POESIA E PROSA DEL NOSTRO TEMPO IN SICILIA E NEL MEDITERRANEO

Giovanni Verga – “Tenevamo gli occhi fissi nel cielo, e mi pareva che le anime nostre si parlassero attraverso l’epidermide delle nostre mani e si abbracciassero nei nostri sguardi che s’incontravano nelle stelle.”

Io sono nato in Sicilia e lì l’uomo nasce isola nell’isola e rimane tale fino alla morte, anche vivendo lontano dall’aspra terra natìa circondata dal mare immenso e geloso.

Mediterraneo
Antico, sono ubriacato dalla voce
ch’esce dalle tue bocche quando si schiudono
come verdi campane e si ributtano
indietro e si disciolgono.
La casa delle mie estati lontane,
t’era accanto, lo sai,
là nel paese dove il sole cuoce
e annuvolano l’aria le zanzare.
Come allora oggi la tua presenza impietro,
mare, ma non più degno
mi credo del solenne ammonimento
del tuo respiro. Tu m’hai detto primo
che il piccino fermento
del mio cuore non era che un momento
del tuo; che mi era in fondo
la tua legge rischiosa: esser vasto e diverso
e svuotarsi cosi d’ogni lordura
come tu fai che sbatti sulle sponde
tra sugheri alghe asterie
le inutili macerie del tuo abisso.
Eugenio Montale
L’Eternità
È ritrovata.
Che cosa? L’Eternità.
È il mare andato
col sole.
Anima sentinella,
mormoriamo la confessione
della notte così nulla
e del giorno infuocato.
Dagli umani suffragi,
dagli slanci comuni
là ti liberi
e voli dove vuoi.
Poiché soltanto da voi,
o braci di raso,
il dovere si esala
senza che si dica: finalmente.
Là, nessuna speranza,
nessun orietur.
Scienza con pazienza,
il supplizio è sicuro.
È ritrovata.
Che cosa? L’Eternità.
È il mare andato
col sole.
Rimbaud
S’ode ancora il mare
Già da più notti s’ode ancora il mare,
lieve, su e giù, lungo le sabbie lisce.
Eco d’una voce chiusa nella mente
che risale dal tempo; ed anche questo
lamento assiduo di gabbiani: forse
d’uccelli delle torri, che l’aprile
sospinge verso la pianura. Già
m’eri vicina tu con quella voce;
ed io vorrei che pure a te venisse,
ora, di me un’eco di memoria,
come quel buio murmure di mare.
Quasimodo
Spuma di mare
Chi è fatto di pietra, chi è fatto d’argilla –
Io invece sono fatta d’argento e brillo!
La mia occupazione – è il tradimento, il mio nome – Marina,
io – sono l’effimera spuma del mare.
Chi è fatto d’argilla, chi è fatto di carne –
a costoro la bara e le lastre tombali …
-battezzata nella fonte marina – e nel mio
volo continuamente infranta!
Attraverso ogni cuore, attraverso ogni rete
batte il mio arbitrio.
Io – vedi questi ricci scomposti? –
non sono fatta del sale della terra.
Mi frango sulle vostre granitiche ginocchia
e da ogni onda – risuscito!
Evviva la schiuma – l’allegra schiuma –
l’alta schiuma del mare!
Marina Ivanovna Cvetaeva

Terra e Mare
Quando sull’azzurro dei mari,
Zèfiro soffia la sua brezza
Sulle vele dei fieri vascelli
E le barche sull’onde accarezza,
Lasciato il peso dei pensieri,
Nell’inerzia io posso annegare –
Dimentico i canti delle muse,
M’è più caro il mormorio del mare.
Ma quando contro la riva l’onde
Schiumose ruggiscono e fremono,
E il tuono rimbomba nel cielo,
E i lampi nel buio balenano,
Allora i più ospitali querceti
Io ai mari preferisco;
La terra mi sembra più fedele,
E il grave pescatore compatisco:
Vive su una fragile imbarcazione,
Trastullo della cieca corrente,
Mentre io nel silenzio sicuro
Ascolto il fruscio d’un torrente.
Aleksandr Puškin

In barca
Vedi le stelle, amore,
ancor più chiare nell’acqua e splendenti
di quelle sopra a noi, e più bianche
come ninfee!
Ombre lucenti di stelle, amore:
quante stelle sono nella tua coppa?
Quante riflesse nella tua anima?
Solo le mie, amore, le mie soltanto?
Guarda, quando i remi muovo,
come deformate s’agitano
le stelle, e vengon disperse!
Perfino le tue, lo vedi?
Rovesciano le stelle le acque
acque povere, inquiete, abbandonate…!
Dici, amore, che non viene scosso il cielo
E immobili son le sue stelle?
Là! hai visto
quella scintilla volare su di noi? Le stelle
in cielo neanche son sicure.
E di me, che sarà, amore, di me?
Cosa sarà, amore, se presto
la tua stella fosse lanciata sopra un’onda?
Sembrerebbero le tenebre un sepolcro?
Svaniresti tu, amore, svaniresti?
David Herbert Lawrence

Giacomo Leopardi
A distanza di due secoli “L’Infinito” di Leopardi mantiene immutata tutta la sua armonia, riflesso dello stato d’animo dell’Uomo, i suoi versi scandiscono i ritmi della vita che muore e rinasce, senza soluzione di continuità.

L’Infinito nell’interpretazione di Vittorio Gassman
clicca sull’immagine per l’audio
Fernand Braudel

“Il Mediterraneo” di F. Braudel rimane sicuramente una delle opere più significative dedicate al nostro grande mare interno, ai suoi scenari suggestivi e alle sue genti. Pagine pulsanti, da cui non si può prescindere se si vuole comprendere e respirare appieno quella mediterraneità che ha illuminato la storia di questo pianeta. E’ un libro che non può mancare nella nostra biblioteca personale, piccola o grande che sia. Ne riportiamo quì solo qualche passo introduttivo dell’Autore.M e d i t e r r a n e o”In questo libro, le imbarcazioni navigano; le onde ripetono la loro canzone; i vignaioli discendono dalle colline delle Cinque Terre, sulla riviera genovese; in Provenza e in Grecia si bacchiano le olive; i pescatori tirano le reti sulla laguna di Venezia; i carpentieri costruiscono barche, uguali oggi a quelle di ieri… E ancora una volta, guardandole, ci ritroviamo fuori dal tempo.… Che cos’è il Mediterraneo? Mille cose insieme. Non un paesaggio, ma innumerevoli paesaggi. Non un mare, ma un susseguirsi di mari. Non una civiltà, ma una serie di civiltà accatastate le une sulle altre. Viaggiare nel Mediterraneo significa incontrare il mondo romano in Libano, la preistoria in Sardegna, le città greche in Sicilia, la presenza araba in Spagna, l’Islam turco in Iugoslavia. Significa sprofondare nell’abisso dei secoli, fino alle costruzioni megalitiche di Malta o alle piramidi d’Egitto. Significa incontrare realtà antichissime, ancora vive, a fianco dell’ultramoderno: accanto a Venezia, nella sua falsa immobilità, l’imponente agglomerato industriale di Mestre; accanto alla barca del pescatore, che è ancora quella di Ulisse, il peschereccio devastatore dei fondi marini o le enormi petroliere. Significa immergersi nell’arcaismo dei mondi insulari e nello stesso tempo stupire di fronte all’estrema giovinezza di città molto antiche, aperte a tutti i venti della cultura e del profitto, e che da secoli sorvegliano e consumano il mare.Tutto questo perché il Mediterraneo è un crocevia antichissimo.
Da millenni tutto vi confluisce, complicandone e arricchendone la storia: bestie da soma, vetture, merci, navi, idee, religioni, modi di vivere. E anche le piante. Le credete mediterranee. Ebbene, a eccezione dell’ulivo, della vite e del grano -autoctoni di precocissimo insediamento- sono quasi tutte nate lontano dal mare. Se Erodoto, il padre della storia, vissuto nel V secolo a.C., tornasse e si mescolasse ai turisti di oggi, andrebbe incontro a una sorpresa dopo l’altra. “Lo immagino”, ha scritto Lucien Febvre, “rifare oggi il suo periplo del Mediterraneo orientale. Quanti motivi di stupore! Quei frutti d’oro tra le foglie verde scuro di certi arbusti – arance, limoni, mandarini, – non ricorda di averli mai visti nella sua vita. Sfido! Vengono dall’Estremo Oriente, sono stati introdotti dagli arabi. Quelle piante bizzarre dalla sagoma insolita, pungenti, dallo stelo fiorito, dai nomi astrusi – agavi, aloè, fichi d’India -, anche queste in vita sua non le ha mai viste. Sfido! Vengono dall’America. Quei grandi alberi dal pallido fogliame che pure portano un nome greco, eucalipto: giammai gli è capitato di vederne di simili. Sfido! Vengono dall’Australia. E i cipressi, a loro volta, sono persiani. Questo per quanto concerne lo scenario. Ma quante sorprese, ancora, al momento del pasto: il pomodoro, peruviano; la melanzana, indiana; il peperoncino, originario della Guyana; il mais, messicano; il riso dono degli arabi; per non parlare del fagiolo, della patata, del pesco, montanaro cinese divenuto iraniano, o del tabacco”.
Tuttavia, questi elementi sono diventati costitutivi del paesaggio mediterraneo: “Una Riviera senza aranci, una Toscana senza cipressi, il cesto di un ambulante senza peperoncini… che cosa può esservi di più inconcepibile, oggi, per noi? (Lucien Febvre, in Annales”, XII, 29). E a voler catalogare gli uomini del Mediterraneo, quelli nati sulle sue sponde o discendenti di quanti in tempi lontani ne solcarono o ne coltivarono le terre e i campi a terrazze, e poi i nuovi venuti che di volta lo invasero, non se ne trarrebbe la stessa impressione che si ricava redigendo l’elenco delle sue piante e dei suoi frutti? Nel paesaggio fisico come quello umano, il Mediterraneo crocevia, il Mediterraneo eteroclito si presenta al nostro ricordo come un’immagine coerente, un sistema in cui tutto si fonde e si ricompone in un’unità originale. Come spiegarla? Come spiegare l’essenza profonda del Mediterraneo? Sarà necessario moltiplicare gli sforzi. La spiegazione non risiede soltanto nella natura, che pure molto ha operato in tal senso, né soltanto nell’uomo, che ha ostinatamente legato insieme il tutto, ma del confluire dei favori e delle maledizioni – numerosi entrambi – della natura e degli sforzi molteplici degli uomini, ieri e oggi. In un susseguirsi interminabile, insomma, di casi, incidenti, reiterati successi. Il fine di questo libro è di dimostrare che tali esperienze e tali successi si comprendono soltanto se considerati complessivamente, e soprattutto che devono essere posti a raffronto, che spesso è opportuno esaminarli alla luce del presente, che è a partire da quanto si vede oggi che si può giudicare e capire l’ieri – e viceversa. Il Mediterraneo è una buona occasione per presentare un “altro” modo di accostarsi alla storia. Il mare infatti, quale lo conosciamo e lo amiamo, offre sul proprio passato la più sbalorditiva e illuminante delle testimonianze.” (Fernand Braudel)
Predrag Matvejevic

Con particolare gioia riporto la recensione su “Breviario Mediterraneo” del compianto amico Predrag Matvejevic, con il quale abbiamo condiviso giornate di intenso lavoro a Palermo, in occasione dei “Colloqui Interculturali Mediterranei” da me coordinati a Castel Utveggio nel 1998, con il patrocinio e la partecipazione della Presidenza della Regione Siciliana. – Francesco Venerando Mantegna, presidente di COMEN
Recensione di Matteo Zola al “Breviario Mediterraneo” di Predrag Matvejevic
Un faro, che potrebbe essere quello di Alessandria, ad illuminare la rotta fin dalla copertina. E la rotta è ardua a definirsi, disperazione dei librai “Breviario Mediterraneo” di Predrag Matvejević non ha collocazione negli scaffali, e le ha tutte: romanzo, saggio geografico piuttosto che storico, racconto di viaggio, prosa poetica. Capolavoro del “non genere”, grande cesta in cui si trovano in apparente disordine notizie che percorrono la storia e i popoli (Egizi, Fenici, Greci, Romani, Arabi, Veneziani…) e i paesi che toccano il Mediterraneo, anche quelli che ne sentono solo il vento e l’odore. Non è un diario di viaggio, anche se insegna a viaggiare, o un libro di bordo, anche se offre le coordinate per muoversi attraverso la geografia. Non è un dizionario, per quanto a volte sembra ricalcarne la struttura. Ha però del romanzo la forza narrativa, la capacità di trasportare il lettore attraverso i racconti brevi e nitidi. Un romanzo, già. E davvero aveva ragione Kundera quando nel suo “L’arte del romanzo[2]” diceva che tale genere letterario non ha regole, ma è un sacco vuoto da riempire di materiali eterogenei dopo la sbornia ottocentesca.
E Matvejević, come Kundera, appartiene alla cultura slava mittel-europea che facilmente scavalca le rigide categorizzazioni e i compartimenti stagni. Di cosa parla dunque questo Breviario? Di Mediterraneo, si è capito, ma di un Mediterraneo fatto di luoghi che diventano personaggi. Luoghi minimi, la boa, il molo, il porto, fino all’ampiezza delle isole e delle penisole. Luoghi che sono la costa e la gente della costa, luoghi che sono migrazioni di popoli e filosofie.Rispetto a Braudel, che ha voluto comporre un grande quadro storico-politico del Mediterraneo, quello di Matvejević è un libro che si potrebbe riassumere nel termine di geopoetica benché non manchi un capitolo “splendido”, come lo ha definito Claudio Magris nella prefazione, dedicato alla cartografia. Prima di arrivarci, però, occorre soffermarsi ancora sulla parte eponima, quel Breviario che pare una ricerca entro l’etimologia ideale e spirituale del Mediterraneo. Ecco allora che le onde “hanno un ruolo importante nella drammaturgia del mare, negli spettacoli, negli avvenimenti”. E qui l’autore ci guida nella varietà di denominazioni con cui sono indicate.

E poi ancora, ecco i suoni delle onde: “rumore o voce, sussurri o mugghi, sciacquio o sciabordio?”. Ma non basta, e la ricerca filologica prosegue nei venti che erano un tempo “le divinità del Mediterraneo”, in grado di determinare il destino del mare e dei suoi naviganti. Già, perché il Mediterraneo non è uno solo, anzi si compone di molteplici acque che si fondono e vengono nominate in base alle coste e alle correnti: “il Mediterraneo nasce, cambia e talvolta muore con i suoi venti, umili o prepotenti”.La seconda parte del libro è dedicata alle carte, da quelle dell’antichità fino alle moderne. Un viaggio nel tempo che è al contempo viaggio nello spazio. Le città costiere dell’antichità erano gelose del loro repertorio cartografico, le rotte e la conoscenza delle coste aprivano a nuove pescagioni e colonizzazioni. Differenti supporti erano utilizzati per le carte di terra e di mare, poiché differenti erano i mondi che si andavano a incontrare e diversi erano i moti di chi andava per la terraferma o per acqua: la tradizione greca separa periplo da anabasi. E dal Mediterraneo sono partiti i primi naviganti verso altri mari. Schillace di Carianda navigò, venticinque secoli fa, fino in India per conto dell’imperatore di Persia. Il cartaginese Annone oltrepassò lo stretto di Gibilterra nel 500 a.C. circumnavigando l’Africa. Il viaggio di Pitea di Marsiglia[3] lo ha spinto fino alle Isole di Mezzanotte, l’odierna Irlanda, e più a nord fino alla mitica Ultima Thule (forse le Shetland, o chissà, l’Islanda).
Dal Mediterraneo partono rotte che uniscono la storia con il mito: isole leggendarie a segnare i confini del mondo, scienza, astronomia, medicina, chimica. E di queste ultime Matvejević ringrazia la civiltà islamica, il suo ruolo di connessione tra oriente e occidente ha aiutato l’Europa ha uscire dal Medioevo.L’autore sembra (giustamente) convinto che, nella polimorfia semantica che ci circonda, la sola possibilità di significato sia nell’etimologia. E per questo ci dice che darsena e arsenale derivano entrambi dall’arabo darçanha, così altri termini marinareschi: admiral (ammiraglio) al-kathram (catrame, utilizzato nella costruzione delle navi. Arabo è il termine azimut, e il termine çifr (zero, da cui poi “cifra”) fino al al-gabr, da cui algebra, in origine indicava la riduzione di fratture ossee. E all’etimologia è dedicata l’ultima parte del libro, un vero e proprio lexicon del mare.La parcellizzazione della realtà Mediterranea non è un semplice escamotage stilistico, atto a muovere la descrizione dal microcosmo al macrocosmo per mostrarne le analogie. Essa sottende a una visione che è anche politica dello spazio descritto. Vale a dire, il Mediterraneo si presenta come uno stato di cose tra loro interdipendenti ma separate, non riesce a diventare un progetto. La sua riva settentrionale presenta un evidente ritardo rispetto al nord Europa, e altrettanto la riva meridionale rispetto a quella europea.
Tanto a nord quanto a sud, l’insieme del bacino si lega con difficoltà al continente. Non è davvero possibile considerare questo mare come un insieme senza tener conto delle fratture che lo dividono, dei conflitti che lo dilaniano: in Palestina, in Libano, a Cipro, e ieri nel Maghreb, nei Balcani da sempre. Fino ai riflessi delle guerre più lontane, quelle in Afganistan e in Iraq, con la guerra al terrore che sempre più insinua nelle coscienze europee un anti-islamismo che il Mediterraneo non riesce a disinnescare, malgrado la Turchia nella Nato, malgrado il portato culturale islamico che ancora oggi echeggia nel lessico di tutte le lingue del bacino.Entrambe le rive furono molto più importanti sulle carte utilizzate dagli strateghi che non su quelle che dispiegano gli economisti. Quello che fu il mare più importante della civiltà fino alla modernità, non ha saputo uscire dallo stretto che ne chiude i confini. Il suo portato di unità e divisione, la sua omogeneità e la sua disparità, la ricchezza derivante dall’essere una sola moltitudine, non è bastato: l’insieme mediterraneo è composto di molti sottoinsiemi che sfidano o rifiutano le idee unificatrici. Ed oggi le unificazioni necessarie sembrano essere quelle economiche. Ma un’unione mediterranea, più volte e in più modi tentata, non si è mai realizzata. Di recente il Presidente della Repubblica francese, Nicolas Sarkozy, ha rilanciato il tema del Partenariato euro-mediterraneo.
Il dibattito è dunque ancora aperto benché di ardua soluzione. Forse anche a causa di quella che è la peculiare cultura del Mediterraneo.Non esiste una sola cultura mediterranea: ce ne sono molte in seno a un solo Mediterraneo. Esse sono caratterizzate da tratti per certi versi simili e per altri differenti. Le somiglianze, ci spiega Matvejević, sono dovute alla prossimità di un mare comune e all’incontro sulle sue sponde di nazioni e di forme di espressione vicine. Le differenze sono segnate da fatti d’origine e di storia, di credenze e di costumi. Né le somiglianze né le differenze sono assolute o costanti: talvolta sono le prime a prevalere, talvolta le altre. Il resto è mitologia.
Percepire il Mediterraneo partendo solamente dal suo passato rimane un’abitudine tenace, tanto sul litorale quanto nell’entroterra. La ‘patria dei miti’ sembra avere infine sofferto delle mitologie, che essa stessa ha generato o che altri hanno nutrito. «Questo spazio così ricco di storia è stato vittima degli storicismi. Ha smesso di essere Storia per diventare oggetto nelle mani degli storici», per citare le parole dell’autore. «La tendenza a confondere la rappresentazione della realtà con la realtà stessa si perpetua: l’immagine del Mediterraneo e il Mediterraneo reale non s’identificano affatto. Un’identità dell’essere, amplificandosi, eclissa o respinge un’identità del fare, mal definita. La retrospettiva continua ad avere la meglio sulla prospettiva. Ed è così che lo stesso pensiero rimane prigioniero degli stereotipi»[4].
Il romanzo geopoetico di Matvejevic, dunque, non deve alimentare le suggestioni che richiama invero fin dalla prima pagina. Non a Salonicco symprotevousa si deve pensare, non alla biblioteca di Alessandria, non ad Algeri tamazight ed europea al contempo, non a Dubrovnik che fu Ragusa, repubblica marinara. Ma a Venezia bisogna pensare. Venezia simbolo di un Mediterraneo che affonda e che bisogna salvare.[1] Pier Luigi Bacchini, da Mar Mediterraneo, in Canti Territoriali, Mondadori, Milano 2009[2] Milan Kundera, L’arte del romanzo, Adelphi, Milano 1988[3] Giovanni Rossi, Viaggio all’ultima Thule, Sellerio Editore, Palermo 1995[4] Defne Gursoy, intervista a Predrag Matvejević, in Euromed / Fondazione Mediterraneo, http://www.euromedi.org/
Adonis

Pseudonimo del poeta siriano naturalizzato libanese ‛Alī Aḥmad al-Sa‛īd (n. Qassabīn, Laodicea, 1930). È stato tra i fondatori della rivista Ši῾r (“Poesia”), aperta alla sperimentazione e alla poesia occidentale. Tra gli iniziatori del verso libero, A. ha contribuito a svincolare la poesia araba dagli schemi tradizionali. Terminati gli studi presso l’università di Damasco si è trasferito a Beirut (1956). Nel 1957 ha fondato, insieme al poeta libanese Yūsuf al-H̱āl, la rivista letteraria Ši῾r (“Poesia”), la cui pubblicazione è stata interrotta nel 1964. Nel 1968 ha partecipato con altri scrittori alla creazione di un’altra rivista letteraria, Mawāqif (“Posizioni”), da lui diretta fino al 1994. Chiamato a tenere alcune lezioni presso il Collège de France, dal 1985 si è stabilito a Parigi, dove ha ottenuto riconoscimenti ufficiali. In Italia gli è stato assegnato nel 1999 il Premio Nonino per la poesia.
OpereConsiderato uno degli iniziatori del verso libero (al-ši῾r al-ḥurr), A. ha contribuito a svincolare la poesia araba dagli schemi tradizionali, rifiutando tuttavia ogni tipo di semplificazione linguistica e strutturale. Oltre ai numerosi volumi di poesia (Aġānī Mihyār al-dimašqī, 1961, “I canti di Mihyar il damasceno”; al-A῾māl al-ši῾riyya al-kāmila, 1971, “Opera poetica completa”; Šahwa tataqaddam fī ẖarā‘iṭ al-mādda, 1987, trad. it. Desiderio che avanza nelle mappe della materia, 1997; al-Kitāb, 1995 e 1998, “Il libro”, prima parte di un’importante opera poetica; Siggil, 2000), A. ha pubblicato anche saggi critici sulla poesia (Muqaddima lī ‘l-ši῾r al-῾Arabī, 1971; trad. it. Introduzione alla poetica araba, 1992) e più in generale sulla cultura araba. Nella sua monumentale opera al-Ṯābit wa ‘l-mutaḥawwil: baḥṯ fī ‘l-ittibā‘ wa ‘l-ibdā῾ ῾inda al-῾Arab (3 voll., 1974-79, “La staticità e il movimento: uno studio sull’imitazione e l’innovazione nella cultura araba”), A. ha ripercorso le tappe della civiltà araba, dalla nascita del profeta Maometto ai giorni nostri. Tra le sue opere più recenti tradotte in lingua italiana occorre fare menzione a Sijjil (2000); Mūsīqā al-hūt al-azraq (2005, La musica della balena azzurra), al-Muhīt al-aswad (2006, L’oceano nero), Fi῾ufq Bairut (Beirut. La non-città, 2007).

La nuova raccolta di Adonis, fra i più influenti intellettuali del mondo arabo d’oggi, si apre con il mito del diluvio ed è una riflessione ispirata e visionaria sull’avvenire dell’uomo e sul concetto di migrazione e metamorfosi. Il poeta si manifesta attraverso quattro viaggi: in cima al monte Ararat, a Londra,tra Shanghai e Parigi, in America. In un mondo sempre più in balia di tiranni e fanatici, Adonis chiede all’umanità lo sforzo di resistere alle sirene della scienza e della tecnologia (pur non rifiutando la modernità), per ritornare all’armonia delle origini, a una società in cui gli assassini e i corrotti sono puniti e non premiati per le loro azioni. Fino a invocare l’alba di un nuovo diluvio. Ripartire, insomma, dalla memoria del passato per lanciare un ponte verso un futuro che, al momento, appare gravido di inquietanti misteri e interrogativi. Dove l’unico appiglio cui possiamo davvero aggrapparci, per sfuggire alla morte e alla vertigine cosmica, è rappresentato dalla Poesia.
Sotirios Pastakas

La poesia come ponte tra culture
A Baronissi, in provincia di Salerno, dal 1996 c’è una struttura che ospita e pubblica in Italia poeti di fama internazionale: è la Casa della poesia, legata alla Multimedia edizioni e definita da Erri De Luca “un tetto per un’arte vagabonda”. Grazie ai reading organizzati dai promotori di questa, Sergio Iagulli e Raffaella Marzano, incontriamo Sotirios Pastakas. Sotirios, considerato da alcuni critici il più grande poeta greco vivente, è un ex psichiatra che ha fatto i suoi studi tra Napoli e Roma e, oltre a essere uno scrittore molto apprezzato, è traduttore di autori nostrani.
Ha scritto che la Grecia è il solo paese in cui il tramonto, andando verso Capo Sunio, “può durare una vita intera”. Quanto è importante il legame con le sue radici per ciò che scrive?
Ho avuto la fortuna di trovare dei buoni maestri. Loro non lo sapevano e neppure predicavano, ma io li sentivo e li acclamavo come tali per mia scelta. Uno di loro mi ha detto, quando avevo vent’anni, che se volevo scrivere veramente dovevo tornare in Grecia appena finiti gli studi. Il poeta deve sentire la propria lingua intorno a sé ventiquattr’ore su ventiquattro, in tutte le sue deformazioni e nei vari registri, dal colto al rude e popolano. I giochi di parole nel mercato della frutta, nell’autobus, nella metro e così via. Dunque, ammettendo che le radici di un poeta sono le parole materne, sì: un poeta deve nuotare nella propria lingua per poter articolare un verbo.
La crisi ha influenzato molto la sua percezione degli ultimi anni?
Ho avvertito la crisi esistenziale e artistica prima della crisi economica, quindi ho potuto scrivere sulla crisi finanziaria già dal 2009, in anticipo su quella conclamata, e da profeta, per ricordarci una delle qualità che caratterizzano il vero poeta. Ma, indipendentemente della crisi del sistema bancario e delle fallimentari politiche dell’Unione Europea, l’artista, il poeta è un soggetto in crisi. Vive sempre in crisi. State lontano dagli artisti sicuri di sé che fanno la carriera artistica come dei funzionari bancari… ahimè!
Ha studiato medicina a Roma, inoltre traduce poesia italiana: è affezionato a questa terra, a questi autori?
Sono approdato a Napoli a inizio settembre del 1972, non ancora diciottenne, in piena dittatura dei colonnelli in Grecia, e mi sono formato sui testi dei poeti italiani. Tutta la mia sensibilità poetica e umana si è forgiata qui, a Napoli fino a fine 1973, e dal gennaio 1974 fino all’estate del 1982 a Roma, dove mi sono laureato in Medicina e Chirurgia. Dieci anni di fuoco, di partecipazione e di infinite letture. Da autore non sistematico scherzo spesso coi colleghi greci dichiarandomi “autore Italiano” (risate).
Per anni ha esercitato la professione di psichiatra: la scrittura può diventare anche, in un certo senso, terapeutica?
La scrittura ha questa funzione liberatoria di per sé, e sicuramente può anche guarire dai malanni d’amore: chi non ha scritto una poesia d’amore in gioventù scagli la prima pietra! Da maestro di scrittura creativa incoraggio gli allievi a scrivere e ammetto che molti di questi vengono per cercare una sorta di terapia di gruppo. Scrivere per curarsi da sé va benissimo, ma scrivere per curarsi e poi avere ambizioni letterarie è uno sbaglio enorme.
Quale dovrebbe essere, secondo lei, il ruolo della parola poetica?
La parola poetica dovrebbe trasformare l’idea che abbiamo del mondo. Darci una nuova prospettiva delle cose e dei rapporti quotidiani. Regalarci il risveglio etico, morale, sentimentale. Se dopo la lettura di una poesia rimaniamo noi stessi, vuol dire che non abbiamo incontrato la parola poetica, e vi invito ad adottare questo metodo per valutare le poesie che vi capitano sotto mano. Il verbo poetico fa scricchiolare non solo la superficie ma il nocciolo duro del nostro ego duttile alla corsa consumistica.
Tra le sue numerose raccolte di versi da quali si sente più rappresentato?
Le 100 poesie della Trilogia della fame, oppure Food Line, come l’ha nominata e voluta tradurre Jack Hirschman (Pasto per i poveri in italiano).
Come è entrato in contatto con Casa della poesia e quanto conta per lei questa collaborazione?
Gli amici in Grecia pensano che sia frutto della mia decennale permanenza da studente in Italia. Alcuni che mi conoscono meglio che la collaborazione è avvenuta grazie alla mia ex moglie italiana, pugliese. Nessuno può immaginarsi che ho avuto Jack Hirschman come ambasciatore. L’ho conosciuto nel 2003 a San Francisco e sono stato folgorato sin dal primo momento. Ho marinato subito l’APA, il congresso degli psichiatri statunitensi, e sono stato in sua compagnia giorno e notte, a mangiare cinese nella taverna dove mangiava Gregory Corso, e veniva buttato fuori a calci tre volte su due. Poi, anziché tornare in Grecia coi colleghi psichiatri, ho seguito Jack a Venice, Los Angeles, per una sua lettura di poesie, e mi ha invitato al dopo reading per una festa in casa di amici dove ho avuto l’unico deja vu e deja vecu della mia vita, a 49 anni. Tre anni dopo Jack mi ha proposto a Casa della Poesia come poeta per il Festival di Sarajevo 2006, e la proposta è stata accolta. Da allora è nata una fervida amicizia, uno scambio continuo di emozioni e di esperienze con letture pubbliche in tutto lo stivale, per approdare nel 2016 alla pubblicazione della mia antologia personale Corpo a corpo, e quest’anno alla silloge Monte Egaleo con i quadri pittorici di Marco Vecchio. Per me il dono fattomi da Jack e la fiducia reciproca con Casa della Poesia conta per l’interscambio continuo di idee, passioni e azioni di resistenza, l’unico modo di parlare e fare davvero Poesia (con la P maiuscola) in questo secolo di grafomani.
Domenico Carrara
Fonte: www.identitainsorgenti.com/poeti-moderni-intervista-con-sotirios-pastakas
Kahlil Gibran

Farò della mia anima uno scrigno
per la tua anima,
del mio cuore una dimora
per la tua bellezza,
del mio petto un sepolcro
per le tue pene.
Ti amerò come le praterie amano la primavera,
e vivrò in te la vita di un fiore
sotto i raggi del sole.
Canterò il tuo nome come la valle
canta l’eco delle campane;
ascolterò il linguaggio della tua anima
come la spiaggia ascolta
la storia delle onde.
* Kahlil Gibran (Gibran Khalil Gibran) dal libro “Le ali spezzate” di Kahlil Gibran (Gibran Khalil Gibran)Poesie d’Autore – da PensieriParole.it <https://www.pensieriparole.it/poesie/poesie-d-autore/>
La Libertà, da “Il Profeta”
E un oratore domandò: Parlaci della Libertà.
Ed egli rispose: Alle porte della città e accanto al focolare, io vi ho veduto prosternarvi e adorare la vostra libertà.
Anche gli schiavi si umiliano davanti al tiranno e lo lodano anche quando li ammazza.
Ahimè, nel boschetto del tempio e all’ombra della cittadella ho visto i più liberi tra voi indossare la loro libertà come un giogo ed un ceppo.
E il mio cuore sanguinava: perché non potrete essere liberi finché perfino il desiderio di cercare la libertà non vi sembri una briglia, e non avrete cessato di parlarne come di una meta e un compimento.
Sarete liberi, infatti, non quando i vostri giorni saranno privi di ansie e le notti senza un bisogno o una pena,
Ma quando queste cose vi stringeranno come una cintura e saprete innalzarvi al di sopra di esse nudi e sciolti.
Ma come potrete innalzarvi oltre i giorni e le notti se non rompendo le catene che all’alba della vostra comprensione avete stretto intorno allo zenit di essa?
In verità, ciò che chiamate libertà è la più resistente di tali catene, benché i suoi anelli brillino al sole e abbaglino i vostri occhi.
E che cosa volete eliminare per essere liberi se non brandelli di voi stessi?
Se è una legge ingiusta che volete abolire, l’avete scritta sulla fronte con le vostre mani.
Non la potete cancellare, né bruciando i vostri libri di diritto, né lavando le fronti dei giudici, anche versandovi su il mare.
E se è un despota che volete deporre, badate prima a distruggerne il trono eretto in voi.
Perché un tiranno come può governare uomini liberi e orgogliosi se non tiranneggiando la loro libertà e calpestando il loro orgoglio?
E se è una noia che volete scacciare, essa fu scelta da voi più che imposta dagli altri.
E se è un timore che volete fugare, la sua sede è nell’animo vostro, non nella mano di chi temete.
In verità, tutte le cose muovono dentro il vostro essere costantemente allacciate, quelle desiderate e le temute, le ripugnanti e le amate, le perseguite e quelle che vorreste evitare.
Esse muovono in voi come ombre e luci in stretto accoppiamento.
E quando l’ombra svanisce e non è più, la luce che indugia diventa un’ombra per un’altra luce.
Così la vostra libertà, appena perde le catene, diventa essa stessa la catena per una maggiore libertà.
Il Profeta di Gibran Khalil Gibran è un libro che offre senza dubbi profonde riflessioni.
È una raccolta di 26 “sermoni” relativi ai vari aspetti della vita quotidiana, questo testo è stato a ragione definito un “breviario per laici“.

ITACA Konstantinos Kavafis – Video a cura di COMEN

Grazia Dormiente
Inno al Mediterraneo
Azzurro Titano
dalle braccia spumose
grondanti mitiche risonanze
ridoni approdi
al Vascello del destino.
Fiume immenso
mèmore di prodigiose odissee
lungo lidi di sperdute frontiere
dissemini fiorite stagioni.
Antico veggente
ritessi miraggi e speranze
sentieri ammalianti delle tue onde
scintillio di gemme ai naviganti.
Compagno del vento
raccogli i sussurri e preghiere
e gioioso infrangi il silenzio
di obliati templi e castelli.
Saggio di millenni
oltre le sponde della memoria
disperdi dei popoli gli anni corsari
rinsecchiti di sale e di sangue.
Eco di canti divini
ripeti del cielo
la cosmica libertà.
(*) Grazia Dormiente, poetessa, studiosa appassionata di storia, arti e tradizioni popolari, dedicò questi versi a Francesco Venerando Mantegna in occasione del Meeting Internazionale Mediterraneo “l’Anno del Vascello”, a Kamarina (Rg) ottobre 1993), evento da lui organizzato e dal quale nacque l’Associazione internazionale COMEN-Conferenza Mediterranea. Ecco la dedica: “Al carissimo Francesco che sa interpretare nel profondo le voci mediterranee per l’augurale viaggio dell’Uomo, messaggero di Pace e di Civiltà, lungo le rotte della Storia e della Vita, dedico l’Inno al Mediterraneo, composto in occasione del Meeting Internazionale Mediterraneo. Con l’affetto di sempre e con la gratitudine dell’amicizia, quale autentico “porto” dell’affinità dell’Arte e dello Spirito.

Elio Vittorini
“Ci sono paure stupide e paure intelligenti?’ dicevo io. ‘Altro che!’ lui diceva. ‘Altro che! La gente si allea nelle paure. E tu vedi come i bravi e i giusti siano alleati in una paura intelligente… Come i perfidi siano alleati in una paura idiota! L’umanità è tutta divisa da patti e alleanze contro le paure.”

Per ricordare Gesualdo Bufalino
Il mio ricordo di Gesualdo Bufalino è particolarmente intenso, direi familiare, avendo abitato per lunghi anni nello stesso edificio di via Arch. Mancini a Comiso e condiviso tante riflessioni nelle lunghe passeggiate serali (allora erano una sana abitudine) nella Piazza Fonte Diana, assieme ad altri grandi amici come Ciccio Cassarino e Francesco Occhipinti. Custodisco gelosamente un suo appunto scritto con il quale mi raccomandò di leggere la bozza del suo primo splendido libro “Diceria dell’untore” (1981), premiato poi con il Campiello.
Da lì in poi la sua attività letteraria divenne frenetica, spaziando dalla poesia (“L’amaro miele”, 1982) alla prosa d’arte e di memoria (“Museo d’ombre”, 1982), dalla narrativa (“Argo il cieco”, 1984; “L’uomo invaso”, 1986; “Le menzogne della notte”, 1988, premio Strega) agli elzeviri e alla saggistica (“Cere perse”, 1985; “La luce e il lutto”, 1988; “Saldi d’autunno”, 1990), dagli aforismi (“Il malpensante”, 1987) alle antologie (“Dizionario dei personaggi di romanzo”, 1982; “Il matrimonio illustrato”, 1989, in collaborazione con la moglie). Gesualdo purtroppo ci ha lasciati ile il 14 giugno 1996, nella nostra Comiso, a causa di un drammatico incidente stradale. In tanti lo hanno definito a ragione come il secondo Verga, per la sua narrazione colta, arguta e profonda.
Francesco Venerando Mantegna
Gesualdo Bufalino
Improvviso d’amore
Losanghe di cieli, cieli di gesso,
vecchio terrore che indosso ogni giorno;
muraglie da cui sempre mi ritorna
questa mia strenua voce d’ossesso;
e libri, voi, paradisi dipinti,
reticolati d’assurdo quaderno,
trionfo e sbarre di carcere eterno,
fughe immobili e nero labirinto:
oh mescetevi, carte, firmamenti,
memorie; fate rissa entro di me,
e inventatemi un nome, un altro viso.
Ora che lei m’ha parlato alla mente,
lei nel suo scialle di sposa di re,
con gli stupori e i corrucci e le risa…

“L’UNIVERSALE SICILIANO” – INCONTRO CON PIETRANGELO BUTTAFUOCO
C’è un preciso luogo dove il mondo intero si dà appuntamento nei secoli ed è appunto la Sicilia dove non solo il Mediterraneo bensì le diverse forme di civiltà – dall’antichità fino all’epoca attuale – hanno avuto una versione siciliana. La letteratura del Novecento – con Pirandello, De Roberto, Verga e Tomasi di Lampedusa – rinuncia a qualunque forma di regionalismo per coincidere con quella universale. Nel passato, con Ibn Hamdis, nel fulgore dell’anno 1000, si scrive il più affascinante capitolo di letteratura italiana in lingua araba e così nella sua storia, la Sicilia, svela il mistero di un’idea universale attraverso la biografia dell’imperatore Federico II: un tedesco che per farsi saraceno si trasferisce in Sicilia. Un seme che Wolfgang Goethe farà proprio quando nel suo Viaggio in Italia – nella sosta a Palermo – troverà il senso profondo di tutto il mistero di Sicilia: quell’Islam europeo temperato dal calore mediterraneo.
Dall’annuncio dell’Istituto Italiano di Cultura di Montréal della Conferenza con Pietrangelo Buttafuoco, 23/1/2019
Salvatore Fiume, una sorgente d’Arte
Da ragazzino ho avuto la fortuna di frequentare Salvatore Fiume (Totò) nella nostra natìa Comiso, quando tornava da Milano per trascorrere qualche settimana tra parenti e amici, immancabilmente a Pasqua. La sua produzione artistica è enorme ed è stato riconosciuto tra i più grandi pittori e scenografi del Novecento. Sue opere si trovano in alcuni dei più importanti musei del mondo quali i Musei Vaticani, il Museo Ermitage di S.Pietroburgo, il MoMA di New York, il Museo Puškin di Mosca e la Galleria d’Arte Moderna di Milano. Dal 1978 i Musei Vaticani ospitano una sua collezione di 33 opere, che sintetizza gran parte dei principali temi della sua produzione. A Comiso, nella Basilica dell’Annunziata, ha lasciato due mirabili opere sulle pareti del coro.









Munir Mezyed

Possiede la poesia chiome di pini che amoreggiano con l’immaginario
Due stelle annegate nell’incantesimo in cui il sogno azzurro si denuda
Di fronte ai suoi desideri assetati d’eternità
Due ali di zaffiro rosate stanno arando i miei frutteti
Pendono dalla vite dei cieli due perle di latte solare
E un fiume di pesche tra due rami di fresche ciliegie
Hanno sete della neve che scalda
Perciò non smetto di farmi neve in questo incessante incantesimo
E immagino Habibti* come un poema con cui sfido tutti i poeti…
(* la mia amata)
Amore mio…
In un mattino umido dal buono odore dei tuoi respiri
Il miracolo consuma il vino dei miei dispiaceri
Così tutti i sogni spenti si sono svegliati dall’oblio
Infiammando la memoria dello spirito
Con il desiderio ardente che è tuo
Dall’ eterna scintilla d’amore!
Io oltrepasso le vie segrete del paradiso
Seminando perline luminose
Nei giardini delle parole sparite
Nutrendo il mio amore
Per te e per la nostra storia
©Munir Mezyed – (trad. Michele Caccamo)

Alda Merini
Le più belle poesie si scrivono sopra le pietre…

Angelica Artemisia Pedatella
Dall’opera “AMORE E GUERRA”
Incanto e innocenza
Incanto e innocenza, fiore delicato,
come giacinti e acanto intrecciati insieme
una corona di regina fanno
che poggia sul mio capo tutto il reame
della natura in fiore, schiera affastellata
di piante odorose, di diversi arbusti
anime di un mediterraneo mite che accoglie
tutta la ricchezza di paesaggi ed ombre.
Incanto e innocenza, due terre divise
da un mare amico e tese in un abbraccio;
Africa, innocenza che tende il capo in alto,
Europa, che d’incanto cinge
la sua testa di regina altera.
Incanto di una giovinezza ardita e sola
lungo una strada di sassi ed ortiche
e fichi d’india e cactus a seguitare
tra terre gemelle che s’uniscono al mare.
Innocenza di una pura estate
prima del tormento di nazioni,
di uomini in schiera divisi in razze,
arbusti e fiori d’una stessa natura
divisi per città, confini e umori.
Incanto e innocenza di pochi anni ancora
prima che spezzassero il mio fiore.
Non sono un cigno bianco nuotatore
che può piegare il capo ed ammirato
resta sulla cresta d’acqua chiara.
Il mio oceano è scuro e a macchie rosse,
e sono nero uccello sopra le onde
che la tempesta alza verso il cielo
ed io di terra in terra volo uguale,
cercando i segni dell’antica gemellanza
ma non ne trovo. Da nemici a nemici
parlano lingue che non conosco
ed io che parlavo solo d’amore
fui pedina in un gioco pericoloso
dove non ci son vinti né vincitori.
Incanto e innocenza, parole sonore
di terre che furono un solo reame
ed ora sorelle che serban rancore.
Mediterraneo incolto, senza più piante belle
dov’è la varietà tua di arbusti e fiori?
* Angelica Artemisia Pedatella, scrittrice, commediografa e attrice teatrale.
Isabella Mecarelli, Ricordi di viaggio in Mediterraneo

Una poesia di Fernanda Grana

Lidia Bellavia – Ero bambina e ridevo, ridevo sempre e non chiedevo perché “Nessuno ha mai conosciuto il dolore della mia allegria”……
Chi dice di volermi bene conosce quattro cose di me… Il dolore dietro al mio sorriso, l’amore dietro alla mia rabbia, le ragioni del mio silenzio… Da bimba poi, fanciulla, incominciai anche a capire che i dolori, le delusioni e la malinconia non sono fatti per renderci scontenti e toglierci valore e dignità, ma per maturarci…Io sono diventata “grande schivando la mia fanciullezza” e continuavo a ridere, saltare come un capriolo felice…Soltanto la sera “confessavo al mio cuscino i sogni che avrei voluto si realizzassero”, però, il cuscino restava li ad ascoltarmi senza rispondermi”….
Sono nata piccola e poi cresciuta, non come il dolore che nasce grande e poi diventa piccolo..Perchè il dolore non è “quello che dici”, “è quello che taci”…Credo che a legare gli esseri umani sembra sia il dolore, la delusione, la sconfitta che se accolta diventa una “vittoria che ti fa salire sul Podio”….Tornavo da un campo dove i fiori erano l’eterna primavera e colsi le margherite, umili e altere….Un bambino mi chiese che cosa fossero i prati….
Gli dissi che i prati “sono il luogo dove i fiori nascono e crescono senza colore”, poi, c’è il sole e il cielo a dare i colori dell’anima…..Sono stata sempre “la bambina dalle trecce rosse e il cielo dentro gli occhi” che sorrideva sempre e invitava gli altri al sorriso… Ero per tutti la “Calamity Jean” che amava “sparare con la Carabina di papà e colpire il dolore e la nostalgia”…. Sorridevo, però nessuno ha mai visto cosa c’era dietro quel sorriso….
L.B.

Lidia Bellavia – NON CEDERE MAI IL PASSO ALLA PAURA, ALTRIMENTI RUBERA’ TUTTI I TUOI SOGNI…….. PERO’ ANCHE UNA GUERRIERA E’ FRAGILE E QUALCHE VOLTA HA PAURA…..
La più antica e potente emozione umana è la paura e la paura più antica e potente, è la paura dell’ignoto….L’Ignoto vorrei vederlo in faccia per combattere ad armi pari, ma devo aspettare tanti domani….Ci sono due forze motrici fondamentali, la paura e l’amore…. Quando ho paura, mi ritraggo indietro e non vivo, allora mi sento piccola e indifesa, poi mi chiedo se sto vivendo….. Quando sono innamorata, mi apro a tutto ciò che la vita ha da offrirmi con passione, entusiasmo, e l’accettazione e quindi, dovrei accettarmi ….Qualche volta non vivo i miei sogni, perché sto vivendo le mie paure, mi chiedo se devo scegliere, altrimenti saranno le paure del giorno a rubarmi i sogni della notte e all’alba avrò dei rimpianti…. Ripeto a me stessa che non devo avere paura, perchè è la paura che può uccidere la mia mente, il mio coraggio, la mia forza e forse, anche la mia libertà……
La paura è la piccola morte che porta con se l’annullamento totale, allora, guarderò in faccia la mia paura, non le permetterò che mi calpesti e mi attraversi, che guerriera sarei se lo facessi? E quando sarà passata, aprirò il mio occhio interiore e ne scruterò il percorso, allora dirò, dove andrà la mia paura? Non ci sarà più nulla, un vuoto che rimbomba e ci sarò soltanto io , ma cosa avrò conquistato? Rimpiangerò quei sogni mai raggiunti e vissuti, tutti i miei progetti non realizzati, i fiori olezzanti schiantati dal gelo, il libro della mia vita mai scritto, i sogni non vissuti dispersi dall’alba, gli amori mai nati per paura di amare, si, perché ho anche paura di amare ancora…. Sono stata minacciata dalla sofferenza, dalla malattia e temevo per la mia vita, il mio corpo, pensavo al mio corpo condannato al declino e al disfacimento, ma senza il dolore e l’ansia come segnali di pericolo, ma ho visto che Dio Padre Mi Ha Provato duramente ma non Mi Ha Consegnata alla morte, che poteva scagliarsi contro di me con la sua terribile e formidabile forza, ma continuo a credere nella Forza Divina che ha vinto ogni male….
Ho pensato che sono come la barca che si dimentica di partire per la paura del mare, ma se non parto finirò per invecchiare e non avrò mai visto il mondo, non avrò scoperto cosa c’è dietro l’orizzonte e , non avrò mai sperato di vedere l’infinito……Allora mi sveglio dal torpore della paura e mi sento più forte, quella forza che da sempre vive in me, col coraggio spesso da incosciente, ma con la consapevolezza che una vera guerriera della vita ha il dovere di combattere per i propri sogni…
L.B.

“Amuri ri fimmina e amuri ri matri” di Nino Martoglio

STORIE DI STORIA – a cura della prof. Siriana Giannone Malavita
GIOVANNI GUGLIOTTA, LETTERA DI UN SOLDATO DISPERSO IN RUSSIA
Dei 240.000 soldati italiani mandati in Russia, 100.000 non fecero mai ritorno a casa. Di alcuni di loro conosciamo il luogo di sepoltura, ne conserviamo le mostrine. Di Giovanni Gugliotta e di tanti altri ragazzi, non sappiamo più nulla. Se ne sono andati così, nel silenzio dell’inferno bianco di Russia, tra lacrime di ghiaccio e sospiri fatti brina.

(Patrizia Stefanelli)