’altezza al transito sul meridiano di Zeta Orionis nel corso di 13.000 anni (serie di dati che omettiamo per semplificare il discorso). Ecco quanto emerse dal quadro visivo del cielo meridionale intorno al 10.400 a.C.: la disposizione della Cintura di Orione vista a “ovest” della Via Lattea coincide, con impressionante precisione, con il disegno e gli allineamenti delle tre piramidi di Giza!
Intorno al 2450 a.C. l’epoca in cui fu costruita la Grande Piramide, gli osservatori percepivano la correlazione quando vedevano la Cintura di Orione a est nel momento della levata eliaca di Sirio, secondo una perfetta corrispondenza “meridiano a meridiano”, vale a dire, con le due immagini esattamente sovrapposte, questo è il momento in cui vediamo il Primo Tempo della Cintura di Orione attorno al 10.450 a.C. – Perché una data così lontana? Perché fornirci un indicatore precessionale definito dal condotto sud della Camera del Re correlato alla Cintura di Orione? Perché l’architetto che disegnò questo condotto e probabilmente tutta la piramide volle attrarre la nostra attenzione su quella data remota del Primo Tempo di Osiride, fissata intorno al 10.450 a.C.?
Mi sembra di aver esposto quelli che sono i punti cardinali della teoria della correlazione formulata da Robert Bauval negli scorsi anni e ancora in fase di sviluppo. Vorrei però in ultimo farvi riflettere sul periodo 10.450 a.C. – Chi di voi ha letto il Timeo di Platone, reso immortale dal mito di Atlantide che in tal dialogo e nel Critia viene sviluppato, si sarà accorto di aver già familiarizzato con questa data. Ebbene, per i neofiti tengo a precisare che quella data, secondo Platone, segna la fine della supremazia di Atlantide ed il catastrofico epilogo di una fiorente Civiltà che ancora oggi non si sa se sia esistita o meno. Che ci sia un collegamento tra la stirpe divina di Atlantide e il Primo Tempo di Osiride e dell’Egitto Antico? Che si debba ricollegare il progetto unitario della piana di Giza con il preciso intento di tramandare nei secoli a venire la data in cui una razza di dei o uomini-dio instaurò il dominio sulle terre del Nilo?
Fonte: www.acam.it
DIVINITA DEL MONDO ANTICO
Divinità Assiro-Babilonesi
Divinità Egizie
Maschili
- Aker – Un dio della terra e l’orizzonte
- Amon – Un dio creatore, divinità patrona della città diTebe , e la divinità preminente in Egitto durante ilNuovo Regno
- Anhur – Un dio della guerra e la caccia
- Aten – Sun divinità disco che divenne il fulcro del monolatra o monoteistaAtenist sistema di credenze nel regno diAkhenaton
- Atum – Un dio creatore e divinità solare, prima dio delEnneade
- Bennu – Una divinità solare e creatore, raffigurato come un uccello
- Geb – Un dio della terra e membro delEnneade
- Hapi – Personificazione della piena del Nilo
- Horus – Un importante dio, di solito indicato come un falco o come un bambino umano, collegata con il cielo, il sole, la regalità, la protezione, e la guarigione. Spesso ha detto di essere il figlio di Osiride e Iside.
- Khepri – Un dio creatore solare, spesso trattata come la forma mattina del Ra e rappresentata da unoscarabeo
- Khnum ( Khnemu ) – Un dio ariete, la divinità protettrice di Elefantina , che si diceva di controllare la piena del Nilo e dare vita a dei e gli esseri umani
- Khonsu – Un dio della luna, figlio di Amon e Mut
- Maahes – Un dio leone, figlio di Bastet
- Montu – Un dio della guerra e il sole, adorato a Tebe
- Nefertum – Dio del fiore di loto da cui il dio del sole è aumentato all’inizio del tempo. Figlio di Ptah e Sekhmet.
- Nemty – Falcon Dio, venerato nelMedio Egitto , che appare nel mito come un traghettatore per una maggiore dii
- Neper – Un dio di grano
- Osiride – dio della morte e risurrezione che governa il mondo sotterraneo e vivifica la vegetazione, il dio del sole, e le anime defunti
- Ptah – Una divinità creatore e dio degli artigiani, il dio protettore di Memphis
- Ra – Il dio del sole
- Set – Un dio ambivalenti, caratterizzata da violenza, caos, e la forza, collegato con il deserto. Assassino mitologica di Osiride e nemica di Horus, ma anche un sostenitore del re.
- Shu – Incarnazione del vento o l’aria, un membro del Enneade
- Sobek – dio coccodrillo, venerata nelFaiyum ed aKom Ombo
- Sopdu – Un dio del cielo e delle regioni di confine orientali dell’Egitto
- Thoth – Un dio della luna, e un dio della scrittura e scribi, e divinità protettrice diHermopolis
- Wadj-wer – Personificazione del mare Mediterraneo o laghi del Delta del Nilo
Femminili
- Amunet – controparte femminile di Amon e un membro del Ogdoad
- Anuket – Una dea delle regioni di frontiera del sud dell’Egitto, in particolare i minoricateratte del Nilo
- Bastet – Dea rappresentato come un gatto o leonessa, patrona della città diBubastis , collegata con la protezione dal male
- Bat – mucca dea dai primi nella storia egiziana, poi assorbita dalla Hathor
- Hathor – Una delle dee più importanti, collegata con il cielo, il sole, la sessualità e la maternità, musica e danza, terre straniere e delle merci, e l’aldilà. Una delle tante forme diocchio di Ra .
- Heket – Frog dea ha detto di proteggere le donne durante il parto
- Hesat – Una dea mucca materna
- Imentet – Una dea aldilà strettamente legata con Iside e Hathor
- Iside – Moglie di Osiride e madre di Horus, legata a riti funerari, la maternità, la protezione e la magia. Si è trasformata in una delle principali divinitàgreca e religione romana .
- Maat – Dea che personificava la verità, la giustizia, e l’ordine
- Menhit – Una dea leonessa
- Mut – Consort di Amon, adorato a Tebe
- Neith – Un creatore e cacciatore dea, protettrice della città diSais nel Basso Egitto
- Nekhbet ( Nekhebit ) – Una dea avvoltoio, ilnume tutelare dell’Alto Egitto
- Nephthys ( Neb-t Kha-t ) – Un membro del Enneade, la consorte di Set, che pianse Osiris al fianco di Iside
- Nepit – Una dea del grano, controparte femminile di Neper
- Dado – Una dea del cielo, un membro del Enneade
- Pakhet – Una dea leonessa adorato soprattutto nella zona intorno aBeni Hasan
- Renenutet – Una dea agricola
- Satet – Una dea delle regioni di frontiera del sud dell’Egitto
- Sekhmet – Una dea leonessa, sia distruttivo e violento e capace di allontanare la malattia, protettore dei faraoni che li ha portati in guerra, la consorte di Ptah e una delle tante forme di occhio di Ra .
- Tefnut – Dea di umidità e un membro del Enneade
- Wadjet ( Uatchit ) – Una dea cobra, il nume tutelare del Basso Egitto
- Wosret – Una dea di Tebe
Entrambe le forme maschili e femminili
- Eh – Personificazione di infinito e di un membro del Ogdoad
- Kek – Il dio del Caos e Tenebre, oltre ad essere il concetto del buio primordiale. Forma femminile di Kek è conosciuto come Kauket.
- Nu – Personificazione del, disturbo acquosa senza forma da cui il mondo è emerso al momento della creazione e un membro del Ogdoad
Divinità Greche e Romane
Molti dei e dee della mitologia greca avevano funzione e attributi simili nella mitologia romana. Ecco l’elenco delle divinità più note.
GRECHE | ROMANE | Attribuzioni |
---|---|---|
Afrodite | Venere | Dea dell’amore |
Apollo | Apollo | Dio della luce, della medicina e della poesia |
Ares | Marte | Dio della guerra |
Artemide | Diana | Dea della caccia e del parto |
Asclepio | Esculapio | Dio della medicina |
Atena | Minerva | Dea delle arti, della guerra e della saggezza |
Crono | Saturno | Per i greci, padre di Zeus. Nella mitologia romana, anche dio dell’agricoltura |
Demetra | Cerere | Dea delle messi |
Dionisio | Bacco | Dio del vino, della fertilità e della sfrenatezza |
Efesto | Vulcano | Fabbro degli dei e dio del fuoco e della lavorazione dei metalli |
Era | Giunone | Prot. del matrim.- (greci) sorella e moglie di Zeus, (romani) moglie di Giove |
Ermete | Mercurio | Dio della scienza; protettore dei viaggiatori, dei ladri e dei vagabondi |
Eros | Cupido | Dio dell’amore |
Estia | Vesta | Dea del focolare domestico |
Gea | Tellus | Simbolo della terra e madre e moglie (Terra) di Urano |
Ipno | Sonno | Dio del sonno |
Plutone, Ade | Dite | Dio degli inferi |
Posidone | Nettuno | Dio del mare. Nella mitologia anche dio dei terremoti e dei cavalli |
Rea | Opi | Sposa e sorella di Crono |
Urano | Urano | Figlio e sposo di Gea e padre dei Titani |
Zeus | Giove | Sovrano degli dei |
Modifica This text can be changed from the Miscellaneous section of the settings page.
Lorem ipsum dolor sit amet, consectetur adipiscing elit, cras ut imperdiet augue. Powered by Nirvana & WordPress.