Patrimonio culturale

RISCOPRIRE LA BELLEZZA E LE ORIGINI AI TEMPI DEL CORONAVIRUS.

Fernand Braudel

L’esperienza amara del Coronavirus ci ha insegnato a riflettere sulla nostra esistenza, sulla illusoria globalizzazione che ci ha allontanati dai valori fondanti della nostra civiltà, dall’essenza spirituale e dall’etica. Un passaggio virtuoso nel contesto del contagio virale che ha falciato in Italia trentamila vite, quasi tutte di anziani che ci hanno donato la loro saggezza e la loro attiva testimonianza. E ci siamo di nuovo avvicinati alla Bellezza, alla Storia della nostra civiltà, dei nostri costumi, delle nostre identità di genti mediterranee. Come non richiamare alla nostra memoria Fernand Braudel con il suo indimenticabile “Il Mediterraneo”.

Francesco Venerando Mantegna, presidente di COMEN e Fondazione Mediterranea.

Il Mediterraneo di Fernand Braudel

Lo spazio e la storia, gli uomini e la tradizioneIl Mediterraneo di F. Braudel rimane sicuramente una delle opere più significative dedicate al nostro grande mare interno, ai suoi scenari suggestivi e alle sue genti. Pagine pulsanti, da cui non si può prescindere se si vuole comprendere e respirare appieno quella mediterraneità che ha illuminato la storia di questo pianeta. E’ un libro che non può mancare nella nostra biblioteca personale, piccola o grande che sia. Ne riportiamo quì solo qualche passo introduttivo dell’Autore.

Mediterraneo

“In questo libro, le imbarcazioni navigano; le onde ripetono la loro canzone; i vignaioli discendono dalle colline delle Cinque Terre, sulla riviera genovese; in Provenza e in Grecia si bacchiano le olive; i pescatori tirano le reti sulla laguna di Venezia; i carpentieri costruiscono barche, uguali oggi a quelle di ieri… E ancora una volta, guardandole, ci ritroviamo fuori dal tempo.… Che cos’è il Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre. Viaggiare nel Mediterraneo significa incontrare il mondo romano in Libano, la preistoria in Sardegna, le città greche in Sicilia, la presenza araba in Spagna, l’Islam turco in Iugoslavia. Significa sprofondare nell’abisso dei secoli, fino alle costruzioni megalitiche di Malta o alle piramidi d’Egitto. Significa incontrare realtà antichissime, ancora vive, a fianco dell’ultramoderno: accanto a Venezia, nella sua falsa immobilità, l’imponente agglomerato industriale di Mestre; accanto alla barca del pescatore, che è ancora quella di Ulisse, il peschereccio devastatore dei fondi marini o le enormi petroliere. Significa immergersi nell’arcaismo dei mondi insulari e nello stesso tempo stupire di fronte all’estrema giovinezza di città molto antiche, aperte a tutti i venti della cultura e del profitto, e che da secoli sorvegliano e consumano il mare.

Tutto questo perché il Mediterraneo è un crocevia antichissimo. Da millenni tutto vi confluisce, complicandone e arricchendone la storia: bestie da soma, vetture, merci, navi, idee, religioni, modi di vivere. E anche le piante. Le credete mediterranee. Ebbene, a eccezione dell’ulivo, della vite e del grano -autoctoni di precocissimo insediamento- sono quasi tutte nate lontano dal mare. Se Erodoto, il padre della storia, vissuto nel V secolo a.C., tornasse e si mescolasse ai turisti di oggi, andrebbe incontro a una sorpresa dopo l’altra. “Lo immagino”, ha scritto Lucien Febvre, “rifare oggi il suo periplo del Mediterraneo orientale. Quanti motivi di stupore! Quei frutti d’oro tra le foglie verde scuro di certi arbusti – arance, limoni, mandarini, – non ricorda di averli mai visti nella sua vita. Sfido! Vengono dall’Estremo Oriente, sono stati introdotti dagli arabi. Quelle piante bizzarre dalla sagoma insolita, pungenti, dallo stelo fiorito, dai nomi astrusi – agavi, aloè, fichi d’India -, anche queste in vita sua non le ha mai viste. Sfido! Vengono dall’America. Quei grandi alberi dal pallido fogliame che pure portano un nome greco, eucalipto: giammai gli è capitato di vederne di simili. Sfido! Vengono dall’Australia. E i cipressi, a loro volta, sono persiani. Questo per quanto concerne lo scenario.

Ma quante sorprese, ancora, al momento del pasto: il pomodoro, peruviano; la melanzana, indiana; il peperoncino, originario della Guyana; il mais, messicano; il riso dono degli arabi; per non parlare del fagiolo, della patata, del pesco, montanaro cinese divenuto iraniano, o del tabacco.”. Tuttavia, questi elementi sono diventati costitutivi del paesaggio mediterraneo: “Una Riviera senza aranci, una Toscana senza cipressi, il cesto di un ambulante senza peperoncini… che cosa può esservi di più inconcepibile, oggi, per noi? (Lucien Febvre, in Annales”, XII, 29). E a voler catalogare gli uomini del Mediterraneo, quelli nati sulle sue sponde o discendenti di quanti in tempi lontani ne solcarono o ne coltivarono le terre e i campi a terrazze, e poi i nuovi venuti che di volta lo invasero, non se ne trarrebbe la stessa impressione che si ricava redigendo l’elenco delle sue piante e dei suoi frutti? Nel paesaggio fisico come quello umano, il Mediterraneo crocevia, il Mediterraneo eteroclito si presenta al nostro ricordo come un’immagine coerente, un sistema in cui tutto si fonde e si ricompone in un’unità originale. Come spiegarla? Come spiegare l’essenza profonda del Mediterraneo? Sarà necessario moltiplicare gli sforzi.

La spiegazione non risiede soltanto nella natura, che pure molto ha operato in tal senso, né soltanto nell’uomo, che ha ostinatamente legato insieme il tutto, ma del confluire dei favori e delle maledizioni – numerosi entrambi – della natura e degli sforzi molteplici degli uomini, ieri e oggi. In un susseguirsi interminabile, insomma, di casi, incidenti, reiterati successi. Il fine di questo libro è di dimostrare che tali esperienze e tali successi si comprendono soltanto se considerati complessivamente, e soprattutto che devono essere posti a raffronto, che spesso è opportuno esaminarli alla luce del presente, che è a partire da quanto si vede oggi che si può giudicare e capire l’ieri – e viceversa. Il Mediterraneo è una buona occasione per presentare un “altro” modo di accostarsi alla storia. Il mare infatti, quale lo conosciamo e lo amiamo, offre sul proprio passato la più sbalorditiva e illuminante delle testimonianze.”

Fernand Braudel

Breviario Mediterraneo

Predrag Matvejevic

Predrag Matvejevic

Con particolare piacere riporto la recensione che segue sul Breviario Mediterraneo del compianto amico Predrag Matvejevic, con il quale abbiamo condiviso giornate di intenso lavoro a Palermo, in occasione dei “Colloqui interculturali mediterranei” da me coordinati e diretti a Palermo, Castel Utveggio nel 1998, con la Presidenza della Regione Siciliana e l’organizzazione di COMEN-Conferenza Mediterranea.

Francesco Venerando Mantegna

Recensione di Matteo Zola al “Breviario Mediterraneo” di Predrag Matvejevic

Un faro, che potrebbe essere quello di Alessandria, ad illuminare la rotta fin dalla copertina. E la rotta è ardua a definirsi, disperazione dei librai “Breviario Mediterraneo” di Predrag Matvejević non ha collocazione negli scaffali, e le ha tutte: romanzo, saggio geografico piuttosto che storico, racconto di viaggio, prosa poetica. Capolavoro del “non genere”, grande cesta in cui si trovano in apparente disordine notizie che percorrono la storia e i popoli (Egizi, Fenici, Greci, Romani, Arabi, Veneziani…) e i paesi che toccano il Mediterraneo, anche quelli che ne sentono solo il vento e l’odore. Non è un diario di viaggio, anche se insegna a viaggiare, o un libro di bordo, anche se offre le coordinate per muoversi attraverso la geografia. Non è un dizionario, per quanto a volte sembra ricalcarne la struttura. Ha però del romanzo la forza narrativa, la capacità di trasportare il lettore attraverso i racconti brevi e nitidi. Un romanzo, già. E davvero aveva ragione Kundera quando nel suo “L’arte del romanzo[2]” diceva che tale genere letterario non ha regole, ma è un sacco vuoto da riempire di materiali eterogenei dopo la sbornia ottocentesca. E Matvejević, come Kundera, appartiene alla cultura slava mittel-europea che facilmente scavalca le rigide categorizzazioni e i compartimenti stagni. Di cosa parla dunque questo Breviario? Di Mediterraneo, si è capito, ma di un Mediterraneo fatto di luoghi che diventano personaggi. Luoghi minimi, la boa, il molo, il porto, fino all’ampiezza delle isole e delle penisole. Luoghi che sono la costa e la gente della costa, luoghi che sono migrazioni di popoli e filosofie.Rispetto a Braudel, che ha voluto comporre un grande quadro storico-politico del Mediterraneo, quello di Matvejević è un libro che si potrebbe riassumere nel termine di geopoetica benché non manchi un capitolo “splendido”, come lo ha definito Claudio Magris nella prefazione, dedicato alla cartografia.

Prima di arrivarci, però, occorre soffermarsi ancora sulla parte eponima, quel Breviario che pare una ricerca entro l’etimologia ideale e spirituale del Mediterraneo. Ecco allora che le onde “hanno un ruolo importante nella drammaturgia del mare, negli spettacoli, negli avvenimenti”. E qui l’autore ci guida nella varietà di denominazioni con cui sono indicate. E poi ancora, ecco i suoni delle onde: “rumore o voce, sussurri o mugghi, sciacquio o sciabordio?”. Ma non basta, e la ricerca filologica prosegue nei venti che erano un tempo “le divinità del Mediterraneo”, in grado di determinare il destino del mare e dei suoi naviganti. Già, perché il Mediterraneo non è uno solo, anzi si compone di molteplici acque che si fondono e vengono nominate in base alle coste e alle correnti: “il Mediterraneo nasce, cambia e talvolta muore con i suoi venti, umili o prepotenti”.La seconda parte del libro è dedicata alle carte, da quelle dell’antichità fino alle moderne. Un viaggio nel tempo che è al contempo viaggio nello spazio.

Le città costiere dell’antichità erano gelose del loro repertorio cartografico, le rotte e la conoscenza delle coste aprivano a nuove pescagioni e colonizzazioni. Differenti supporti erano utilizzati per le carte di terra e di mare, poiché differenti erano i mondi che si andavano a incontrare e diversi erano i moti di chi andava per la terraferma o per acqua: la tradizione greca separa periplo da anabasi. E dal Mediterraneo sono partiti i primi naviganti verso altri mari. Schillace di Carianda navigò, venticinque secoli fa, fino in India per conto dell’imperatore di Persia. Il cartaginese Annone oltrepassò lo stretto di Gibilterra nel 500 a.C. circumnavigando l’Africa. Il viaggio di Pitea di Marsiglia[3] lo ha spinto fino alle Isole di Mezzanotte, l’odierna Irlanda, e più a nord fino alla mitica Ultima Thule (forse le Shetland, o chissà, l’Islanda). Dal Mediterraneo partono rotte che uniscono la storia con il mito: isole leggendarie a segnare i confini del mondo, scienza, astronomia, medicina, chimica.

E di queste ultime Matvejević ringrazia la civiltà islamica, il suo ruolo di connessione tra oriente e occidente ha aiutato l’Europa ha uscire dal Medioevo.L’autore sembra (giustamente) convinto che, nella polimorfia semantica che ci circonda, la sola possibilità di significato sia nell’etimologia. E per questo ci dice che darsena e arsenale derivano entrambi dall’arabo darçanha, così altri termini marinareschi: admiral (ammiraglio) al-kathram (catrame, utilizzato nella costruzione delle navi. Arabo è il termine azimut, e il termine çifr (zero, da cui poi “cifra”) fino al al-gabr, da cui algebra, in origine indicava la riduzione di fratture ossee. E all’etimologia è dedicata l’ultima parte del libro, un vero e proprio lexicon del mare.La parcellizzazione della realtà Mediterranea non è un semplice escamotage stilistico, atto a muovere la descrizione dal microcosmo al macrocosmo per mostrarne le analogie. Essa sottende a una visione che è anche politica dello spazio descritto. Vale a dire, il Mediterraneo si presenta come uno stato di cose tra loro interdipendenti ma separate, non riesce a diventare un progetto. La sua riva settentrionale presenta un evidente ritardo rispetto al nord Europa, e altrettanto la riva meridionale rispetto a quella europea. Tanto a nord quanto a sud, l’insieme del bacino si lega con difficoltà al continente. Non è davvero possibile considerare questo mare come un insieme senza tener conto delle fratture che lo dividono, dei conflitti che lo dilaniano: in Palestina, in Libano, a Cipro, e ieri nel Maghreb, nei Balcani da sempre.

Fino ai riflessi delle guerre più lontane, quelle in Afganistan e in Iraq, con la guerra al terrore che sempre più insinua nelle coscienze europee un anti-islamismo che il Mediterraneo non riesce a disinnescare, malgrado la Turchia nella Nato, malgrado il portato culturale islamico che ancora oggi echeggia nel lessico di tutte le lingue del bacino.Entrambe le rive furono molto più importanti sulle carte utilizzate dagli strateghi che non su quelle che dispiegano gli economisti. Quello che fu il mare più importante della civiltà fino alla modernità, non ha saputo uscire dallo stretto che ne chiude i confini. Il suo portato di unità e divisione, la sua omogeneità e la sua disparità, la ricchezza derivante dall’essere una sola moltitudine, non è bastato: l’insieme mediterraneo è composto di molti sottoinsiemi che sfidano o rifiutano le idee unificatrici. Ed oggi le unificazioni necessarie sembrano essere quelle economiche.

Ma un’unione mediterranea, più volte e in più modi tentata, non si è mai realizzata. Di recente il Presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy, ha rilanciato il tema del Partenariato euro-mediterraneo. Il dibattito è dunque ancora aperto benché di ardua soluzione. Forse anche a causa di quella che è la peculiare cultura del Mediterraneo.Non esiste una sola cultura mediterranea: ce ne sono molte in seno a un solo Mediterraneo. Esse sono caratterizzate da tratti per certi versi simili e per altri differenti. Le somiglianze, ci spiega Matvejević, sono dovute alla prossimità di un mare comune e all’incontro sulle sue sponde di nazioni e di forme di espressione vicine. Le differenze sono segnate da fatti d’origine e di storia, di credenze e di costumi. Né le somiglianze né le differenze sono assolute o costanti: talvolta sono le prime a prevalere, talvolta le altre. Il resto è mitologia.Percepire il Mediterraneo partendo solamente dal suo passato rimane un’abitudine tenace, tanto sul litorale quanto nell’entroterra. La ‘patria dei miti’ sembra avere infine sofferto delle mitologie, che essa stessa ha generato o che altri hanno nutrito. «Questo spazio così ricco di storia è stato vittima degli storicismi. Ha smesso di essere Storia per diventare oggetto nelle mani degli storici», per citare le parole dell’autore.

«La tendenza a confondere la rappresentazione della realtà con la realtà stessa si perpetua: l’immagine del Mediterraneo e il Mediterraneo reale non s’identificano affatto. Un’identità dell’essere, amplificandosi, eclissa o respinge un’identità del fare, mal definita. La retrospettiva continua ad avere la meglio sulla prospettiva. Ed è così che lo stesso pensiero rimane prigioniero degli stereotipi»[4].Il romanzo geopoetico di Matvejevic, dunque, non deve alimentare le suggestioni che richiama invero fin dalla prima pagina. Non a Salonicco symprotevousa si deve pensare, non alla biblioteca di Alessandria, non ad Algeri tamazight ed europea al contempo, non a Dubrovnik che fu Ragusa, repubblica marinara. Ma a Venezia bisogna pensare. Venezia simbolo di un Mediterraneo che affonda e che bisogna salvare.

[1] Pier Luigi Bacchini, da Mar Mediterraneo, in Canti Territoriali, Mondadori, Milano 2009

[2] Milan Kundera, L’arte del romanzo, Adelphi, Milano 1988

[3] Giovanni Rossi, Viaggio all’ultima Thule, Sellerio Editore, Palermo 1995

[4] Defne Gursoy, intervista a Predrag Matvejević, in Euromed / Fondazione Mediterraneo, http://www.euromedi.org/


LA PROTEZIONE DEL PATRIMONIO A RISCHIO NEL MEDITERRANEO. IL RUOLO DELLA SICILIA

di Silvia Mazza*

La Sicilia può fare qualcosa per proteggere il Patrimonio nel Mediterraneo ̶aree archeologiche, monumenti, musei e luoghi della cultura ̶messo a serio rischio di sopravvivenza dai tanti conflitti? Di più, può ritagliarsi in
tal senso un ruolo di leadership nell’area Euro-Mediterranea? Proverò a darla alla fine di questo scritto. Ma se adesso spostassimo in dietro le lancette dell’orologio a nove anni fa, saremmo già in grado, invece, di dare una risposta senza esito affermativa.
Perché ben nove anni fa la Sicilia era in anticipo su scenari e sviluppi che solo di recente si sono registrati a livello dello Stato. Mi riferisco all’importante riconoscimento attribuito all’Italia il 17 ottobre del 2015 con l’istituzione, attraverso una sua risoluzione firmata da altri 53 Paesi.

L’abbiamo salutata come un’ottima notizia per la cultura mondiale, un motivo di orgoglio per l’Italia. Un primato che, però, poteva essere della Sicilia. Perché è a Palermo, infatti, che nel 2007 si gettavano i semi del prestigioso riconoscimento, allorché si presentavano le prime tappe della Carta del Rischio del Mediterraneo, all’interno del III Convegno Internazionale di Studi promosso dal CRPR, in collaborazione con l’ICCROM: «Scienza e Patrimonio Culturale nel Mediterraneo. Diagnostica e conservazione. Esperienze e proposte per una Carta del Rischio del Mediterraneo». Per l’occasione la comunità scientifica internazionale e i governi ̶200 rappresentanti provenienti da 27 paesi3 ̶per un’intera settimana, erano stati invitati a costruire insieme, per la pace e la cultura,
un progetto del quale tutti sarebbero stati protagonisti.

La costituzione dei Caschi blu della Cultura è un segno concreto dell’importanza che la comunità internazionale attribuisce alla protezione del patrimonio, ma va pure osservato che ci si muove sempre nell’ambito della logica dell’intervento ad emergenza in corso, quando, invece, il coordinamento interregionale che allora si voleva tessere per il patrimonio su proposta della Sicilia si colloca, piuttosto, nella sfera delle misure di prevenzione. La prevenzione resta un’azione molto più importante, complessa, di lungo periodo e dipendente dalle risorse mobilitate per la cooperazione culturale tra i Paesi. Se stessimo parlando di restauro, sarebbe in qualche modo la stessa distinzione che passa tra la politica a favore degli interventi veri e propri, costosi e mai neutri per il bene, e quella che considera prioritaria la manutenzione conservativa dello stesso.
Per questo appare ancora più significativa l’assenza del CRPR, e più in generale per il vuoto lasciato dalla Sicilia ora e ormai da troppi anni. Eppure tra gli scenari a più alto rischio c’è certamente il Mediterraneo, e la Sicilia vi è profondamente immersa, e non è, naturalmente, solo una questione geografica.

LA CARTA DEL RISCHIO DEL MEDITERRANEO: LE PREMESSE

Il sistema Carta del Rischio. Prima di entrare nel merito del progetto a suo tempo proposto e avviato dalla Regione siciliana, dobbiamo
spendere qualche parola sia sulle attività condotte dal Centro di Palermo (all’epoca diretto da Guido Meli) che ne costituiscono le premesse, sia sulle conferenze internazionali che ne hanno posto le basi. La Carta del Rischio del Mediterraneo intendeva, infatti, estendere e sviluppare su macroscala la prassi fino ad allora condotta a livello regionale (dal 2002) in seno alla Carta del Rischio, una sorta di cartella clinica dei monumenti, che mette in correlazione la loro vulnerabilità con le pericolosità presenti nel territorio. Un progetto, quest’ultimo, dall’alto valore strategico perché è in grado di contribuire alla corretta gestione del patrimonio culturale in caso di
emergenza determinata da calamità naturali o dall’azione dell’uomo. Assunto di partenza è che la «conservazione preventiva», concetto enunciato da Cesare Brandi e Giovanni Urbani, debba essere sostituito alla tradizionale logica del restauro: in altre parole, si ritiene che un’attenta anamnesi e prevenzione, come in medicina, possa
ridurre drasticamente le dinamiche dei processi di degrado, e di conseguenza la necessità di operare interventi di restauro, spesso onerosi e comunque sempre traumatici per l’opera.
Il sistema Carta del Rischio realizzato dal team del CRPR di Palermo coordinato da Roberto Garufi ha costituito un’assoluta novità nell’ambito dell’attività di gestione del patrimonio culturale in Sicilia, producendo un’attività di conoscenza e indagine sulla consistenza, ubicazione e realtà conservativa di una consistente parte del patrimonio monumentale siciliano, arrivando a censire e georeferenziare oltre 10.000 mila beni e a realizzare la schedatura di
vulnerabilità di 2.500 di essi.

Il progetto siciliano, peraltro, si differenziava dalle esperienze condotte in altre realtà regionali e dal Modello nazionale, realizzato dall’ISCR, per un impianto che adottava modalità diverse di indagine e valutazione delle pericolosità più aderenti alle specificità del territorio regionale. Ma è certamente il popolamento della banca dati
del patrimonio a costituire la più profonda e significativa innovazione rispetto al modello nazionale, che presenta al suo interno, in proporzione, una più rada e disomogenea presenza territoriale di schede identificative o di vulnerabilità. Questa ricchezza di informazioni nelle intenzioni del gruppo di lavoro sarebbe dovuta servire a dotare l’Amministrazione Regionale dei dati utili a potere definire una meditata pianificazione territoriale e un’attenta politica di conservazione, gestione e fruizione sostenibile delle risorse culturali presenti nell’isola.
Un esempio di applicazione della Carta: il «rischio sismico» e il terremoto nel centro Italia.
Per farsi un’idea immediata di quale sia l’utilità della Carta pensiamo al terremoto che il 24 agosto ha colpito il centro Italia e a come si è mossa tempestivamente la macchina del Mibact.
Le emergenze si possono affrontare con capacità propositiva se si è pensato per tempo a prepararsi e si è curato un costante aggiornamento delle conoscenze acquisite del territorio. All’indomani del terremoto, il ministro Dario Franceschini era in grado di elencare il numero degli edifici monumentali e la densità di opere presenti
nell’area del territorio coinvolto. È uno dei primi, essenziali dati che ogni regione deve poter dare in eventi similari attingendo al sistema di carta del rischio, per poter programmare l’attività di rilevazione sul territorio delle squadre tecniche di soccorso ed, eventualmente, il trasporto in sicurezza del patrimonio più importante. Aseguire, subito dopo, utilizzare le schede puntuali di rilevazione per verificare gravità e dinamiche dei danni e pianificare le prime opere di puntellamento. È grazie a questo sistema che a tre settimane dal sisma proseguono
le attività mirate al recupero e alla messa in sicurezza di beni fortemente identitari per gli abitanti di quella area d’Italia. Protagonisti, in coordinamento con il Mibact, i Vigili del Fuoco del Nis (Nucleo interventi speciali) la Protezione civile e la nuova una squadra speciale dei Caschi blu della cultura. Le regioni che non sono in grado di avviare con questi strumenti e modalità l’attività di gestione dell’emergenza sono destinate irrimediabilmente a
brancolare nel buio e a moltiplicare l’effetto devastante del sisma.
I presupposti metodologici fin qui illustrati restano validi se il «rischio» è costituito, invece che da calamità naturali, da azioni antropiche come i conflitti militari o gli atti terroristici.
Documenti internazionali
Da una parte, quindi, l’esperienza fin lì svolta dal CRPR con la Carta del Rischio, dall’altra fanno da premessa alla Carta del Mediterraneo due documenti internazionali:
la Dichiarazione di Barcellona (Conferenza Euromediterranea del 1995), tappa fondamentale nelle relazioni intercorse tra Regioni e Stati che ricadono nello spazio europeo e del Mediterraneo e che affida
gli esiti positivi di un impegno comune su alcuni obiettivi strategici, come l’ambiente, la ricerca e formazione, la cultura;
la Declaration of Palermo on Cultural Heritage and Interregional Partnership in the Mediterranean, sottoscritta da ventisei Paesi Europei, Mediterranei e Balcanici scaturita dal confrontato di idee ed analisi sul tema del patrimonio culturale all’interno del relativo Convegno internazionale (2003), organizzato dal CRPR con la collaborazione dell’unità tecnica per l’internazionalizzazione del Ministero degli affari esteri, nell’ambito del semestre di presidenza italiana dell’UE. Nel documento si è condivisa l’opportunità di realizzare Carte del Rischio regionali in grado di individuare criteri, strategie e strumenti efficaci di prevenzione, conservazione, restauro del patrimonio culturale degli specifici ambiti territoriali.
Una esigenza, quest’ultima, che verrà riproposta quattro anni dopo con la «Risoluzione di Palermo», sottoscritta da rappresentanti di centri di ricerca, conservazione e restauro, amministrazioni locali, università e settore privato di 27 Paesi nel corso del III Convegno Internazionale di Studi precedentemente menzionato

LA CARTA DEL RISCHIO DEL MEDITERRANEO: IL QUADRO SOCIOPOLITICO IN MEDIO ORIENTE E IL «RISCHIO ANTROPICO» (CONFLITTI ARMATI E ATTACCHI TERRORISTICI)
La realtà sociopolitica delle regioni e dei paesi che si affacciano sul Mediterraneo in quel 2007 in cui si tenne il convegno internazionale a Palermo non aveva ancora conosciuto la Primavera araba e l’Isis, ma il moltiplicarsi di situazioni di instabilità politica aveva già elevato considerevolmente il livello di rischio potenziale che può
interessare gli edifici monumentali, i musei e il patrimonio mobile in essi contenuto. Basti pensare a quel drammatico aprile 2003, quando, dopo la caduta del regime di Saddam Hussein, il Museo archeologico di Baghdad fu saccheggiato e devastato dalla furia dei vandali.
Con la proclamazione del califfato nel 2014, in una fascia di territorio compresa tra la Siria nord-orientale e l’Iraq occidentale, la distruzione del patrimonio diventa una deliberata arma di guerra, come già nella Jugoslavia del dopo Tito, dove le distruzioni del patrimonio per i serbi nazionalisti e ortodossi erano parte di un disegno che mirava allo sradicamento e quindi all’esodo definitivo dei croati. Con l’Isis c’è di nuovo, però, che la distruzione del patrimonio non va nascosta, ma condivisa on line per terrorizzare il mondo. La cultura da danno collaterale diventa un obiettivo specifico. Osserva Francesco Bandarin, consigliere speciale Unesco per il Patrimonio, che «il
furore di tipo iconoclastico è anche esso presente, come era avvenuto nel 2001 con la distruzione dei Buddh di Bamlyan in Afghanistan da parte del Governo dei Taliban, ma certamente prevale in questo caso il messaggio politico, gestito con conoscenza del funzionamento dei media moderni»

I legami tra la distruzione del patrimonio e la pulizia etnica, questa volta in Iraq, fanno ritenere a Benjamin Isakhan, della Deakin University di Melbourne, che «elemento centrale nell’ideologia e nell’azione dell’Isis è il desiderio di liberare il mondo da un passato complesso e cosmopolita. È una sorta di “Ground Zero” culturale, eliminando ciò che viene percepito come blasfemia del passato: dalle ceneri emergerà un nuovo califfato islamico, santo e rasserenato. Ogni monumento o decorazione, ogni manufatto o architettura, ogni santuario, chiesa o moschea che contraddicono la visione stretta e austera deve essere combattuto e distrutto»

L’Isis, ma non solo. In Siria, con una guerra civile iniziata nel marzo 2011, «non è solo l’Isis a distruggere o saccheggiare», come testimonia Cheikhmous Ali, ricercatore presso l’Università di Strasburgo, nato in Siria, e che dirige l’Association for the Protection of Syrian Archaeology (Aspa): «dei sei siti patrimonio dell’Umanità, tutti colpiti in diverso grado, solo Palmira era sotto il controllo dell’Isis, e solo per poco tempo. È importante spiegare che la città antica era stata già
saccheggiata quando è stata occupata dall’esercito siriano».

COOPERAZIONE EUROMEDITERRANEA E LINEE GUIDA PER UNA CARTA DEL RISCHIO DEL MEDITERRANEO: LA RISOLUZIONE DI PALERMO DEL 21 OTTOBRE 2007
Nel 2007 appariva, perciò, già indifferibile attivare una stretta collaborazione tra le Istituzioni preposte nelle diverse regioni alla tutela dei beni culturali, affinché si impegnassero concretamente nel definire ed applicare piani internazionali di adozione e mutuo soccorso del patrimonio, da attuare nelle emergenze in occasione di eventi calamitosi o di realtà territoriali complesse caratterizzate da forti instabilità politico militari.
Il tessuto connettivo era costituito dalle radici culturali comuni: la presenza diffusa, nei diversi territori europei e del Mediterraneo, di un ricchissimo patrimonio di beni culturali che contrappunta, esaltandolo, la vicenda storica plurimillenaria di una identità comune. Da qui la volontà di rinsaldare la memoria di questa storia comune anche attraverso questi nuovi percorsi di cooperazione euromediterranea.

L’ambizioso obiettivo che ci si era posti all’interno del citato convegno internazionale promosso dal CRPR era quello di avviare la costruzione di una Rete tra gli Istituti di Ricerca applicati alla conservazione del patrimonio culturale e presenti nel Mediterraneo in grado di attivare politiche condivise di gestione del patrimonio culturale e
di proporre strumenti innovativi di salvaguardia attiva dei paesaggi culturali del Mediterraneo.
Dal 1995 (Dichiarazione di Barcellona) a quel 2007, infatti, come si legge nella Risoluzione di Palermo del 2007, solo 3 gemellaggi su 1.500 avevano affrontato il tema della cultura; «gli attori della sponda sud, coinvolti nelle attività di conservazione e prevenzione, partecipano poco ai finanziamenti UE e spesso con un ruolo secondario e non da protagonisti; l’informazione sui finanziamenti è di difficile accesso e le procedure amministrative spesso bloccano la partecipazione stessa».
In base alle esperienze degli anni precedenti era stato possibile anche individuare l’identikit ideale dei protagonisti di questo impegno comune: la struttura politico amministrativa regionale, che stimola e coordina l’attività condotta da istituti di ricerca e mondo accademico presenti nel territorio. Si era visto, in altre parole, che è la scala regionale la soluzione idonea per realizzare collaborazioni di progetto in partenariato, che attuino in modo realmente efficace sia i percorsi della ricerca che l’applicazione di metodologie e criteri scaturiti dalle attività di progetto.
Gli obiettivi che l’idea di progetto si era prefissa “La Carta del Rischio Mediterranea”, che ha mosso i primi passi nel 2008 a partire dall’attività di ricerca fin a quel momento condotta dal CRPR, utilizzando l’esperienza già realizzata in ambito regionale, ma anche le attività di progetto interregionali, in ambito internazionale, e adattandola alle realtà estremamente diversificate che possono
presentarsi nelle diverse Regioni che si affacciano sul Mediterraneo, intendeva, con il coinvolgimento del maggiore numero di Regioni che si affacciano sul Mediterraneo, condividere e promuovere una tutela
partecipata; costruire un Gruppo di Intervento Permanente Internazionale, antesignano degli odierni Caschi blu della cultura, ma, a differenza di questi ultimi, attivo non solo nelle fasi dell’emergenza, ma anche in quelle della prevenzione, monitoraggio e indagine sul territorio per calibrare opportunamente le diverse attività correlate agli scenari dell’emergenza; individuare i problemi, evidenziando le criticità che caratterizzano aree territoriali o specifiche realtà monumentali e le possibili soluzioni tecniche per ottimizzare tempi e risorse dell’attività e non subire ma gestire l’emergenza. Tra le azoni previste per il raggiungimento di questi obiettivi, c’era la definizione
ed approvazione di Protocolli di Soccorso Mediterraneo per consentire alle autorità regionali di cooperare per gestire in emergenza la protezione del patrimonio, anche attuando programmi di adozione temporanea, concentrati temporalmente all’interno delle fasi politiche di grave crisi. Ma anche programmando attività di protezione del patrimonio immobile, trasporto del patrimonio mobile, messa in sicurezza dei contenitori di beni, etc. Beneficiari sarebbero stati, in sostanza tutto: le istituzioni governative, gli istituti universitari e di ricerca presenti nel territorio e coinvolti nella conservazione ed uso del patrimonio culturale, le popolazioni delle aree coinvolte, l’imprenditoria e i professionisti impegnati nei diversi settori della conservazione e gestione del patrimonio. Il budget stimato del progetto targato CRPR che si intendeva finanziare con la programmazione 2007-2013 era di 6.000.000 di euro.
I RISULTATI DELL’ATTIVITÀ DI STUDIO PROPOSTI ALL’INTERNO DEL CONVEGNO DEL 2007
Riguardano la prima fase del progetto, quella conoscitiva sulla presenza e densità territoriale del patrimonio. Erano stati censiti circa novemila beni (tra cui 800 musei e 200 edifici teatrali antichi) appartenenti al patrimonio monumentale di eccellenza, architettonico ed archeologico, presente in una realtà geografica che include 131
regioni facenti capo a 23 paesi e a tre continenti e che caratterizza i valori dell’identità dell’intera regione mediterranea. La selezione delle regioni all’interno di ciascuna nazione ha risposto al criterio di diretto affaccio sul Mediterraneo o comunque ricadente nella sua sfera culturale. Del patrimonio censito sono state successivamente compilate le relative schede anagrafico-identificative, organizzandole in uno specifico database raccordato ad una base cartografica a grande scala.
Le osservazioni proposte in seno al Convegno ed il confronto critico con i rappresentanti internazionali del mondo scientifico hanno permesso di calibrare più opportunamente l’impostazione generale che era stata data ai materiali prodotti in quella fase. Ne è così scaturita nei mesi seguenti una versione definitiva il cui database è
stato redatto oltre in italiano, in lingua inglese e nell’idioma della regione di appartenenza di ogni singolo bene.
Tutto questo costituiva la base utile a costruire una proposta progettuale, condivisa con gli altri Paesi, che allora si auspicava essere presentata all’interno dei successivi Programmi di Finanziamento internazionale. Sulla base di questa prima fase conoscitiva era, infatti, previsto l’approfondimento e il confronto delle conoscenze con le
diverse Regioni, utilizzando criteri condivisi per garantire la confrontabilità dei dati tra le diverse aree territoriali.
Tra gli sviluppi era prevista anche la creazione di una rete mediterranea delle webcam («Cento occhi sul Mediterraneo») in grado di osservare a distanza un gruppo selezionato di edifici monumentali, opere d’arte, emergenze naturali e naturalistiche, selezionate dalle diverse Regioni tra il patrimonio ritenuto di eccellenza e comprese negli elenchi della World Heritage List dell’UNESCO. Questa selezione avrebbe dovuto rispondere non solo ad evidenziare fenomeni di criticità legati ad abbandono, incuria o vandalismo, ma anche alle molteplici esigenze dei fruitori, dal turismo virtuale alle attività di ricerca, dai quesiti gestionali delle istituzioni pubbliche e
private alle esigenze formative provenienti dalla popolazione scolastica.
La risoluzione di Palermo fu firmata da 33 rappresentanti delle Istituzioni presenti, con l’impegno a tenere l’incontro successivo nel 2009 per fare un bilancio degli obiettivi prefissati e per dare continuità alle attività intraprese.
GLI ANNI PERSI: TUTTO FERMO DAL 2009
Quell’appuntamento per il 2009 (anno, peraltro, in cui era stata pure conclusa la prima campagna della Carta del Rischio e attivato il Sistema e WebGIS) non si realizzò: venne infatti meno la volontà politica di attivare i necessari flussi finanziari verso un progetto archiviato come «non ortodosso» e non normato dalle regole
regionali. Nel 2011 non venne nemmeno finanziato il nuovo progetto di completamento del Sistema regionale di Carta del Rischio, finalizzato più strettamente alle esigenze di protezione civile, per una gestione efficace delle fasi emergenziali. E così non si diede neppure seguito alla campagna di schedatura di vulnerabilità sismica,
portata avanti dall’Iscr di Roma parallelamente al progetto siciliano (si prevedeva il successivo trasferimento della banca dati curata dall’ISCR nel SIT di Carta del Rischio). Per realizzare il previsto piano di intervento con la Protezione Civile occorreva, appunto, portare a termine l’attività di censimento e valutazione di vulnerabilità del
patrimonio monumentale siciliano.
Ma era già dal 2010 che si è assistito a una totale destrutturazione dello stesso Centro per il Restauro con l’insensato trasferimento presso altri istituti del Dipartimento Beni culturali di personale altamente qualificato che ricopriva ruoli chiave, reso possibile per le famigerate rotazioni siciliane con cadenza biennale, ma anche a causa
per l’inconciliabilità con l’opinabile programmazione dei due ultimi direttori. Qui, insomma, con dirigenti e tecnici prossimi al pensionamento si è fatto in modo di disperdere le competenze acquisite. Il dato più macroscopico dell’attuale corso è la chiusura, da quello stesso 2010, del Sistema informativo territoriale siciliano della Carta del Rischio. Nel disinteresse di tutti gli assessori (l’attuale governo Crocetta ne ha sostituiti ben cinque in soli tre anni!) che si sono succeduti da allora fino ad oggi Gettati alle ortiche 4 milioni di
fondi europei che il Centro dal 2001 al 2008 ha gestito, speso e concluso. Questo significa che, in caso di terremoto in una regione come la Sicilia con elevata sismicità, operatori, Soprintendenze e Protezione civile non possono più accedere alla banca dati online, dove, per esempio, cliccando sopra l’epicentro si apriva un ventaglio
spaziale in cui era possibile individuare immediatamente i beni compresi all’interno della cosiddetta «buffer zone» di influenza sismica, consentendo, quindi, di intervenire in maniera mirata e stabilire le priorità 13).

Alla fine, l’ultimo atto di questa vicenda viene scritto con la riorganizzazione dipartimentale in vigore dal primo luglio scorso, con la quale la Carta del Rischio sparisce del tutto: assenti presso il CRPR le unità e relative attività che riguardano la conservazione programmata, la lettura e mitigazione dei rischi. Sembra d’altra parte, però, che l’Assessorato ai BBCC e IS abbia riconsiderato la priorità indicata dal vecchio staff del CRPR di implementare e sistematizzare le tre banche dati esistenti, quelle realizzate da CRICD e CRPR14, insieme a quelle prodotte nella redazione dei Piani Territoriali Paesistici15. Non, però, attraverso il canale che aveva indicato, nel 2015, l’allora
assessore Giovanni Purpura in risposta ai nostri interrogativi in merito alla chiusura del Sit («stiamo valutando – ci aveva detto – la possibilità di predisporre un progetto di aggiornamento e implementazione del Sistema, sfruttando anche i fondi
della nuova programmazione europea 2014–2020, che contempla anche l’innovazione tecnologica tra le sue priorità» 16), né,
soprattutto c’è nulla di concreto che faccia pensare a una reale volontà di riprendere il progetto della Carta del Rischio. I responsabili dei Centri all’epoca di Purpura, infatti, non hanno proposto nulla al riguardo, così come i dirigenti a quelli subentrati dal luglio scorso. Si punterebbe, invece, ad altre misure di finanziamento europeo
specifiche per digitalizzazione e archivi, incardinate sull’Assessorato dell’Economia. I bandi devono ancora essere formalizzati.

LA SICILIA PUÒ FARE QUALCOSA PER PROTEGGERE IL PATRIMONIO NEL MEDITERRANEO?
Qualcosa si muove, a quanto pare. Ecco che, allora, possiamo riprendere l’interrogativo d’apertura. E la risposta è sì, la Sicilia può recuperare gli anni persi e ritagliarsi un ruolo guida, come ha già dimostrato di saper fare.
Mentre a Roma il 14 settembre scorso, alla presenza del sottosegretario del Mibact Ilaria Borletti Buitoni e del presidente del Consiglio Superiore BBCC Giuliano Volpe, si è parlato di protezione del patrimonio dal secondo conflitto mondiale all’istituzione dei Caschi Blu della cultura Bene, quindi ancora, come dicevamo all’inizio, ci si
muove sul piano dell’intervento ad emergenza in corso, se si recuperasse, invece, con la Carta del Rischio anche quel progetto pionieristico della Carta del Mediterraneo, ancora più urgente oggi per la crescita esponenziale dell’indice di pericolosità attentati, la Sicilia potrebbe dare il via a quel cammino complesso, e a tutt’oggi inedito
nello scenario nazionale, della prevenzione. Quel ruolo di primo piano che la Regione Autonoma si era ritagliata non era forse un concreto ambito di applicazione di quella «specialità siciliana» oggetto, invece, di costante «dequotazione», per dirla con Guido Corso?
Ma la conclusione non può che essere affidata a un nuovo interrogativo. Se questo progetto riprenderà, in tempi di spending review, di necessità di ottimizzare le risorse anche umane, ma anche di semplice buon senso, non si dovrebbe recuperare il vecchio team o si può pensare di buttare tutto via per l’ennesima volta e ricominciare
daccapo senza neanche l’aiuto dell’esperienza di ciò che va fatto e di quello che non si deve di nuovo fare?
Silvia Mazza
10/09/2016

Silvia Mazza

Silvia Mazza* – Storica dell’arte e giornalista, scrive su “Il Giornale dell’Arte”, “Il Giornale dell’Architettura” e “The Art Newspaper”. Le sue inchieste sono state citate dal “Corriere della Sera” e  dal compianto Folco Quilici  nel suo ultimo libro Tutt’attorno la Sicilia: Un’avventura di mare (Utet, Torino 2017). Come opinionista specializzata interviene spesso sulla stampa siciliana (“Gazzetta del Sud”, “Il Giornale di Sicilia”, “La Sicilia”, etc.). Dal 2006 al 2012 è stata corrispondente per il quotidiano “America Oggi” (New Jersey), titolare della rubrica di “Arte e Cultura” del magazine domenicale “Oggi 7”. Con un diploma di Specializzazione in Storia dell’Arte Medievale e Moderna, ha una formazione specifica nel campo della conservazione del patrimonio culturale (Carta del Rischio).

Riferimenti:

1 Formalizzata a Roma il 16 febbraio scorso, a seguito dell’approvazione da parte dell’Unesco del 17 ottobre scorso. Prima della firma istitutiva della task force italiana i ministri Franceschini e Gentiloni e il sindaco di Torino Piero Fassino hanno firmato il protocollo d’intesa per la costituzione a Torino del Centro Unesco Itrech International Training and Research Center of Economies of Culture and World Heritage (Centro internazionale di formazione e ricerca sull’economia della cultura e del patrimonio mondiale), allocato al Campus delle Nazioni Unite, sulle rive del Po.

2 Il loro percorso formativo ha previsto quattro giorni di corso di addestramento a Livorno, un altro corso teorico presso la Scuola Superiore sant’Anna di Pisa in collaborazione con i carabinieri del nucleo Tuscania. Infine, presso una caserma romana hanno sostenuto il corso di qualificazione Unite for Heritage.

3 Albania, Algeria, Belgio, Bosnia Erzegovina, Cipro, Croazoa, Egitto, Francia, Germania, Inghilterra, Italia, Gerusalemme, Giordania, Israele, Libano, Malta, Marocco, Palestin, Portogallo, Romania, Russia, Siria, Slovacchia, Spagna, Tunisia, Turchia, USA.

4 Per il riferimento bibliografico sulle attività del CRPR, sulle risoluzioni internazionali, come, più avanti nel corpo del testo, per la Carta del Rischio del Mediterraneo cfr. Scienza e patrimonio culturale nel Mediterraneo, diagnostica e conservazione, esperienze e proposte per una Carta del Rischio, atti del 3. Convegno internazionale di studi «La materia e i segni della storia», Palermo, 18-21 ottobre 2007. I Quaderni di Palazzo Montalbo, n.15; Palermo, 2009.

5 All’interno del Convegno era stato deciso, pure, l’avvio di un’attività di Segretariato, presso il CRPR, per condividere la Ricerca per le Scienze e l’Alta Tecnologia Applicata alla Conservazione dei Beni Culturali del Mediterraneo, per condividere ed arricchire le esperienze di studio degli Istituti Scientifici dei diversi Paesi della Regione Euro-Mediterranea, impegnati nella conservazione del patrimonio comune e nella definizione di una sua gestione compatibile e di una fruizione sostenibile, aggregando vari Istituti e Dipartimenti Universitari per una condivisione e circolazione della Ricerca Applicata.

6 Cfr. Il Giornale dell’Arte (da qui in poi GdA), n. 353, mag. ’15, p. 18.

7 Benjamin Isakhan, Democracy in Iraq: History, Politics, Discourse, London, Ashgate 2012. Sullo specifico linguaggio dell’Isis per i tipi della Bompiani a fine 2015 è uscito Parole armate. Quello che l’Isis ci dice. E che noi non capiamo, di Philippe-Joseph Salazar.

8 Come sia cambiata la posizione dell’Occidente dai fatti del 2003 a quelli del 2014 la si può misurare nella distanza dalla dichiarazione dell’allora segretario della Difesa USA, Donald Rumsfeld, che liquidò le razzie al museo di Baghdad come «cose che capitano» («stuff happens»), e quella di ben altro spessore del segretario di Stato americano John Kerry che il 22 settembre 2014, durante la conferenza «Heritage in Peril: Iraq and Syria» al Met di New York ha definito le devastazioni in Medio Oriente «tra le più tragiche e violente mai viste, un deliberato attacco alla storia e
alle popolazioni di Iraq e Siria» e sottolineato la necessità di intervenire nell’area «per impedire che venga reciso per sempre il legame con un passato che le generazioni future rischiano di non vedere mai più»

9. Protezione legislativa inadeguata La legislazione internazionale

10 non è adeguatamente attrezzata per proteggere la cultura. Robert Bevan, membro del comitato per la preparazione ai rischi dell’Icomos, spiega che essendo stata adottata in larga parte dopo la seconda guerra mondiale, quando i combattenti erano Stati nazionali, e non terroristi, non tiene conto degli attori «diversi dagli Stati» né delle «guerre asimmetriche» di oggi

11. Né, d’altra parte, forze terroristiche come l’Isis riconoscono regole e leggi della Comunità internazionale. Un punto chiave è che l’attuale contesto legale non riconosce la distruzione della cultura come componente del genocidio: «se l’identità culturale di un gruppo viene sradicata, spiega Bevan, ciò avrà un risultato finale simile allo sradicamento fisico di quello stesso gruppo; esso cessa di esistere come entità culturale distinta». Eppure, tra gli autori della Convenzione sul Genocidio del 1948, Raphael Lemkin, l’ebreo polacco che sfuggì ai nazisti, avrebbe voluto che la definizione comprendesse non solo «barbarie» (attacchi al popolo), ma anche «vandalismi» (attacchi alle espressioni del genio del popolo). La Convenzione così come adottata dall’Onu ha, invece, omesso il concetto di Lemkin di genocidio culturale, perché, sostiene sempre Bevan, all’epoca della Guerra Fredda i Governi del nuovo mondo temevano che le popolazioni indigene (ed ex schiave) potessero applicare la legge contro i loro stessi Governi. Fu quindi una questione di realpolitik a
bloccare le clausole sul vandalismo. Oggi se ne hanno sotto gli occhi tutte le gravose conseguenze.

12. Mentre è solo del 27 settembre scorso che la Corte penale internazionale per la prima volta ha giudicato qualcuno colpevole di crimini di guerra per attacchi al patrimonio culturale: Ahmad Al Mahdi Al Faqi, l’ex capo della
polizia islamica del gruppo Ansar Dine (vicino ad al-Qaeda nel Maghreb Islamico, Aqmi), è stato condannato a 9 anni di carcere per avere partecipato nel 2012 alla distruzione di nove mausolei e della porta della moschea di Sidi Yahia a Timbuctu nel nord del Mali. «Solo» crimini di guerra, non ancora genocidio.

13 Le ragioni della chiusura del Sit sono state spiegate da chi scrive nell’inchiesta sul CRPR: «La Cilia [all’epoca direttrice del CRPR, ndc.] ci riferisce che il Sit «sarà di nuovo disponibile al termine della revisione e aggiornamento». Sennonché, cosa singolare, in atto non c’è proprio nulla. E, intanto, perché «oscurarlo»? L’abbiamo chiesto all’assessore ai Beni culturali siciliani Antonino Purpura che ci dice di «problematiche connesse ad alcune criticità di natura tecnica rilevate in corso di funzionamento, quali l’aggiornamento del software e la necessità di procedere alla individuazione di più idonei locali ove allocare il relativo server». «Funzionante» sicuramente il Sistema lo era quando era stato presentato. Ad attestarlo è Carlo Cacace, responsabile della Carta delRischio all’Iscr, che aveva collaborato, nell’ambito di un accordo tra i due Istituti, palermitano e romano, alla progettazione di quella siciliana, secondo gli schemi metodologici del sistema nazionale. «Trasmettemmo, ricorda Cacace, tutti i documenti tecnici della nostra architettura di sistema e anche i dati della
Regione Sicilia già presenti nel nostro sistema. Il lavoro effettuato dal Crpr, dunque, è stato quello di realizzare la piattaforma informatica importando tutto quello che avevamo realizzato, i nostri algoritmi di calcolo, ma andarono anche oltre, affinando gli algoritmi in funzione della specificità territoriale siciliana, effettuando schedature sullo stato di conservazione dei beni culturali presenti e implementando anche altre forme di rilevamento dei beni di sicuro interesse». Le criticità di cui parla l’assessore non risalgono sicuramente a quegli anni: «Durante le attività di realizzazione del sistema siciliano a cui ho partecipato questo era funzionante, le schede erano presenti», precisa Cacace. «Ovviamente, prosegue, il sistema realizzato deve prevedere spese per il suo mantenimento, per le necessarie manutenzioni evolutive che sono indispensabile per le corretta utilizzo a regime. Durante le attività di utilizzo emergono delle criticità normali che attraverso una manutenzione evolutiva possono essere corrette, così come è avvenuto per il sistema della Carta del rischio dell’Iscr». Concluso il progetto, era previsto che la collaborazione proseguisse negli anni successivi «se si fossero realizzate le condizioni economiche per il centro Crpr per realizzare evoluzioni e/o aggiornamenti del sistema». Invece si è interrotta. Le «condizioni economiche», in realtà, non sarebbero mancate.


Con l’Università di Urbino al via il corso sullo sviluppo dell’agricoltura biologica

Terra, lavoro e cibo come patrimonio culturale del Mediterraneo

Convegno a Fano per l’anno europeo del patrimonio culturale, 25 Ottobre 2018.

Il 2018 è stato proclamato “Anno europeo del patrimonio culturale”, con lo scopo di valorizzare la ricchezza culturale europea, incoraggiare un numero sempre maggiore di persone a scoprirla e rafforzare così il senso di appartenenza ad una comune identità europea. Il patrimonio comune europeo è stato così portato al centro di iniziative e manifestazioni, non solo come celebrazione del passato, ma anche per creare una solida base su cui costruire un futuro prospero e di pace per l’Europa. Durante tutto il 2018 sono stati organizzati eventi in tante le città europee per valorizzare questo patrimonio, fatto di arte, letteratura, artigianato ma anche di paesaggi naturali e siti archeologici dal valore inestimabile.

In questo contesto, il Centro di documentazione europea dell’Università degli Studi di Urbino Carlo Bo, insieme al dipartimento di Economia, società, politica hanno organizzato per oggi pomeriggio il convegno dal titolo “Terre, lavoro, cibo. Patrimonio culturale del Mediterraneo” (Fondazione della Cassa di Risparmio di Fano, via Montevecchio 114, ore 14), per parlare del patrimonio culturale europeo, e in particolare dell’area mediterranea, dal punto di vista del territorio, del lavoro agricolo e del cibo.

La conferenza ospita diversi relatori provenienti dall’ambiente universitario e da altre realtà italiane che affrontano da diversi punti di vista terra, lavoro e cibo, con un focus incentrato sul food system sostenibile e l’agricoltura biologica, e le loro interrelazioni.  Il convegno rappresenta anche la seconda edizione del corso “Modelli, politiche e strategie per lo sviluppo dell’agricoltura biologica”, organizzato dall’Ateneo di Urbino (dipartimento di Economia, società, politica), in collaborazione con i Comuni di Fano e di Isola del Piano (PU), Cospe onlus, la Tenuta di Montebello, la Fondazione Girolomoni, il Consorzio Marche biologiche, l’Alleanza delle cooperative italiane, l’Associazione medici per l’ambiente (Isde), il Consiglio per la ricerca in agricoltura e l’analisi dell’economia agraria (Crea-Pb), la Fondazione italiana per la ricerca in agricoltura biologica e biodinamica (Firab), l’Associazione italiana per l’agricoltura biologica (Aiab), la Fondazione Cante di Montevecchio di Fano.

Il corso, che si svolgerà nella nuova sede di Fano dell’Università di Urbino, ha l’obiettivo di fornire elementi essenziali dei modelli di agricoltura biologica, analizzandoli da diversi punti di vita e approcci disciplinari. Durante il corso infatti, saranno trattati sia gli aspetti normativi, relativi alla regolamentazione e alle politiche di sostegno, sia quelli più tecnico-agronomici. Il corso ha lo scopo di creare figure professionali che possano favorire processi innovativi nelle aree rurali e sostenere il rafforzamento del settore “biologico”, anche considerando la crescente attenzione dei consumatori a temi quali la tutela dell’ambiente e la cura della salute. Tra i relatori anche Carlo Ponzio di Cospe, che ripercorrerà la pluriennale esperienza dell’associazione nel settore dell’agroecologia su cui si basano molti progetti in corso in diversi paesi del mondo.

Fonte: http://www.greenreport.it/


Le Tonnare siciliane e i loro riti

La Tonnara dell’Orsa di Cinisi

La pesca del tonno si rinnova in Sicilia ogni anno con il rito della “mattanza”. Conosciuta da Greci e Romani, fu perfezionata dagli arabi che istruirono i siciliani. Le “passe” erano cospicue, specie lungo la linea tirrenica che da Trapani arriva fino a Palermo. Di quel passato rimangono oggi i “marfaraggi”, cioè la parte in muratura delle tonnare destinate alla lavorazione del tonno e alla conservazione del complesso delle reti (“cruciera”) e delle barche. Si contano sulle dita di una mano, le tonnare attive. A occidente del litorale di Carini, su una pianeggiante punta denominata dell’Orsa, nei pressi di una caletta, si trova l’antico baglio benedettino di Cinisi, raggiungibile grazie a una stradina che costeggia l’area aeroportuale. Si tratta di uno dei più antichi bagli adibiti a tonnara esistenti in Sicilia: fu concessa per questo uso da re Ludovico di Sicilia a Corrado de Castellis nel 1344. Nel 1382 pervenne al monastero dei benedettini di San Martino delle Scale e fece parte dell’immenso patrimonio dei frati per quasi cinque secoli.

Nel 1569 il marfaraggio venne ingrandito e restaurato, assumendo l’aspetto attuale e inglobando la torre trecentesca. Il baglio ha pianta quadrata, con un cortile interno cinto fra spesse mura. Si perviene all’interno attraverso un arco ogivale, l’ingresso principale che un tempo era chiuso da un cancello. Subito sulla destra dell’ingresso c’è un palazzetto a due elevazioni: al piano terra c’erano i magazzini e le stanze di lavoro, al piano superiore l’abitazione del rais (capobarca). Sulla sinistra ancora stanze da lavoro e la taverna; tutti gli ambienti hanno caratteristiche volte a botte in pietra. Nell’angolo più vicino al mare, a chiudere la cinta muraria, si staglia la torre, a due elevazioni e pianta quadrata. La sostengono agli angoli dei grossi costoloni che si interrompono all’altezza del marcapiano; un parapetto chiude la sommità formando una terrazza. Due aperture, nel lato verso il mare, consentivano l’uscita delle bocche di fuoco. La torre, che fungeva da punto d’avvistamento a protezione della tonnara, nel XVIII secolo fu inserita nel programma ufficiale di avvistamento che comprendeva l’intera costa dell’isola. I benedettini, che si comportavano come dei feudatari, la utilizzarono anche come carcere.

A sinistra della torre si trova un grande locale con archi rampanti, la “trizzana”, dove venivano ricoverate le barche. Nel muro di traverso è stato ricostruito l’appendituri che serviva per appendere i tonni dopo l’eviscerazione. Ancora oltre troviamo una cappella, piccola costruzione quadrata dedicata alla Vergine, e infine il rivellino, anch’esso a pianta quadrata, dal quale si controllavano i movimenti nell’entroterra, con camminamento, feritoie e caditoie. Adiacente a questo torrino di può osservare il sistema di raccolta delle acque, con pozzo e cisterna, il lavatoio e il forno. La posizione dell’Orsa non fu mai fortunata per via della vicinanza di altre tonnare che intercettavano i tonni. Nei secoli i benedettini la diedero in gestione a diversi privati, ma al principio del Novecento venne abbandonata. La tonnara è stata restaurata pochi anni fa.

testo di Carlo di Franco

I TONNAROTI DELL’ISOLA DI FAVIGNANA

Il mondo dei tonnaroti è un mondo a parte, ai margini del mito. Sono gli ultimi combattenti. Alti, alcuni giganteschi, corpo massiccio, mani enormi, il viso segnato dal sole ma sempre un sorriso velato dietro lo sguardo. La mattanza è la lotta col tonno. Certo, ogni tonno è ammazzato, ma per ogni tonno che entra loro rischiano una codata che li può rendere paralizzati a vita, come è già successo. Il loro lavoro comincia a febbraio, è un lavoro di cesellatori. Agli inizi del secolo, a febbraio, si trasferivano tutti nell’isolotto di Formica, a qualche chilometro da Levanzo e Favignana, che era provvisto degli stabili magazzini, della casa dell’Economo della tonnara, della casa del Rais, il Capo della tonnara, e i posti letto per i tonnaroti, una quarantina circa.

I padroni della Tonnara sono i Florio, poi c’è l’Economo, che vive quotidianamente con i tonnaroti e più a stretto contatto col Rais, per disbrigare le spese quotidiane della tonnara. E poi c’è il Rais, il capo dei tonnaroti, è lui che decide ogni azione, quando aprire e chiudere le porte delle stanze, è lui che decide.”Domani, oggi si fa mattanza!”. Qualche decina d’anni fa l’usanza di andare a Formica è stata dismessa e l’isolotto è diventato la comunità terapeutica di Mondo X di Padre Eligio. Ritornando ai tonnaroti: devono stendere una rete di qualche chilometro, che si chiama “costa” che appunto incanala i tonni verso le camere della morte. Una “costa” a est dell’isola di Favignana ed una ad ovest, al centro le “camere della morte”. Sono delle precamere per l’ultima camera, che hanno delle porte che si possono aprire e chiudere. Quando nella camera ci sono abbastanza tonni si chiude la porta d’accesso e si apre quella per la camera successiva.

Appena saranno tutti nella camera successiva si riaprirà la porta d’accesso della camera precedente. Ogni giorno una barca con il Rais a bordo va a controllare quanti tonni sono entrati nelle prime stanze e decide l’apertura e la chiusura delle porte. Tra le centinaia di boe che segnalano la rete della tonnara c’è ne una che porta l’insegna della Madonna dei Tonnaroti, ogni giorno la barca del Rais passa e si ferma davanti a quella boa per un momento di preghiera, tutti ad alta voce, momenti forti, di tipico ricongiungimento. L’ultima camera ha una rete distesa sul fondo. Il giorno della mattanza, i tonnaroti, cantando delle canzoni, delle nenie tradizionali, si danno il ritmo per portare a galla la rete sul fondo, con dentro tutti i tonni. Quando la rete è a galla, ci vuole quasi un’ora, inizia la mattanza, uno spettacolo possibilmente da non perdersi. Ci sono centinaia di tonni che si dimenano, schizzando acqua dappertutto, e la barca del Rais con un altro uomo esattamente in mezzo, nel centro della grande piscina, in mezzo al frastuono più assordante. I tonnaroti iniziano a prendere i tonni con le loro lunghe aste uncinate, uno due tre, e poi li devono tirare a bordo. Quando si tratta di un tonno di 400 chili, cioè come quello della fotografia, è veramente faticoso, compreso alla fine il dover schivare, a tempo, la codata.

L’acqua, ben presto inizia ad arrossarsi di sangue, i tonni perdono molto sangue, la loro è carne rossa, sanguigna. E si inizia il conto dei tonni, 100, 200, 300, 400. C’è aria di battaglia, di bagarre, ci sono sguardi tirati dalla fatica. Schizzi d’acqua e sangue dappertutto, il barcone con i turisti è in euforia, sono tutti agitati, esaltati, migliaia di foto vengono scattate in un minuto. Tutto questo dura circa 30 minuti. Poi, tirato l’ultimo tonno, c’è un momento di festa, molto sommesso, che sembra quasi una trasgressione, chi si butta nell’acqua rossa, tra i tonnaroti, e poi in silenzio, sui barconi, il ritorno a casa, aspettando il giorno della prossima mattanza. Lo spettacolo della mattanza viene definito uno spettacolo violento, è sicuramente uno spettacolo carico di istinto di sopravvivenza, non direi violento. Un tonnaroto, Clemente, intervistato su questa presunta violenza dei tonnaroti ha risposto:” Ma non capisco perché noi dobbiamo essere i violenti; si ammazzano i maiali, le vacche, le galline e i violenti siamo noi?

Non è giusto!”   MAZZABUBU DELLA “CHIAZZA” DI TRAPANI Mazzabubu è il grande venditore di pesce del porto peschereccio di Trapani. E’ lui che fa il prezzo dei pesci, è lui che ogni mattina alle tre aspetta i primi pescherecci che rientrano, è lui che vede quanti pesci hanno pescato e quali pesci hanno pescato ed è quindi lui, che ogni giorno, è quello che, per diritto acquisito, decide il prezzo ufficiale del pesce. E non sbaglia mai. Non può sbagliarsi. Poi, durante la mattinata vende il pesce al Mercato della “Chiazza” di Trapani. Quando è morto, qualche anno fa, è morto ricco. Il mercato della “Chiazza” ha una architettura dechirichiana, è pieno di surrealismo, ha un porticato colonnato che si svolge per 180° e al centro una statua in bronzo di Venere nuda, con fontanella annessa. Il culto di Venere a Trapani è storicamente importante. Erice, il villaggio che sta sulla montagna che difende Trapani, nell’antichità era una delle tappe principali del culto di Venere in Sicilia, a 25 chilometri c’è il tempio di Segesta, nato per lo stesso culto.


Favignana la perla delle Egadi

http://www.trapaninostra.it/libri/Gaspare_Scarcella/Favignana_La_perla_delle_Egadi/Favignana_La_perla_delle_Egadi-12.pdf

Le vie mediterranee del tonno

Da Gibilterra, una sorta di stazione intermedia e di smistamento, i branchi scoccano come frecce su traiettorie diverse.
Taluni muoveranno verso le più vicine coste africane di Marocco, Libia e Tunisia; altri proseguiranno fino all’Egeo; altri ancora centreranno la Sicilia per circumnavigarla dalla costa occidentale trapanese a quella orientale e giù fino all’estremo Sud di Capo Passero. Ogni anno è così, perché questo è il codice del Thunnus thynnus di questo emisfero. E’ così da molto tempo prima che, 10 mila anni orsono, una mano incidesse, stilizzata, la possente sagoma del pesce dentro la Grotta dei genovesi nell’isolotto di Levanzo di fronte a Trapani nell’arcipelago delle Egadi.

La sagoma del tonno e l’immagine di un uomo: certamente il primo documento “scritto” dell’arte di cacciare i tonni. Nasce così la tonnara. Un immenso complesso di reti, quasi un castello sommerso per chilometri, con le sue insidie, con le segrete e i passaggi obbligati, con la “torre” rovesciata. Nasce così il malfaraggio, quel complesso di edifici che raggruppano le rimesse per il naviglio, le reti, gli attrezzi per la pesca, quasi sempre con una torre, da dove il rais, l’uomo che ha costruito e posto la rete, interroga il mare, guarda il cielo, annusa gli odori, trova misteriosi punti di riferimento sulla montagna e non parla ai suoi uomini ma ordina imperioso dalla sua muciara (la barca trono, l’ammiraglia a remi della tonnara) fino al compimento del rito della mattanza, della morte. I tonni trafitti e morenti oggi non raggiungono più i malfaraggi. Motivi economici e il mercato impongono l’applicazione di sofisticati metodi di lavorazione e conservazione del pesce, che richiedono immediatezza e celerità. Tutto avviene in mare, lontano dalla costa.

I canti dei Tonnaroti di Favignana

“In questi ritmi(…) il lungo e uniforme lavoro dà luogo (…) a una continua iterazione della stessa formula (…) La scansione ritmica, come in un rito sacro, si accompagna in perfetta sincronia con i movimenti e, coordinandoli, ne alleggerisce il peso e ne aumenta l’efficacia…”


Aja Mola” – Canto popolare dei tonnaroti durante il ritiro della rete a bordo

E’ un canto responsoriale, alla voce del solista (Rais) fa eco il coro di pescatori che tirano le reti a bordo delle Muciare: le nere barche  utilizzate per la mattanza. L’andamento lento, fortemente cadenzato e ben ritmato, accompagna lo sforzo durante la prima fase dell’affioramento delle reti; questa cialoma è “Aja mola“, dall’arabo “ai ya mawla” (O mio Signore). Una breve notazione, il termine Assumma era il grido corale che stava ad indicare il momento in cui bisognava issare le reti.

Aja mola, aja mola
Aja mola e vai avanti,
Aja mola e vai avanti
(dall’arabo “ ai ya mawla”, o mio Signore)
Aja mola, aja molaAja mola, aja mola
Gesù Cristu cu li SantiGesù Cristo con i Santi
Aja mola, aja molaAja mola, aja mola
e lu Santu Sarvaturie il Santo Salvatore
Aja mola, aja molaAja mola, aja mola
E criasti Luna e SuliE hai creato la Luna e il Sole
Aja mola, aja molaAja mola, aja mola
E criasti tanta gentiE hai creato tanti popoli
Aja mola, aja molaAja mola, aja mola
Virgini Santa parturientiVergine Santa partorente
Aja mola, aja molaAja mola, aja mola
Virgina Santa parturìuLa Vergine Santa ha partorito
Aja mola, aja molaAja mola, aja mola
Fici un figghiu comu DiuHa partorito il figlio Dio
Aja mola, aja molaAja mola, aja mola
E ppi nomi Gesù chiamauE lo chiamò Gesù
Aja mola, aja molaAja mola, aja mola
AssummaTira su (tira la rete della tonnara)
Lavorazione del tonno

Aja mola, aja mola – Il mio incontro con un tonno

di Francesco Venerando Mantegna

Articolo pubblicato sulla rivista internazionale OK Sicilia