Religioni e conflitti

CRISTIANESIMO

Secondo l’insegnamento cristiano, in Gesù gli uomini diventano a loro volta “figli di Dio” ricevendo il battesimo “nel nome del Padre e del Figlio”.

Punto di partenza essenziale per la dottrina di tutte le chiese cristiane è il riferimento costante alla persona di Gesù Cristo, considerato unanimemente – pur nella diversità di accenti – il portatore di una fede nuova e rivelatrice per l’umanità intera. Il Gesù storico, tuttavia, essenzialmente rintracciabile nel Nuovo Testamento, la sezione propriamente cristiana della Bibbia, e in particolare nei Vangeli, in cui si troverebbero tramandati i tratti fondamentali della vita e della predicazione del Maestro, appare nella fede cristiana inscindibilmente associato alla realtà stessa di Dio.

La predilezione divina per l’umanità si sarebbe manifestata proprio nella persona di Cristo, che assunse una natura umana: “Figlio di Dio” si proclama il Gesù dei Vangeli, che a “Dio padre” fa costante riferimento. Questa intimità di un uomo con la potenza invisibile della divinità avrebbe ricevuto la sua solenne conferma nella resurrezione e nel ritorno al cielo del Maestro subito dopo la sua morte sulla croce, una morte attraverso la quale l’umanità intera avrebbe ricevuto prova dell’amore infinito di Dio e del suo disegno di riconciliazione e di salvezza. “Dio è amore” proclameranno i cristiani, dopo aver fatto della croce l’oggetto principale della loro devozione e il simbolo supremo di questo amore del Padre, l’Onnipotente, il Signore di tutte le cose del cielo e della terra. Egli, soltanto per manifestare il suo amore, avrebbe creato l’universo dal nulla ponendo come vertice e sigillo della sua azione creatrice l’umanità, destinata fin da principio alla salvezza e all’incontro diretto con il Padre nella persona di Cristo Gesù.

In Gesù gli uomini diventano a loro volta “figli di Dio” ricevendo il battesimo “nel nome del Padre e del Figlio” e, rispecchiando la formula dei simboli di fede, “dello Spirito Santo”, strumento della presenza eterna di Dio a fianco dell’umanità e dimensione che, pur dopo molte controversie iniziali, è stata associata nella professione di fede cristiana al Padre e al Figlio nella dottrina della Trinità. Se il battesimo, riservato originariamente agli adulti ma poi amministrato tradizionalmente agli infanti, costituisce fin dai primordi del cristianesimo la cerimonia di iniziazione alla fede, l’Eucaristia, o cena del Signore, è indubbiamente il rito principale, la cui istituzione risalirebbe a Gesù stesso sulla base delle parole “Questo è il mio corpo, questo è il mio sangue” attribuitegli dai Vangeli.

Proprio l’interpretazione di queste parole è tuttora motivo di divisione fra le confessioni cristiane: alcune di esse, come il cattolicesimo, sostengono la presenza reale del Cristo nelle specie del pane e del vino; altre, di matrice protestante, parlano generalmente di presenza simbolica. Parimenti non esiste una prospettiva univoca concernente il concetto fondamentale di “Chiesa” vocabolo di origine greca che designa l’assemblea di quanti si trovano uniti dalla fede comune in Gesù: se per la tradizione cattolica Cristo è il fondatore di una Chiesa basata sull’autorità dei successori degli apostoli, e quindi necessariamente legata a un principio gerarchico, il pensiero protestante tende idealmente a concepire la comunità come libera associazione dei credenti. Se, inoltre, alle rivendicazioni storiche della Chiesa cattolica, che si pone tradizionalmente come unica Chiesa legittima legata direttamente al fondatore, fa riscontro la tendenza di alcune comunità protestanti a proclamarsi unica Chiesa pura e autentica, la situazione contemporanea conosce in misura sempre maggiore l’abbandono di una tale prospettiva esclusivistica da parte di esponenti delle diverse confessioni, nell’ambito di un movimento più ampio il cui fine ultimo è la ricerca dell’unità fra tutti i cristiani.

Culto, etica, escatologia

Pur invitando i fedeli alla pratica della meditazione e della preghiera personale, ogni comunità cristiana si raduna periodicamente per celebrare il culto; la supplica comunitaria è la preghiera nota come Padre Nostro, attribuita dai Vangeli a Gesù; giorno dedicato al riposo e al culto è per i cristiani la domenica, che ha storicamente ereditato il ruolo assegnato dagli ebrei al Shabbat (il sabato). Incentrata fin dalle origini sul rito eucaristico e sulla lettura della parola di Dio, la liturgia cristiana ha assunto nei secoli forme sempre più complesse e tuttora visibili nel patrimonio rituale della Chiesa cattolica e di quelle ortodosse. Le Chiese protestanti hanno invece operato una semplificazione, nell’intento di ritornare all’essenzialità delle prime comunità. Fondamentale per la vita dei cristiani è l’impegno di carattere etico. Inoltre, la considerazione dell’amore di Dio per l’umanità trova compimento nel comandamento supremo dell’amore fra gli uomini; esso costituisce una prescrizione generale, che non determina comunque uniformità di comportamento fra tutti i cristiani, spesso schierati su posizioni diverse, dal conservatorismo estremo a inclinazioni decisamente progressiste. È comunque d’obbligo per tutti i fedeli l’ottemperanza a valori quali la sacralità assoluta della vita umana e il dovere di lottare per la giustizia e per un mondo migliore. A questo proposito il cristiano sa bene che la pratica dell’amore rappresenta un ideale difficile da realizzare e che la lotta per il bene deve scontrarsi con un’umanità comunque peccatrice e con un mondo che oscilla costantemente fra l’aspirazione al bene e la realtà del male; né mai è esistita nella storia umana una sorta di Età dell’Oro in cui la giustizia avrebbe trionfato. Le speranze dei cristiani sono tuttavia concentrate sulla vita eterna e sull’attesa del ritorno glorioso di Cristo, la parusia, che avrà luogo alla fine di questo mondo. Questa nozione, appartenente alla dottrina cristiana benché diversamente interpretata nei vari momenti storici, nacque con l’attesa spasmodica della fine imminente del mondo, che caratterizzò certamente il I secolo dell’era cristiana e condusse all’elaborazione di alcune dottrine. Tra queste spicca il millenarismo, spesso riemerso in alcune aree confessionali fino ai nostri giorni, nonostante il ridimensionamento costante, a livello di fede e di predicazione, della visione escatologica.

Le origini

Le informazioni in nostro possesso circa la vita e il messaggio di Gesù sono quelle contenute nei testi – in primo luogo i Vangeli – ma anche gli altri scritti del Nuovo Testamento, redatti dagli appartenenti alle prime comunità cristiane allo scopo di diffondere i contenuti della nuova religione. Proprio questo carattere dei documenti neotestamentari, concepiti in primo luogo come attestazione di fede in colui che si rivelò figlio di Dio per mezzo del prodigio straordinario della resurrezione, rende oltremodo difficile una ricostruzione precisa della vicenda storica del Cristo: gli episodi salienti di questa vicenda sarebbero stati riletti dalla comunità primitiva alla luce della fede stessa, per mezzo di procedimenti articolati e complessi che la moderna critica biblica si è sforzata di determinare. Sede della prima comunità cristiana fu, fino alla sua distruzione a opera dell’esercito romano nel 70 d.C., la città di Gerusalemme, dove i discepoli di Cristo costituivano apparentemente una delle correnti dell’ebraismo prima che i rapporti con la religione da cui lo stesso Cristo aveva preso le mosse si facessero oltremodo complessi: i cristiani, infatti, non esitarono a vedere nella vicenda del loro Maestro il compimento delle promesse che Dio aveva fatto al popolo ebraico per mezzo dei patriarchi Abramo, Isacco e Giacobbe, secondo quanto attestavano quei libri che costituivano la Bibbia ebraica e che saranno integralmente riconosciuti dalla nuova Chiesa come Antico Testamento.

La comunità cristiana, dunque, si considerò l’erede privilegiata della tradizione religiosa del popolo a cui apparteneva, identificandosi con quel “resto di Israele”, che non era la totalità del popolo ebraico, destinato a rimanere fedele alle promesse del suo Dio. E questa esclusione dal compimento delle antiche promesse si concretizzò nell’atteggiamento di quegli ebrei che non solo rifiutavano il messaggio del Cristo, ma avevano inoltre approvato, se non addirittura invocato, la sua condanna a morte. La disputa sulla persona di Gesù allontanò così sempre di più i cristiani dal resto del popolo ebraico, e il solco divenne incolmabile quando la comunità cristiana decise, soprattutto per impulso di Paolo di Tarso, di rivolgere la sua azione di proselitismo ai cosiddetti “gentili”, ovvero ai pagani; questi ultimi, non provenienti dalla radice dell’ebraismo, erano destinati a divenire la componente preponderante della Chiesa. A questo proposito non si può fare a meno di ricordare come l’avanzare del cristianesimo nel corso dei secoli condusse in qualche modo a concepire sempre più l’intero popolo ebraico come responsabile della morte del figlio di Dio e del rifiuto del suo messaggio, creando così quantomeno le premesse ideologiche per il fenomeno dell’antisemitismo.

San Paolo

Le già ricordate lettere di Paolo costituiscono anche il primo importante tentativo di tratteggiare un sistema teologico del cristianesimo e, insieme ad altri scritti, forniscono importanti notizie circa l’organizzazione delle prime comunità, che sembrano già amministrate da “presbiteri”, cioè gli anziani, sotto la supervisione di un vescovo. L’impegno a definire i contenuti fondamentali della fede divenne predominante nel II e III secolo, soprattutto a motivo delle controversie sorte in relazione alla persona del Cristo, la cui natura veniva definita da alcune correnti, poi dichiarate eretiche, come unicamente divina oppure unicamente umana: si giunse così ai primi concili ecumenici, fra cui quelli di Nicea nel 325 e di Calcedonia nel 451, che formularono ufficialmente la dottrina della Trinità e della doppia natura, insieme umana e divina, di Gesù, elaborando quello che per secoli sarà il linguaggio filosofico della teologia cristiana. Questo linguaggio ispirerà le opere, redatte in greco e in latino, di un grande pensatore come sant’Agostino.

Sant’Agostino

Per quanto riguarda invece i suoi rapporti con le autorità politiche, il cristianesimo, dapprima riconosciuto come setta ebraica nell’ambito dell’impero romano, incontrò ben presto (già prima della morte di Nerone nel 68 d.C.) l’ostilità degli imperatori. Essi erano particolarmente preoccupati del rifiuto da parte dei cristiani, adoratori di quello che consideravano loro unico Signore, del culto tributato alla figura imperiale stessa: si verificarono così periodi di persecuzione più o meno violenta e numerosi cristiani dovettero affrontare la morte pur di non rinnegare le loro convinzioni, andando a costituire la schiera, da sempre oggetto di venerazione della Chiesa, dei testimoni (in greco “martiri”) supremi della fede. Il fallimento sostanziale del tentativo, condotto in particolare da alcuni imperatori come Diocleziano, di sradicare il cristianesimo attraverso la persecuzione sistematica, portò di fatto a una sua diffusione ancor più massiccia, come già aveva visto lo scrittore nordafricano Tertulliano, autore della celebre definizione secondo la quale il sangue dei martiri sarebbe stato seme per la Chiesa: si arrivò così all’accettazione della nuova fede da parte delle autorità e alla promulgazione del decreto dell’imperatore Costantino. Nell’anno 313 il cristianesimo risultava ufficialmente una fra le religioni dell’impero romano, fatto che determinò una sempre maggiore contiguità al potere politico e preparò la strada al successivo editto dell’imperatore Teodosio, con il quale quella predicata dai cristiani divenne unica religione accettata dall’impero. Se la Chiesa ottenne in tal modo indubbi privilegi, divenendo effettivamente anche una forza politica, rimase vivo in molti fedeli il desiderio di un ritorno alla purezza della vita religiosa delle origini; questa propensione assunse indubbiamente un ruolo di rilievo nella diffusione della pratica del monachesimo, nata nel deserto egiziano, luogo in cui molti cristiani vissero l’esperienza di una vita isolata nella preghiera e nella mortificazione. La pratica dell’ascetismo monastico si diffuse nelle altre regioni orientali dell’impero romano, prima di approdare in Occidente: proprio i monaci saranno in Europa i principali protagonisti dell’evangelizzazione di numerosi popoli celtici e germanici e notevole sarà anche la loro attività di trasmissione della cultura antica.

Il cristianesimo orientale

Costantino

Fra le iniziative di Costantino non è certo da trascurare il trasferimento, nel 330, della capitale dell’impero da Roma a Bisanzio, da lui ribattezzata Costantinopoli: se il cristianesimo orientale si caratterizzò immediatamente per la tendenza a mantenersi indipendente dalla sede di Roma, alla quale le Chiese d’Occidente riconoscevano ormai più o meno ufficialmente una posizione di primato, appare evidente anche la sua propensione a sottomettersi al volere degli imperatori, secondo la logica che passerà alla storia come “cesaropapismo” e che trova la sua attestazione simbolica nella dedicazione, nel 538, della chiesa di Santa Sofia a Costantinopoli da parte dell’imperatore Giustiniano. Buona parte dei territori orientali dell’impero che avevano visto la diffusione del cristianesimo finirono, fra il VII e l’VIII secolo, sotto il dominio dell’Islam; Costantinopoli rimase l’ultimo baluardo della fede cristiana in Oriente fino al 1453, anno in cui cadde nelle mani dei turchi. L’evoluzione autonoma della Chiesa di Costantinopoli e il suo progressivo allontanamento dalla comunione con la sede romana ebbero come sbocco finale lo scisma del 1054, con la reciproca scomunica fra i delegati papali e il patriarca orientale e la nascita di quelle Chiese che si diffonderanno in Oriente con il nome di ortodosse; fallito ogni tentativo di riconciliazione, Costantinopoli venne addirittura saccheggiata nel 1204 da parte dell’esercito dei crociati, partiti dall’Europa apparentemente con l’intento di liberare i luoghi santi della Palestina dal dominio islamico. Motivo di controversia fra Roma e Costantinopoli fu anche la cristianizzazione dei popoli slavi, alcuni dei quali – polacchi, moravi, cechi, slovacchi, croati e sloveni – entrarono nell’orbita del cristianesimo occidentale e sono ancora oggi in maggioranza cattolici. I russi invece, fin dall’epoca della conversione al cristianesimo del principato di Kiev, ereditarono la visione culturale e religiosa di Costantinopoli, entrando a far parte della Chiesa ortodossa insieme ai popoli balcanici – serbi, bosniaci, macedoni, bulgari, rumeni e albanesi – e ai greci, anche se molti di essi, successivamente, si sono visti imporre l’islamismo in seguito alle invasioni dei turchi ottomani.

Con il trasferimento della capitale dell’impero romano a Costantinopoli, la figura del vescovo di Roma acquisì in misura sempre maggiore quel ruolo prestigioso attribuitogli in Europa occidentale, poiché era il capo della Chiesa che aveva conosciuto la predicazione di san Pietro e di san Paolo; questo privilegio sarebbe stato definito “primato” del papa, caposaldo della tradizione del cattolicesimo, e si sarebbe arricchito di connotazioni politiche dopo la caduta dell’impero romano d’Occidente, avvenuta nell’anno 476 sotto la spinta delle cosiddette “invasioni barbariche”: fu proprio l’attività missionaria che faceva capo alla sede romana a rendere possibile l’incontro dei popoli germanici con il cristianesimo, spesso a seguito della conversione di un sovrano, come nel caso del re dei franchi Clodoveo. Nell’anno 800 il papa Leone III poté incoronare Carlo Magno imperatore di un impero definito “romano” e “sacro”. La lingua latina divenne così il veicolo fondamentale della trasmissione del messaggio cristiano e nel contempo della cultura antica: tutti i popoli d’Europa entrarono nel corso dell’Alto Medioevo nella sfera di influenza della Chiesa di Roma, che intorno all’anno Mille aveva già elaborato la sua caratteristica struttura organizzativa, imperniata sulla figura dei vescovi e degli abati dei monasteri. L’edificio dell’impero cristiano, che si reggeva sull’equilibrio – codificato anche a livello dottrinale – fra il potere politico dell’imperatore e l’autorità spirituale del papa, corse il rischio di crollare con il sorgere, nel 1075, di una controversia, nota come lotta per le investiture, fra il papa Gregorio VII e l’imperatore Enrico IV: il sovrano, infatti, rivendicava il diritto, fino ad allora riservato al papa, di nominare, con la cerimonia dell’investitura appunto, i vescovi. Una tale presa di posizione diviene comprensibile se si pensa al ruolo che i dignitari ecclesiastici avevano assunto nell’ambito del sistema feudale, amministrando direttamente vaste proprietà terriere ed equiparandosi così alla nobiltà locale, sulla quale l’imperatore desiderava esercitare la sua autorità. Enrico IV finì comunque col sottomettersi, nel 1077, all’autorità del papa e il dissidio fu formalmente ricomposto, anche se sarebbe riaffiorato a più riprese nei decenni successivi, ad esempio in occasione della scomunica comminata dal papa Innocenzo III nel 1209 al re Giovanni d’Inghilterra per ottenere la sua sottomissione. Alla collaborazione fra papato e impero si deve anche il progetto di una spedizione militare volta a riconquistare al dominio cristiano i luoghi santi di Palestina caduti nelle mani dei musulmani: le crociate, intraprese a partire dal 1095, portarono anche alla fondazione di un regno latino di Gerusalemme, destinato tuttavia a crollare nel giro di un secolo e a costituire, insieme alla quarta crociata (1202-1204), uno dei momenti di un’impresa complessivamente fallimentare. I secoli del Basso Medioevo furono caratterizzati anche da un’eccezionale fioritura in campo speculativo e dall’elaborazione di sistemi teologici estremamente dotti e raffinati, che beneficiarono, a livello lessicale e concettuale, della disponibilità in Occidente, attraverso traduzioni latine eseguite su versioni arabe, delle opere di Aristotele: san Tommaso d’Aquino cercò così, attraverso un’opera poderosa, di rendere il percorso della ragione umana compatibile con i dati della rivelazione biblica in vista del fine ultimo del riconoscimento dell’esistenza di Dio; per capacità logiche e sintetiche si distinsero anche personalità quali Anselmo d’Aosta, Abelardo e Bonaventura. Le nuove potenzialità acquisite in campo teologico e dottrinale, tuttavia, non risparmiarono alla Chiesa cattolica un periodo veramente buio, culminato con il trasferimento della sede papale da Roma ad Avignone fra il 1309 e il 1377, a cui fece seguito il cosiddetto scisma d’Occidente, o Grande Scisma, l’epoca in cui la Chiesa conobbe, fino al 1417, la presenza di due – e talora anche tre – dignitari che rivendicavano contemporaneamente il diritto a essere riconosciuti come papi.

Riforma e Controriforma

Per quanto la Chiesa occidentale avesse conosciuto in diverse occasioni movimenti che si proponevano una riforma morale dell’istituzione ecclesiastica, nulla lasciava presagire l’esplodere del fenomeno che portò, nel XVI secolo, alla nascita delle Chiese protestanti separate dalla sede romana: la scomunica comminata da papa Leone X al monaco Martin Lutero convinse questo riformatore a costituire una comunità religiosa autonoma, che si organizzò sulla base di una visione teologica ed etica originale e poté diffondersi in Germania grazie al sostegno dei prìncipi locali, procedendo così di pari passo con l’emergere di un sentimento nazionale. Sulla strada di Lutero si incamminarono altri riformatori come Calvino e Zwingli, fondatori di Chiese che fioriranno fino ai nostri giorni, a differenza di altre comunità religiose sorte in quel periodo, come quella degli ugonotti francesi, che si videro prima riconoscere (con l’editto di Nantes del 1598) e poi revocare (nel 1685) i propri diritti, e quella degli anabattisti. La necessità di limitare la diffusione del protestantesimo, riconoscendo comunque alcune istanze riformatrici che pur continuavano a farsi sentire al suo interno, spinse la gerarchia cattolica a impegnarsi, con i lavori del concilio di Trento (1545-1563), nell’elaborazione di un piano di riorganizzazione a livello legislativo, liturgico e pastorale, che costituirà il motivo ispiratore dell’azione del cattolicesimo nell’epoca immediatamente successiva, caratterizzata dalla cosiddetta controriforma e dall’attività del nuovo ordine religioso dei gesuiti. In Inghilterra la controversia formale del re Enrico VIII con la sede romana costituì il momento culminante della lunga vicenda dei rapporti fra potere ecclesiastico e potere politico, ed ebbe come conseguenza la nascita dell’anglicanesimo, con una Chiesa che rimaneva idealmente cattolica nella sua visione teologica, pur nel distacco dalla comunione con il papa e nell’assorbimento, via via sempre più marcato, di alcuni elementi tipici del protestantesimo. Le istanze di rinnovamento, emerse ben presto anche all’interno della Chiesa di Inghilterra, trovarono espressione nel fenomeno del puritanesimo, i cui ideali di rigore etico ebbero numerosi sostenitori soprattutto in America, dove si fecero sentire anche le conseguenze dell’attività dei predicatori ispirati dal pietismo, un’altra delle correnti riformatrici sorte nell’ambito del protestantesimo europeo.

L’età moderna

In termini di estrema sintesi la storia del cristianesimo dal XVII secolo in poi può essere identificata con l’evoluzione dei rapporti delle diverse Chiese con quei movimenti concepiti inizialmente come alternativi alla stessa visione religiosa della vita: se la controversia con la scienza ebbe i suoi momenti significativi con la condanna di Galileo Galilei a opera dell’Inquisizione cattolica e con la resistenza, condotta soprattutto in ambito protestante, alla teoria dell’evoluzionismo, ritenuta incompatibile con la dottrina biblica della creazione, entrambe le confessioni, unite in un primo momento nella condanna della prospettiva razionalistica dell’illuminismo, dovettero accettare, seppure con tempi e atteggiamenti diversi, i risultati della critica biblica. Esse dovettero così rimettere in discussione con criteri scientifici il contenuto dei testi sacri e le origini stesse del cristianesimo. Le Chiese cristiane hanno dovuto pure affrontare in una nuova prospettiva il problema del rapporto con la dimensione politica, accettando in diversa misura il principio della separazione fra Chiesa e Stato e il riconoscimento dei diritti delle minoranze religiose presenti nei diversi paesi. Se il carattere anticristiano dell’ideologia marxista è stato ribadito con forza a più riprese dalle diverse confessioni, spesso perseguitate nei paesi dove hanno preso il potere i regimi comunisti, l’appello alla giustizia sociale è divenuto indubbiamente parte integrante dell’azione dei diversi gruppi cristiani, nonostante il dissidio, talora piuttosto netto, fra le posizioni estremamente conservatrici degli uni e le istanze progressiste degli altri. Fenomeno senza dubbio rilevante è lo sviluppo del movimento ecumenico, che ha avviato efficacemente il dialogo fra le diverse confessioni, ponendosi il fine ideale di raggiungere concretamente l’unità dei cristiani, secondo una prospettiva che anche la Chiesa cattolica, superando le iniziali tendenze esclusivistiche, ha fatto propria con il concilio Vaticano II, vero momento di svolta per il cattolicesimo contemporaneo. Un cenno merita sicuramente l’attività delle missioni che, condotte sia dai cattolici sia dai protestanti, hanno portato, fin dal XVI secolo, ma soprattutto negli ultimi due secoli, alla diffusione del cristianesimo in tutto il mondo.
(Emilio Mariani)


Ebraismo e Giudaismo

La fonte storica più attendibile sull’origine dell’ebraismo è la Bibbia stessa, la Bibbia intesa come raccolta di informazioni scritte e orali, nel tempo rivisitate, corrette, modificate, risalenti a 1000 anni prima di Cristo.

1. Ebraismo e Giudaismo
A parte le differenze semantiche, ebraismo e giudaismo sono due termini distinti. Con ebraismo si indica il patrimonio culturale e religioso del popolo ebraico dalle origini fino al VI secolo a.C. (l’epoca dell’esilio babilonese). Il termine giudaismo ha un significato molto più ampio in quanto abbraccia il periodo successivo al VI secolo fino ai giorni nostri. Ma c’è anche un giudaismo antico che va dal 200 a.C. al 100 d.C.. Molto si è discusso su questo periodo; una discussione storica e tra storici della religione ebraica e cristiana. S’è cercato, con tutta probabilità, una primizialità, un primato. La discussione è ancora aperta.

2. Origini dell’ebraismo
La fonte storica più attendibile sull’origine dell’ebraismo è la Bibbia stessa, la Bibbia intesa come raccolta di informazioni scritte e orali, nel tempo rivisitate, corrette, modificate, risalenti a 1000 anni prima di Cristo. Tutto questo materiale costituito da racconti epici, oracolari, formule di diritto pubblico e privato, arrivò a costituire, nell’arco di dieci secoli circa, una fede monoteistica in un Dio denominato Yahweh. E da questa enorme mole di informazioni è stato possibile evincere le origini dell’ebraismo. Il periodo che va dal 586 al 538 a.C., quello che precede e segue l’esilio babilonese del popolo ebraico, vide la composizione della Bibbia ebraica, la Torah, che rappresenta il nucleo storico dell’origine dell’ebraismo. Prima di questo periodo è possibile attingere a notizie sull’origine della religione ebraica, sempre contenute nella Bibbia, che arrivano sino alla creazione del mondo. L’autore è anonimo e non potrebbe essere altrimenti, vista la vastità della confluenza di apporti di vario genere al testo biblico. Ma il sistema cronologico dell’opera, che va dal giorno della creazione fino al 561 a.C. circa, è talmente ben scandito che consente una ricostruzione storica abbastanza precisa degli avvenimenti e il loro concatenarsi.

3. 1000 a.C., nasce Israele; Regno e fondamento delle religioni ebraica, cristiana e islamica
E’ questa la data che viene generalmente fissata dagli storici per la nascita dello stato di Israele, la conquista della Terra Santa e le successive vicende del Regno di Israele e del Regno di Giuda. La fonte storica d’Israele è comunque la Bibbia Ebraica, il libro Sacro fondamentale per le grandi religioni monoteistiche (ebraismo, cristianesimo, islamismo).

Oralità e scrittura dell’Ebraismo
Gli ebrei sono spesso identificati come il “popolo del libro”. In realtà una definizione del genere è imprecisa rispetto alla formulazione interna all’ebraismo e alla sua realtà storico culturale: La prevalenza della scrittura sulla oralità è tutta da determinare, anche in termini cronologici; esemplificativo da questo punto di vista è la parola ebraica che indica la Bibbia: Miqra’, lettura. Di fronte al greco, libro per eccellenza, l’ebraico privilegia l’azione della lettura che parte dal libro ma per molto versi lo trascende. La dinamica tra scritto e orale, il rapporto che si instaura tra queste due componenti, non solo è semplicemente una questione terminologica: è il nucleo teorico della riflessione dell’ebraismo rabbinico, cioè dell’ebraismo come si è venuto consolidando dalla distruzione del Santuario, nel 70 d.C. in avanti. Questo significa, in sostanza, che per intendere la vera identità e l’autodefinizione di ebraismo è necessario a priori chiarire il senso della oralità di fronte alla scrittura in una prospettiva teorico-teologica. La questione non è quella di definire quando avvenga il passaggio dalla oralità alla scrittura o alla collocazione sociale di queste due modalità, ma quella di intendere il carattere fondante della dimensione orale nell’ebraismo. All’interno di questa problematica ha ruolo centrale la tradizione interpretativa e di commento, con i suoi criteri specifici: è attraverso le regole ermeneutiche che la cultura rabbinica passa dal significato letterale del testo, il peshat, ai sensi ulteriori espressione della tradizione orale, il derash. Quest’ultimo, l’interpretazione-ricerca da cui nasce sia il midrash halakhah – finalizzato alla definizione di una norma – che il midrash ‘aggadah etico, filosofico e concettuale – è dunque la pietra angolare della tradizione rabbinica. Il termine su cui ruota la riflessione dottrinaria ebraica è Torah. L’ambito semantico è duplice: in termini ristretti Torah è il Pentateuco, i primi cinque libri della Bibbia che la tradizione attribuisce a Mosè: In una dimensione più ampia il senso si ricollega ai molteplici significati della radice di questo sostantivo: da una parte l’insegnare, dall’altra quello di porre le fondamenta, di lanciare verso un bersaglio, di pioggia vivificante e, omofonicamente, di concepire una nuova vita. In questa ottica Torah non è solamente il Pentateuco ma l’insieme della dottrina, sia scritta che orale, base di sviluppo, indicazione del comportamento, insegnamento vitale e prospettiva di una nuova esistenza. E’ il progetto del mondo, preesistente ad esso consultando il quale Dio ha creato la realtà. E’ l’oggetto specifico e fondamentale della rivelazione, data una volta per sempre e continuamente rinnovata nella collaborazione tra l’uomo e Dio. La Torah è concepita come un corpo unico, composto fondamentalmente di due parti: la Torah scritta (Torah she bikhtav) e la Torash orale (Torah she be al peh). La prima non è comprensibile senza il ricorso alla seconda: solamente dalla loro intima connessione può scaturirne il vero senso. La Torah scritta rappresenta una sorta di appunto, di sintetica epifania di quella orale, e necessita quindi della integrazione di quest’ultima per poter rivelare i suoi contenuti. La Torah orale, diventa in questo modo il vero fondamento di tutta la dottrina ebraica, l’elemento teorico-teologico distintivo e la condizione stessa del patto con il popolo ebraico: è la continuazione della rivelazione. Misconoscerne il ruolo centrale viene considerato dai Maestri alla stregua della negazione dell’origine divina della rivelazione. Senza l’intervento della Torah orale non è pensabile poter mettere in pratica L’insegnamento della Torah scritta: è dunque impossibile, secondo i Maestre di Israele parlare di una precedenza cronologica della legge scritta rispetto e quella orale. Nella sua totalità di sapienza divina la Torah è concepita come un unico inscindibile, le cui parti sono presenti ad origine nella mente di Dio. E’ per questo, anche, che tra le “Massime dei Maestri”, un testo rabbinico del III° secolo, si trova il seguente insegnamento

Ben Bag Bag diceva: “Girala e rigirala (la Tohaf) perché Tutto è in essa; contemplala, invecchia e consumati in essa“.

(Benedetto Carucci Viterbi)

Studi e ricerche sulle origini delle religioni mediterranee
Religione di Amarna e Monoteismo d’Israele: unico credo ?
Jahvé e Aton uno stesso dio

Molti elementi hanno fatto ritenere ad alcuni studiosi possibile un collegamento tra queste due religioni monoteiste pressoché contemporanee. Addirittura qualcuno ha azzardato anche la possibilità che l’una fosse derivazione dell’altra o viceversa. La problematica oggetto della presente ricerca non è nuova. Sin dai secoli scorsi si è a conoscenza di una vecchia credenza, ristretta a pochi per la verità, secondo la quale gli ebrei tutti, o il solo Mosè, avevano appreso la loro religione dall’antico Egitto. Lo stesso Giordano Bruno propugnò un ritorno alle credenze egizie unica radices di tutte le religioni. Queste eresie, è noto (concezione di Dio staccata dalle religioni, invenzioni degli uomini create per le masse incolte, il dio nascosto degli ermetici in contrapposizione al demiurgo dei cristiani e degli ebrei) gli costarono nel 1600 la vita sul rogo. (1)

Naturalmente si era al livello di credenze e basta non suffragate da alcun riscontro storico certo. Peraltro appariva, agli occhi degli studiosi del passato inconciliabile il credo monoteista degli ebrei con la religione politeista dell’Egitto. Le cose si complicarono all’indomani della scoperta e degli scavi condotti da Flinders Petrie negli anni ottanta del XIX secolo. Le scoperte archeologiche effettuate nel sito di Tell el-Amarna portarono alla luce il credo monoteista di Akhenaton. Naturale conseguenza fu la riscoperta di quelle vecchie credenze e cioè la possibilità che la religione d’Israele potesse essere, tenuto conto del periodo storico abbastanza vicino, una derivazione della religione monoteista di Amarna. Notevole fu a quell’epoca, e non solo tra gli studiosi, l’entusiasmo per la figura di Akhenaton possibile primo anello della millenaria storia delle tre grandi religioni monoteiste. Petrie sostenne che il monoteismo amarniano era una derivazione di credi hurriti importati in terra d’Egitto dalla madre di Akhenaton e probabilmente dalla moglie di questi anch’essa hurrita e cioè la regina Nefertiti ( 2 ). Analogo orientamento fu espresso da altri autorevoli studiosi, primo fra tutti il grande egittologo Weigall ( 3 ).

Un’altra corrente che si sviluppò agli inizi di questo secolo ritenne possibile l’ipotesi opposta e cioè la derivazione della religione ebraica da quella amarniana. Ciò era giustificabile dal fatto che anche questa corrente, riteneva probabile un’origine ariana del faraone del sole od almeno della consorte e della propria madre. La mentalità diversa, opposta ad una visione della vita del tutto statica che da millenni permeava il popolo egizio, fu l’elemento scatenante secondo costoro che portò all’invenzione di un credo del tutto diverso da quelli precedenti ( 4 ). Gli orientamenti espressi dalle correnti di inizio secolo furono dettati da una parte dall’entusiamo vero e proprio venutosi a creare all’indomani della scoperta di Amarna ed dall’altra e sopratutto da preconcetti moralismi od addirittura impalpabili spinte di razzismo. Condivido pienamente quanto sostene il Bernal nell’opera citata e cioè il fatto che una buona parte della società di allora non poteva accettare una matrice camitica o semitica quale primo motore del credo ebraico e soprattutto del cristianesimo, si rendeva pertanto necessaria una giustificazione al riguardo. Taluni studiosi arrivarono persino ad azzardare la possibilità che il credo cristiano non avesse una matrice giudaica perché si collegava direttamente con la fede di Akhenaton quindi, per quanto in precedenza detto, una fede hurrita, ergo ariana ( 5 ).

Da quanto detto emerge chiaramente il fatto che per almeno un cinquantennio e cioè sin dagli anni 70-80 del secolo scorso gli studi nel merito furono più o meno fortemente condizionati da certi pregiudizi che peraltro, cosa più importante, non furono mai confortati da elementi storici certi basati sulla ricerca storico-scientifica. Pertanto le ricerche anteriori agli anni venti e le conseguenti teorie risultano di scarso valore ai fini del presente studio. In epoca successiva l’americana Nora Griffith, in una ricerca condotta nel 1923, sostenne che la regina Tiye madre di Akhenaton e moglie principale di Amenophi III fu la vera ispiratrice della religione amarniana. Questa studiosa ritenne che Tiye di origine ittita, dopo essere andata in sposa al sovrano d’Egitto, introdusse presso la corte usanze e costumi che si basavano sul culto ittita del sole ( 6 ). Ipotesi questa scarsamente attendibile anzitutto perché la regina Tiye pare accertato era di origine cananea, quindi semita e non indo-europea come era il popolo ittita e poi e sopratutto perché il culto solare presso gli ittiti rientrava nel conserto di una moltitudine di divinità e dove per conseguenza il concetto di monoteismo era del tutto sconosciuto. Oltretutto, come acutamente osserva il Lehmann (cfr. cit.op.) non si comprende il perché gli egizi andassero a prendere in prestito queste divinità solari da estranei tenendo presente che gli stessi, come si è visto, da epoca immemorabile avevano di già il culto solare a casa propria. Un altro autore che si interessò nel periodo anteriore all’ultimo conflitto mondiale in modo abbastanza approfondito a questa problematica fu direi un non addetto ai lavori, addirittura il padre della psicoanalisi Sigmund Freud. In un’opera pubblicata in inglese a New York nel 1939 e per quanto mi risulta l’unica di contenuto non medico del maestro viennese Moses and Monotheism ( 7 ), il Freud sostiene che la religione d’Israele altro non è che la derivazione della religione amarniana ed a sostegno di tale ipotesi cita l’usanza delle popolazioni camitiche (quindi anche egizie) della circoncisione che a quell’epoca era del tutto sconosciuta alle popolazioni semite.

Egli sostiene che fu Mosè, personaggio certamente egizio, ad introdurre tale usanza tra le popolazioni d’Israele. Non mi soffermerò ulteriormente su quest’opera del maestro viennese perché, a mio avviso, anch’essa risulta oramai superata e dalle scoperte archeologiche intervenute negli ultimi sessanta anni ed anche dall’orientamento degli studi recenti in tema di collocazione storica dei vari elementi afferenti a quel tempo. In epoca recente l’americano Ben Lyon in un lavoro edito nel 1987 Moses sostiene che il regno d’Israele fu fondato dal padre di Akhenaton e cioè Amenophi III per il tramite di un suo generale un certo Mermose, che egli identifica in Mosè. Questa ricerca, al pari delle altre accennate in precedenza, risulta non convincente in quanto si basa fondamentalmente sul presupposto di contemporaneità dell’evento storico dell’esodo con il periodo amarniano ( 8 ). Gli studiosi sono abbastanza concordi nell’indicare presumibile l’esodo verso la terra promessa durante il periodo ramesside. Vi è pertanto un salto storico in avanti valutabile dai cento ai trecento anni. Abbastanza convincenti appaiono per l’inverso le argomentazioni addotte da due autori che, per quanto dirò nel prosieguo, si basano su elementi storici calzanti. Trattasi dell’americano Robert Silverberg e del tedesco Philipp Vandenberg. Il primo, anch’egli uno dei massimi studiosi del periodo amarniano, in un lavoro edito a Filadelfia e New York nel 1964 dalla Chilton Book “Ekhnaton, the Rebel Pharaoh” ritiene che la religione d’Israele sia una derivazione di quella amarniana. Philipp Vandenberg, noto pubblicista tedesco autore di diverse opere di storia antica alcune tradotte anche in italiano, ritiene per l’inverso possibile che la religione amarniana sia derivazione di quella d’Israele ( 9 ).
Le due ipotesi risultano praticamente contrapposte ma entrambe conducono, sulla base questa volta di elementi storico-scientifici abbastanza attendibili, alla conclusione di una matrice comune. La prima ipotesi e cioè la derivazione della religione ebraica da quella amarniana si basa su di una serie di elementi che ora passerò ad analizzare. Intorno al duemila-duemilacinquecento avanti Cristo inizia quel lento processo di desertificazione, tuttora in atto, delle regioni comprese tra l’Eufrate ed il mar Mediterraneo (Asia anteriore). Queste zone, all’epoca erano abitate da popolazioni di lingua semita in prevalenza nomadi dedite alla pastorizia ed organizzate sotto forma tribale. A seguito di questo processo di impoverimento del terreno queste tribù iniziarono lentamente ad emigrare alla ricerca di condizioni di vita migliori per il pascolo. Il flusso emigratorio si diresse essenzialmente verso le ali della cosidetta mezzaluna fertile ( 10 ). Si venne così a generare una duplice direttrice, a sudest verso l’alluvio mesopotamico (la regione compresa tra il Tigri e l’Eufrate) e l’altra ad ovest verso le fertili terre lungo il Nilo. E’ appena il caso di accennare che la prima direttrice fu fortemente avversata dalle popolazioni autoctone mesopotamiche. Queste popolazioni avevano un elevato grado di civiltà, la terra di Akkad e dei popoli del mare (sumeri) e mal tolleravano l’afflusso di gente nomade, semibarbara dedita a pasteggiare carne cruda ( 11 ).

Il secondo flusso emigratorio, come accennato in precedenza, si diresse verso l’Egitto. Questa direttrice, al contrario della prima, fu agevolata od addirittura favorita dai sovrani egizi i quali ben vedevano l’afflusso di mano d’opera indispensabile per la costruzione delle grandi opere dell’antico Egitto. Queste popolazioni vissero in assoluta libertà per diversi secoli. Ciò è attestato dalle recenti scoperte archeologiche che hanno rilevato condizioni di vita di queste tribù abbastanza soddisfacenti. Certamente esse non avevano uno status sociale paritario alle popolazioni camitiche però di certo non erano in condizione di schiavitù. E’ stato accertato, sulla base dei reperti portati alla luce, che durante il periodo della diciottesima dinastia gli unici schiavi furono i nubiani ed i siriani e per giunta solo quelli catturati in operazioni belliche. Lentamente nel corso dei secoli diverse tribù dovettero cambiare sistemi di vita diventando popolazioni sedentarie dedite in prevalenza al commercio ed all’artigianato od anche ai cantieri delle grandi opere ( 12 ). Alcuni personaggi pare abbiano raggiunto anche dei posti di un certo rilievo nell’ambito dello stato. Le stesse sacre scritture parlano di Giuseppe che divenne ministro del faraone (non si sa se trattasi di personaggio storico, alcuni sostengono di si e lo collocano nel regno medio – periodo Hyksos – intorno al diciottesimo secolo). Per inciso si ritiene opportuno segnalare che alcuni autori limitano il periodo di libertà goduto dai popoli della sabbia al solo periodo del dominio Hyksos, circa quattrocento anni (dal XX al XVI secolo). Essi partono dal presupposto che gli Hyksos erano popoli di stirpe semita e pertanto, in virtù di ciò, assecondarono notevolmente i cugini immigrati in terra d’Egitto ( 13 ).

Questa tesi appare improponibile per due motivi: gli studiosi sono in prevalenza più concordi nel ritenere il popolo Hyksos di lingua indo-europea proveniente dal mare (probabilmente al pari dei filistei stanziatisi in Palestina nella regione di Gaza) forse da Creta o dalla Grecia (gli Joni citati dai persiani?); in seconda analisi dal XVI secolo, fine del dominio Hyksos, all’epoca ramesside vi è un salto di circa tre secoli (la XVIII dinastia) durante il quale le popolazioni semite stanziate in Egitto continuarono a godere di uno status di indiscutibile libertà. Tra le tribù rimaste fedeli al nomadismo pare, durante la diciottesima dinastia, ci fossero proprio quelle d’Israele. Ciò sarebbe attestato dall’appellativo dato dai tutmosidi a queste tribù di Khabiri che significherebbe errabondi, vagabondi ( 14 ). Questo appellativo, secondo alcuni autori, non aveva però valore dispregiativo, bensì aveva il significato di gente diversa perché dedita al nomadismo, fatto insolito per l’Egitto di quell’epoca dove le popolazioni autoctone erano in genere di tipo stanziale. Ad ulteriore conferma del fatto che le tribù d’Israele fino all’avvento della XIX dinastia, o poco prima, non si trovarono in condizione di schiavitù ci vengono in aiuto le stesse Sacre Scritture. La Bibbia afferma infatti che gli ebrei vissero nella fertile valle del Gessen, nella quale erano stati ospitati durante la carestia e dove poi si erano stabiliti in pianta stabile. Inoltre vi si narra come, durante le lunghe marce dell’esodo, gli ebrei rimpiangessero sovente i buoni e ricchi cibi che offriva loro un tempo questa terra egiziana. All’indomani dei fatti Amarna le tribù di Israele, solo e soltanto loro, furono ferocemente perseguitate e rese in schiavitù sopratutto in epoca ramesside. Pare accertato quanto asserito nelle Sacre Scritture e cioè che le città di Pitom o Fitom e Ramses (le attuali Tell el-Rataba e San el-Hagar – il termine egizio è Pi-Ramses-Mery-Amun) furono edificate, in condizione di schiavitù, dal popolo d’Israele sotto il regno di Ramsete II. Alcune iscrizioni rinvenute parlano dei viandanti della sabbia che trasportano enormi pietre per costruire le fortezze di queste città con palese riferimento agli schiavi ebrei. Questa sudditanza ebbe poi termine con l’affrancatura che realizzò Mosè con l’esodo (in prevalenza gli studiosi lo ritengono personaggio storico ed alcuni di probabile origine camitica, il Moses o Mosi ricorrente nei nomi egizi). Secondo questa ipotesi il popolo d’Israele fu schiavizzato perché fu l’unico vero seguace del monoteismo amarniano e pertanto professante una religione eretica. Le sacre scritture di epoca certamente successive ai fatti di Amarna furono naturalmente plasmate ad uso di quel popolo ( 15 ).

In conclusione gli elementi condotti a sostegno di tale teoria si basano su tre fattori di primaria importanza: a)libertà delle popolazioni di lingua semita immigrate in Egitto per secoli e secoli prima dei fatti di Amarna; b) subito dopo il periodo atoniano, messa in schiavitù delle sole tribù d’Israele; c) palese derivazione di alcuni passi delle sacre scritture dall’inno ad Aton. Appare abbastanza verosimile che l’elemento religioso (concetto del monoteismo assolutamente contrastante con il credo amoniano) sia stato l’elemento scatenante che ha determinato i fatti storici testé citati. L’altra ipotesi citata in premessa e cioè la possibile derivazione della religione di Amarna da quella israelita non è eccessivamente difforme, almeno nella sua impostazione, da quella della Griffith della quale si è fatto cenno in precedenza, la variante consiste nel ruolo primario assunto dalla regina Nefert-iti. Nel caso in esame le argomentazioni addotte a sostegno, come vedremo, risultano certamente di maggior spessore rispetto alle ricerche della studiosa americana. Il credo monoteista fu introdotto, secondo questa tesi, da Nefert-iti regina consorte principale di Amenophi IV, di probabile origine orientale. Questa sovrana che taluni studiosi, tra cui il Vandenberg, identificano nella principessa hurrita Taduchippa, dovette attingere il credo monoteista dalle tribù d’Israele nel suo paese d’origine inculcandolo dapprima al re Amenophi III e poi al figlio Amenophi IV ( 16 ). Questa sovrana, in base al contenuto di alcune lettere di Amarna ( 17 ), come detto verrebbe identificata nella principessa Taduchippa figlia del re Tushratta sovrano del Mitanni (la zona dell’attuale Kurdistan irakeno), popolazione hurrita di lingua indo-iranica e pertanto abbastanza simile alla ittita che era di lingua indo-europea ( 18 ).

Taduchippa andò in sposa di rango secondario al re Amenophi III quando questi era di già ammalato e vecchio. E’ appena il caso di accennare che la consorte principale di questo sovrano era Tiye di origine cananea madre del faraone del sole ( 19 ). Alla morte del sovrano Nefert-iti andò sposa, questa volta di rango primario, ad Amenophi IV. Qualche autore ritiene che quando la giovane principessa ancora non si era mossa dalla corte di Washshukanni (la capitale del Mitanni), o tuttalpiù agli inizi del viaggio, il vecchio sovrano era già morto. Giunta a destinazione andò pertanto direttamente in sposa ad Amenophi IV. Questa circostanza comunque appare alquanto incerta per tutta una serie di considerazioni prime fra tutte il fatto che parrebbe estremamente più verosimile un rientro in patria all’indomani dell’apprendimento della morte del futuro sposo. Il Vandenberg sostiene, per tutta una serie di argomentazioni che ora passerò ad esaminare, che la regina Nefert-iti fu il vero primo motore della rivoluzione amarniana. Questa donna oltre ad essere bella era anche dotata di straordinarie capacità, molto intelligente e dal carattere forte e volitivo (20). Ella inculcò la religione monoteista, appresa nel suo paese d’origine da possibili contatti con le tribù nomadi d’Israele, dapprima al vecchio sovrano Amenophi III e poi ad Amenophi IV uomo che egli ritiene debole e quasi certamente affetto anche da diverse sindromi (21). Le prove starebbero in due elementi: anzitutto il fatto che il primo a parlare di monoteismo solare fu il padre di Akhenaton proprio negli ultimi periodi di vita che potrebbero andare a coincidere con il matrimonio con questa giovane principessa hurrita. Il disco solare Aton, unico dio dell’universo, fu infatti proclamato da questo sovrano. Akhenaton non fece altro che renderlo, nel sesto anno del suo regno, unica religione di stato. L’altro elemento di gran lunga più importante, si basa sulle recenti scoperte archeologiche dove l’informatica ha assunto un’importanza direi determinante.

Vediamone il perché. Intorno agli anni venti l’archeologo francese Henry Chevrier rinvenne a Karnak, in depositi abbandonati da millenni, un’infinità di pietre, residui di costruzioni dalla forma di parallelopipede dalle dimensioni di cm.30×60 circa. Su una delle facce si notavano dei rilievi, dei disegni che egli non poté decodificare perché le pietre erano tutte ammassate in disordine. Egli sostenne che dovevasi trattare del tempio dedicato ad Aton fatto edificare da Amenophi IV nei primi anni del suo regno prima che fosse trasferita la capitale ad Aketaton. Per decenni non se ne fece più nulla in quanto la tecnica di allora non era in grado di scoprire cosa rappresentassero quei rilievi e disegni. Agli inizi degli anni sessanta le ricerche furono riprese da due americani un certo Ray Winfield Smith ex diplomatico di Filadelfia e William Stevenson Smith famoso egittologo di Boston. Con un lavoro paziente durato anni e per quanto mi risulta non completamente ultimato tutte queste pietre furono numerate, catalogate e con l’ausilio dell’informatica (agli inizi per mezzo di un computer IBM fornito dal centro studi statistici del Cairo e sotto la direzione tecnica di alcuni ingegneri elettronici americani) gran quantità di questo materiale è stata decodificata. I lavori, durati anni, furono nel prosieguo diretti dal grande archeologo americano Donald Redford. Tutta l’operazione fu patrocinata dalla National Geographic di Washington gelosa titolare dei diritti d’immagine che, per quanto mi risulta, non ha mai, tranne qualche sporadica immagine apparsa sulla rivista da lei edita, pubblicizzato od almeno divulgato in senso ampio. In una pubblicazione resa dal Redford Studies on Akhenaton at Thebes per conto dell’università di Pennsylvania vengono descritti i resoconti di tali ricerche (22).

Il Redford conferma che trattasi del tempio dedicato ad Aton, un edificio probabilmente il più grande mai costruito nella storia, parla di un lato di ben milleseicento metri. Questa costruzione fu demolita completamente ad opera dei sacerdoti restauratori del culto politeista, una parte del materiale fu impiegato nella costruzione di diversi templi e palazzi della zona di Karnak ed il resto del materiale restò sepolto per millenni. La decodifica delle immagini ha dato queste risposte: la regina Nefert-iti appare ritratta un numero di volte sensibilmente superiore rispetto al proprio consorte, circostanza di per se stessa di già abbastanza singolare. Per di giunta le immagini della sovrana risultano essere per grandezza eguali a quelle del sovrano. Fatto questo del tutto insolito in quanto a quel tempo la rappresentazione dell’immagine risulta proporzionale all’importanza del personaggio, il sovrano era sempre la figura più grande. La regina appare altresì sovente in posizione di movimento, rappresentazione direi abbastanza rivoluzionaria per quei tempi. Nell’iconografia dell’antico Egitto la donna era sempre rappresentata in posizione di fermo con le gambe unite al contrario dell’uomo che era, tranne i prigionieri e gli schiavi, sempre rappresentato in posizione di movimento perché ciò denotava il senso del possesso, del dominio. In una immagine la regina appare da sola sul cocchio regale, immagine questa direi unica nel suo genere. Sul cocchio regale poteva salire soltanto il re o tuttalpiù assieme alla consorte principale ed ai figli di quest’ultima, ma dietro il sovrano e con dimensioni della figura, come detto in precedenza, più piccole. Infine la circostanza più importante sta nel fatto che la regina è rappresentata oltre sessanta volte con in capo il disco solare di Aton ed inneggiante a questa religione. Tutti questi elementi messi insieme fanno ritenere al Vandenberg sufficientemente valida l’ipotesi della forte personalità, addirittura del comando che questa regina ebbe durante il periodo amarniano e proverebbero la conferma che ella fu il vero primo motore di questa rivoluzione che abbracciò un pò tutti i campi e pertanto e sopratutto quello religioso.

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Note
1 – cfr. Martin Bernal Black Athena. The Afroasiatic Roots of Classical Civilization. London UK 1987. Molto si è discusso nel passato circa la vera matrice della religione egizia se cioè era ab origine monoteista o politeista. Lo storico delle religioni Karl Beth (1916) sostiene che la risposta è a double-face secondo come la si esamini. Qualche studioso ritiene che nella sua essenza è un credo monoteista (divinità suprema astratta, trascendente che si andrebbe ad identificare nel dio nascosto dei dotti, dei sapienti, il dio dei platonici ma soprattutto degli ermetici) che poi nel tempo ha subito una serie di derivazioni che hanno finito per far perdere la originaria caratteristica di credo verso un’unica divinità (cfr. E. Drioton Le monothéisme de l’ancienne Egypte in “Cahiers d’histoire égyptienne”, Paris 1948). Comunque, a prescindere da ogni dissertazione nel merito, appare indubitabile che la religione egizia, nella configurazione a tutti nota nell’intero arco della storia di questo paese, resta senza ombra di dubbio religione oggettivamente politeista.

2 – cfr. Flinders W.M. Petrie, A History of Egypt, London UK 1894-1905 (II volume).
3 – cfr. A. Weigall The Life and Times of Akhnaton New York NYS 1923.
4 – cfr. L.W. King and H.R. Hall Egypt and Western Asia in the Light of Recent Discoveries, London UK 1907. Qualche autore , in netto contrasto con le correnti ariane citate nel testo, ritiene addirittura probabile l’origine di Akhenaton e del padre, sopratutto in base al colore della pelle molto scura, da ricercarsi nell’Alto Egitto o nella Nubia (cfr. H.A. Gardiner La Civiltà Egizia – op. trad. in italiano, Torino 1971).
5 – cfr. A. Weigall, cit. op. “…Nessun’altra religione al mondo è più prossima al Cristianesimo della fede di Akhenaton…”, pag.127.
6 – Gli ittiti avevano il culto del sole come si desume dal Carme di Muwatallis.
7 – Analoga opera in lingua tedesca fu pubblicata in Germania con il titolo Der Mann Moses, Frankfurt/Main DBR 1970 (ult. ed.).
8 – Il Lyon (cit. op.) parte dal presupposto che Amenophi III sovrano ed al tempo stesso dio unico, per il concetto di universalità insito nella religione atoniana, volle fondare un nuovo regno in terra di Palestina con un nuovo popolo, quello d’Israele, affidando questo incarico al figlio Akhenaton. Egli identifica una serie di personaggi biblici con uomini e donne d’Egitto (la regina Tiye è la biblica Miriam, Mermose è Mosè ecc.). Alcuni dei dieci comandamenti dettati da Mosè risultano simili al libro dei morti (per ulteriori approfondimenti cfr. cit. op.).
9 – cfr. Vandenberg. P. , Nofrotete, Bern CH und Muenchen DBR 1975; Der Fluch der Pharaonen, Muenchen DBR – Bern CH – Wien A 1973.
10 – Con il termine Mezzaluna fertile il Breasted identifica quell’area geografica culla delle più grandi civiltà del mondo compresa tra i fiumi Tigri, Eufrate da una parte (corno destro) e Nilo dall’altra (corno sinistro). cfr.: Brastead C., Vom Tal der Koenige zu dem Toren Babylons, Stuttgart DBR 1950. E’ bene precisare che una emigrazione nelle altre aree appetibili era resa estremamente difficile, l’Elam infatti a sud-est era troppo lontano e le regioni a nord di Kizzuwatna risultavano inaccessibili sia dalla conformazione orografica (catena dei Monti Tauro che fungevano da vero e proprio diaframma tra la regione anatolica ed il sud) ed anche e sopratutto perché trattavasi di regioni abitate da popolazioni ben più bellicose delle mesopotamiche (dapprima i Khatti e poi gli Ittiti) che non avrebbero certamente consentito l’accesso di flussi immigratori nel loro territorio.
11 – Le popolazioni mesopotamiche chiamavano queste tribù in lingua akkadica Amorrei, parola che deriva dal sumero Martu o Tidnum e che significa popoli ad occidente. Alcuni reperti attestano che queste tribù, assieme ai Gutei e i Sua provenienti da est (monti Zagros)furono appellati, per la loro rozzezza, popoli che mangiano carne cruda.
12 – Di epoca recente il ritrovamento in alcune località archeologiche d’Egitto dei conteggi relativi alle paghe che venivano corrisposte agli operai addetti alla costruzione delle grandi opere.
13 – cfr.: K. Richter La Bibbia e l’antica civiltà d’Israele, Ginevra 1976.
14 – Khabiri o Habiri. Taluni ravvedono in questo termine la naturale derivazione della parola ebreo (Khabiri, Habiri, Hbr).
15 – cfr. F. Delitzsch, Babel und Bibel trad. in italiano con il titolo Babilonia e la Bibbia, Ed. Bocca Torino 1905; K. Richter La Bibbia e l’antica civiltà d’Israele, La Spezia 1990.
16 – Alcuni studiosi ritengono Nefert-iti di origine egizia, tra questi l’Aldred che ne attribuisce la paternità probabile ad Ay (figlio di Yuya e Tuyu). In questo caso avrebbe avuto per sorella Mut-nodijme. Altri, tra cui il Vandenberg, per una serie di argomentazioni ne sugellano l’origine orientale. Anzitutto l’abbigliamento ed in particolare il copricapo di chiara origine hurrita o tuttalpiù ittita. Quest’abbigliamento era tipico delle principesse e regine di quelle regioni orientali. Esse non dovevano mostrare in cermonie i capelli al contrario degli uomini, i famosi maryanna dalle lunghe chiome simbolo della potenza. Usanze analoghe pare vi fossero anche tra le popolazioni filistee abitanti la regione di Gaza. Altro elemento che farebbe supporre un’origine orientale è dato dal colore della pelle estremamente chiara e dalle fattezze del viso, tutti elementi che fanno supporre un’origine giapetica (indoeuropea o più probabilmente indo-iranica cioè hurrita). Si rammenta che gli egizi erano appellati misraim dove misr o msr significa nero, scuro e aim (parola di origine semita) sta per stirpe, popolo. In ultima analisi la traduzione del nome NFRT che significa letterlamente La bella che quì viene dove NFR sta per bella e T indica il genere femminile. E’ appena il caso di accennare che nella grafia geroglifica risultano del tutto assenti le vocali. Nefer (NFR) è un escamotage usato dagli egittologi per dare un suono a quelle consonanti che altrimenti risulterebbero impronunciabili. Qualche autore di recente ritiene più corretto il nome di Nofrorete od anche Nofrerete.
17 – Un contadino rinvenne nel 1888 nella zona di Tell el-Amarna alcune tavolette scritte in carattere cuneiforme. Fu, all’epoca, una scoperta importantissima perché fece luce su diversi fatti storici del periodo amarniano. Si trattava del ritrovamento degli archivi reali dei due sovrani Amenophi III e Amenophi IV scritti come detto nella lingua diplomatica del tempo che era l’akkadico babilonese. Nel complesso oltre tremila lettere.
18 – Il ramo giapetico della razza umana (razza aria o ariana), secondo il prevalente orientamento attuale degli studiosi, in epoca imprecisata dette origine a due sottogruppi fondamentali gli Joni (termine che dettero i persiani ai greci e che significherebbe popolo giovane. Ancor oggi i popoli di razza turca chiamano i greci junani e la Grecia Junanistan) rappresentanti il ramo indoeuropeo e gli ariani propriamente detti , il ramo orientale rappresentato dalle popolazioni dell’altopiano iranico e del sub-continente indiano. Le popolazioni turaniche (turchi, magiari, estoni, finni ecc.) farebbero parte di un sottogruppo rientrante sempre nella grande famiglia giapetica. Gli hurriti apparterrebbero al gruppo degli ariani propriamente detti, mentre gli ittiti apparterrebbero al primo gruppo (nel merito comunque vi sono pareri discordanti).
19 – Nell’antichità le popolazioni cananee, pertanto di lingua semita, abitanti le zone costiere (Ugarit, Sidon ecc.) venivano chiamate Fenici. Pertanto il termine fenicio o cananeo identifica uno stesso popolo, ove i primi erano navigatori ed i secondi pastori o dediti all’agricoltura in genere.
20 – Celebre il busto in gesso di cm.48 circa rinvenuto il 6 dicembre del 1912 a Tell el-Amarna da Ludwig Borchardt (cfr. Borchardt L., Portraits der Koenigin Nofretete, Berlin 1923), ed attualmente allo Staatliche Museum di Berlino. Altrettanto celebre e forse, ad avviso di chi scrive ancor più interessante, la testa incompiuta della regina in quarzite di cm.33 circa, proveniente anch’essa da Amarna ed attualmente presso il Museo Egizio del Cairo.
21 – L’aspetto del sovrano che emerge dalle varie iconografie esistenti evidenzia, secondo diversi studiosi, la probabile presenza di alcune sindromi quali la idropisia e/o la sindrome di Klinefelter. L’addome estremamente pronunciato e sproporzionato rispetto alle altre parti del corpo, i fianchi femminei costituirebbero un forte indizio.
22 – Donald B. Redford, A Report on the Work of the Akhenaton Temple Project of the University Museum e Studies on Akhenaton at Thebes , entrambi i lavori pubblicati dalla University of Pennsylvania PA nel 1973.

(Emilio Mariani, 1998)

Islam

Dal diario di viaggio nel mondo arabo di Dalrymple emergono similitudini tra le due religioni. “Il Ramadan è la riproposizione della Quaresima come la celebravano i copti”
Nella primavera del 587 d.C., il monaco Giovanni Mosco attraversò l’intero mondo bizantino, partendo dalle sponde del Bosforo per arrivare in Egitto. Da quel viaggio nacque il “Prato spirituale” uno dei libri più letti e popolari dell’antichità. Quattordici secoli più tardi, a percorrere lo stesso itinerario è stato William Dalrymple, trentenne scozzese già famoso grazie ai suoi resoconti di viaggio, il risultato è “Dalla montagna sacra” (Rizzoli), un libro che punta a inserirsi nella miglior tradizione della narrativa di viaggio britannica: “Quando si nasce in un’isola, viaggiare è inevitabile”, spiega lo scrittore, “ma la narrativa di viaggio è qualcos’altro, ed ha una ricca tradizione, soprattutto inglese, che parte dai memorialisti del diciottesimo secolo e diventa, con Bruce Chatwin, un vero e proprio genere letterario con il quale i giovani autori devono prima o poi confrontarsi”. A chi scrive di viaggi può capitare, diversamente da quanto succede ai romanzieri, di avere in mente una storia, e trovarsene in mano una tutta diversa.

E’ quanto è successo a Darlymple, partito “per raccontare le persecuzioni delle minoranze cristiane nel mondo arabo”, e testimone involontario di una millenaria tradizione di tolleranza che solo ai nostri tempi si sta sgretolando, “e che risalta se confrontata con la tradizionale intolleranza cristiana verso tutte le minoranze religiose, musulmani inclusi”. Una tolleranza che è riuscita a sopravvivere alle inevitabili tensioni causate dalle crociate, e che ha fatto la grande fortuna dell’oriente: finendo però paradossalmente con l’entrare in crisi nel nostro secolo. E William Dalrymple individua le origini di questa crisi proprio nel progressivo affermarsi della cultura nazionalista che il Medio Oriente ha importato dall’Occidente: “Basti pensare a cosa è successo in Turchia, dove c’era una ricca tradizione multiculturale e multi religiosa. Esauritasi con la presa del potere da parte dei “giovani turchi” che ha portato al massacro degli armeni e all’espulsione dei greci. Senza dimenticare Cipro, la Palestina, la Bosnia”. In realtà le persecuzioni e le discriminazioni di cui l’autore è stato testimone – quelle contro gli armeni, i palestinesi, alcune comunità cristiane – hanno origini diverse: “in libano, ad esempio, i cristiani scontano il fatto di non aver voluto dividere il potere che detenevano”. Resta il fatto che il mondo moderno sembra aver dimenticato qualcosa che per la cultura bizantina era del tutto ovvio, e cioè che Islam e cristianesimo sono assai più vicini di quanto comunemente si pensi: “Quella cristiana è fondamentalmente una religione orientale, nata in Palestina e cresciuta ad Antiochia, Bisanzio, Alessandra”, spiega lo scrittore. “La preghiera islamica, in ginocchio con il capo poggiato a terra, deriva dalla più antica forma di preghiera cristiana, e il Ramadan, tante volte additato come esempio di fanatismo, non è altro che la riproposizione della Quaresima come la celebravano i copti, che ancora oggi digiunavano dall’alba al tramonto”.

Il problema, prosegue Dalrymple, è che noi “tendiamo a contrapporre il Cristianesimo, religione occidentale, all’Islam, regione orientale. Ma diversi pensatori cristiani tra cui Giovanni da Damasco, l’ispiratore di Tommaso d’Aquino, consideravano l’Islam un’eresia cristiana più che una vera religione”. Cosa si può fare per riavviare il dialogo tra Oriente e Occidente? “Anzitutto cercare di capire, ed intervenire con prudenza: spesso l’Occidente ha reso le cose più difficili per le comunità cristiane di Oriente. In Egitto il Congresso Usa ha vincolato gli aiuti al comportamento nei confronti della comunità copta, il che l’ha resa invisa al mondo islamico provocando grave imbarazzo proprio in quelli che si intendeva proteggere”. E soprattutto, prosegue l’autore, non agitare lo spettro del fondamentalismo: “E’ sbagliato vedere il Medio Oriente come un blocco islamico intollerante. Eppure c’è la tendenza, specialmente da parte degli Stati Uniti, a identificare una “minaccia islamica” che va a sostituire l’antica “minaccia sovietiva”. Dimenticando che il fondamentalismo è una caratteristica comune a molte religioni: “Ci sono fondamentalisti indù ed ebrei, cristiani e, naturalmente musulmani”. Ma si tende ad esagerare la capacità del fondamentalismo islamico di controllare il mondo arabo”.

Storia: origini del fondamentalismo islamico

Volendo fornirne una definizione sintetica e unitaria, si può affermare che il fondamentalismo islamico si basa su un’interpretazione integralista della religione musulmana, con stretta adesione al Corano e alla legge islamica (shari‘ah). In parte il suo terreno di coltura può essere individuato nel nazionalismo panarabo e panislamico, caldeggiato nel sec. XIX, anche al di là delle loro intenzioni, dall’iraniano Ğamāl ad-Dīn al-Afġani(1838-1897), che predicava la necessità di una ripresa dei puri princìpi islamici contro l’intervento cristiano europeo, e dai suoi discepoli, come l’egiziano Muḥammad ‘Abduh (1849-1905) e il siriano Rashid Rida (1865-1935), impegnati nella rinascita e nella riunificazione della nazione musulmana in contrapposizione alla dominazione occidentale e alle sue idee. Tuttavia questi intellettuali erano in genere riformatori, favorevoli a governi costituzionali e tutt’altro che scevri da uno spirito di ammodernamento, anche perché al loro antioccidentalismo si associava una ferma opposizione antiturca, in quanto erano convinti che il declino del mondo islamico fosse iniziato con la dominazione dei Turchi. Fu piuttosto nella prima metà del Novecento che le posizioni fondamentaliste cominciarono a delinearsi con maggior chiarezza, proprio in reazione ai movimenti di riforma islamica, considerati intrisi di cultura occidentale e inclini all’influenza dei Paesi europei negli Stati arabi. Animati dalla certezza che l’instaurazione di un rigoroso ordine islamico dominato dalla shari‘ah avrebbe risolto sia i problemi interni dei governi e della società araba sia quelli esterni provocati dalle dominazioni occidentali, i fondamentalisti islamici rifiutarono qualsiasi compromesso e ricorsero alla violenza contro chiunque non accettasse le loro opinioni. Ciò tuttavia li isolò, suscitando allarme nello stesso mondo arabo ogni volta che furono sul punto di raggiungere il governo di qualche Stato. Un’apparente eccezione fu negli anni Venti del Novecento il loro avvento al governo in Arabia Saudita, Paese che tuttavia moderò poi le sue posizioni, stringendo stretti rapporti con l’Occidente a causa delle sue risorse petrolifere. La penetrazione del fondamentalismo trovò comunque coronamento nella costituzione dei Fratelli Musulmani, organizzazione creata nel 1928 in Egitto a opera dell’insegnante Hasan al-Banna (1906-1949) e presto diffusasi anche in altri Stati del mondo arabo postcoloniale. Già frequentatore del circolo di Rashid Rida (cui successe nella direzione della rivista al-Manar, punto di forza del cosiddetto “Risorgimento arabo”), al-Banna propugnava uno Stato islamico basato sugli insegnamenti coranici, mirando con la sua organizzazione a rinnovare l’Islam, mediante l’imposizione della legge islamica a tutte le attività sociali e politiche, e sostenendo che i musulmani di tutto il mondo e d’ogni razza appartenevano a un’unica nazione islamica. Per diffondere queste idee i Fratelli Musulmani si dedicarono a un’intensa attività politica militante e iniziarono a darsi una struttura paramilitare suddivisa in tre livelli – assistente, affiliato, attivo – e in un quarto clandestino (il combattente), base dell’organizzazione segreta. Benché intenzionato a espandersi negli altri Paesi musulmani (soprattutto in Siria), il movimento rimase influente solo in Egitto, dove accrebbe i suoi consensi fino agli anni Quaranta. Interdetti nel 1948, per la loro pericolosa combattività che si scontrò in buona parte con le stesse idee del suo iniziatore, i Fratelli Musulmani sopravvissero come organizzazione clandestina di tipo terroristico. Nello stesso anno 1948 uno dei suoi membri uccise il primo ministro egiziano, provocando una dura repressione del governo, che fece a sua volta assassinare al-Banna. Eliminato da Nasser, che nel 1954 lo soppresse prendendo a pretesto un fallito attentato contro di lui, il movimento proseguì nella sua opposizione violenta, venendo anzi rifondato in chiave ancor più radicale da Sayd Qutb (1906-1966) e da Abu al-Alala al-Mawdudi (1903-1979), promotore in Pakistan della Jama’at-i Islami. Qutb cercò di aggiornare la prospettiva del fondamentalismo islamico proponendolo come soluzione alternativa al fallimento storico del nazismo e del comunismo e insistendo di conseguenza sull’inderogabile necessità d’imporre indiscriminatamente la legge islamica, parificata a un codice civile e penale dal valore universale.

Diffusione del fondamentalismo islamico

Nel suo complesso, il fondamentalismo islamico fu sottovalutato sia dall’opinione pubblica mondiale sia dalla maggioranza degli intellettuali musulmani moderati, almeno fino alla sconfitta inflitta agli Stati arabi da Israele nella “ guerra dei sei giorni ” del 1967. Dopo d’allora ci si rese conto che esso poteva trovare un fertile terreno nella delusione vissuta dalle masse arabe di fronte alle crescenti difficoltà del nazionalismo arabo laico. Traendo spunto dalla volontà popolare di reagire orgogliosamente alla cultura occidentale, l’azione dei fondamentalisti proseguì e i Fratelli Musulmani si resero protagonisti nel 1981 dell’assassinio del presidente egiziano Sadat, seguito da una nuova repressione nei loro confronti e da una serie di azioni violente contro i turisti, dirette a mettere in crisi una delle principali industrie del Paese. Messi fuorilegge in molti Paesi del Nordafrica, i vari movimenti fondamentalisti intensificavano negli anni Ottanta la loro attività sia in Europa sia nei Paesi arabi e musulmani, dove ottenevano un indubbio successo politico: un notevole numero di Stati adottava, infatti, via via la legge islamica o doveva tenerne conto, soprattutto, dopo un evento rivelatosi decisivo per lo sviluppo del fondamentalismo, la rivoluzione iraniana del 1979. Considerato fino agli anni Settanta del Novecento un esempio di occidentalizzazione riuscita, l’Iran era rimasto in realtà un coacervo di sentimenti nazionalisti avversi tanto ai valori della società europea e statunitense, quanto al potere e alle riforme dello scià. L’arresto e poi l’esilio dell’influente ayatollah Khomeini (1963) fermò per un decennio l’opposizione religiosa, finché il malcontento popolare trovò in lui una voce autorevole che portò alla fine della monarchia persiana (1979) e all’instaurazione di un regime rigidamente islamico, intenzionato a diffondersi nel resto del mondo arabo, pronto a sovvertire tutti i governi non islamici, a combattere l’Occidente, soprattutto gli Stati Uniti, e a consolidare all’interno il dominio del clero. Fondandosi sulla dottrina che il vero Stato islamico deve essere fedele al Corano e governato dalla classe religiosa, Khomeini assunse i pieni poteri, imponendo nelle scuole un’educazione antioccidentale, alla popolazione un rigoroso codice di condotta, garantito dalle squadre della milizia islamica, e alle minoranze del Paese (i Curdi, i Turkmeni e gli Arabi del Khuzistan) un oppressivo silenzio. Dopo otto anni di guerra con l’Iraq (1980-1988) e la morte di Khomeini (1989) si apriva nel Paese un graduale processo di riforme politiche, ma il fondamentalismo non cessava di propagarsi in altri Paesi islamici, favorito anche dalla povertà delle società in cui esso prospera. Sempre più consistente si rivelava la presenza di movimenti fondamentalisti nei Paesi dell’Asia meridionale, quali il Pakistan, il Kirghizistan, l’Uzbekistan, il Tagikistan e soprattutto l’Afghanistan, dal 1994 in mano all’autoritario regime integralista dei Taliban. Non meno dilagante, benché in forme non sempre estreme, era l’avanzata del fondamentalismo musulmano nel Sud Est asiatico, dalla Malesia alle Filippine all’Indonesia. Analoghi fenomeni si registravano nell’Africa settentrionale, in Sudan e soprattutto in Algeria, dove per impedire l’avvento al potere del partito fondamentalista (Fronte Islamico di Salvezza, FIS), dopo i clamorosi successi da questo riportati alle elezioni amministrative (1990) e politiche (1991), interveniva un colpo di stato (1992), cui faceva seguito l’arresto di numerosi capi religiosi e una dura repressione, che comunque non riusciva a impedire del tutto la mobilitazione popolare a favore degli integralisti.

Y.M. Choveiri, Il fondamentalismo islamico, Bologna, 1993; S. Eisenstadt, Fondamentalismo e modernità, Bari, 1994; B. Etienne, L’islamismo radicale, Milano, 1988; R. Giammarco (a cura di), Ai quattro angoli del fondamentalismo, Firenze, 1993.

La questione Israelo-Palestinese

Tutto comincia nel 1897, quando lo scrittore ungherese Theodor Herzl, organizza a Basilea il Congresso sionista, che sceglie la Palestina quale luogo per dar vita ad un futuro Stato ebraico. Una scelta per la verità scontata: quella è da sempre la Terra Promessa da Dio al popolo eletto, che questo ha dovuto abbandonare nel 135 dopo Cristo, per dare inizio alla diaspora. Vent’anni dopo il ministro degli esteri inglese lord Balfour aveva promesso agli ebrei una patria proprio in Palestina, e dal 1918, quando inizia l’occupazione inglese, sono decine di migliaia gli ebrei che immigrano verso la terra dei padri. Nel paese ci sono allora cinquantaseimila ebrei, pari all’otto per cento della popolazione.

IL RITORNO IN PALESTINA
Nel luglio del ’22 la Lega delle Nazioni sancisce l’occupazione da parte della Gran Bretagna e le affida il Mandato, invitandola a facilitare la formazione di una comunità ebraica. Già due anni prima gli ebrei si erano dati un organo di autogoverno, l'”Assemblea degli eletti”, e tra il ’24 e il ’32, sono circa 60 mila quelli che giungono in Palestina dalla Polonia, ed altri 165 mila arriveranno nella seconda metà degli anni ’30 per sfuggire al nazismo. Ma la rinascita della comunità ebraica trova subito una forte opposizione nel nazionalismo arabo, che si manifesta tra il ’20 e il ’39 con aggressioni agli ebrei e la distruzione sistematica del loro patrimonio. Un primo tentativo di conciliazione lo fanno gli inglesi nel ’36, prospettando una divisione del territorio in due Stati, uno ebraico ed uno arabo: gli ebrei accettano, ma gli arabi dicono di no. Così, nel ’39 la Gran Bretagna cerca di limitare l’arrivo degli ebrei, con la pubblicazione del Libro Bianco. Intanto nascono i movimenti clandestini ebraici, che avranno un ruolo fondamentale nella lotta contro gli inglesi e nella fondazione dello Stato.

IL NO DEI PAESI ARABI ALLA DIVISIONE IN DUE STATI
La seconda guerra mondiale rappresenta per il popolo ebraico uno dei momenti più drammatici della sua storia: sei milioni finiscono nei lager nazisti e non ne torneranno. Dopo la fine del conflitto, molti dei sopravvissuti cercano di raggiungere la Palestina, aggirando l’ostilità della Gran Bretagna. La comunità ebraica si organizza clandestinamente e, tra il ’45 e il ’48 riesce a far arrivare oltre 85 mila persone. Gli inglesi istituiscono blocchi navali e tentano invano di far fronte alla guerriglia, ma alla fine sono costretti a prendere atto della loro incapacità di far fronte al problema e di conciliare le richieste di arabi ed ebrei. Così, nel ’47 chiedono all’assemblea generale delle nazioni la fine del Mandato, che viene fissata per il 1° agosto ’48. Prima però, occorre dare un futuro alla regione e un comitato dell’Onu si mette all’opera, elaborando una proposta che prevede la creazione di due Stati, uno ebraico ed uno arabo, nonché una zona internazionale, comprendente Gerusalemme, sotto la protezione internazionale. Il 29 novembre si vota, e questa proposta viene approvata con 33 voti a favore, 13 contro e 10 astensioni. Gli ebrei, come già nel ’36, sono d’accordo ma, come allora, ad opporsi sono i paesi arabi.

LA NASCITA DI ISRAELE

La risoluzione resta quindi carta straccia, mentre si intensifica la guerriglia araba, tesa ad impedire la formazione di uno Stato ebraico, e quella ebraica, contro gli arabi e gli inglesi. Una situazione di stallo che induce la Gran Bretagna ad accelerare il suo disimpegno dalla Palestina, che viene anticipato al 15 maggio ’48. Un abbandono che crea recriminazioni da entrambe le parti: gli arabi lamentano come gli inglesi lascino prima le zone ebraiche, ripiegando verso quelle arabe e mettendo i sionisti nelle migliori condizioni per combattere. Si perpetrano anche degli eccidi: il 9 aprile un commando guidato da Menachem Begin, che diverrà poi primo ministro, massacra duecentocinquanta fra uomini, donne e bambini nel villaggio di Deir Yassin. Un episodio che il giornalista Jon Kimche definirà “la macchia più nera nella storia ebraica”. L’offensiva sionista va però avanti e il 14 maggio, un giorno prima della fine del mandato britannico, David Ben Gurion proclama la nascita dello Stato di Israele.


La guerra dei sei giorni
La proclamazione dello Stato fa esplodere il primo dei conflitti con gli arabi. Il 15 maggio ’48, meno di ventiquattrore dopo la dichiarazione di Ben Gurion, gli eserciti di Egitto, Giordania, Siria, Libano e Irak invadono Israele. La guerra dura poco più di un anno e gli arabi non riescono a scacciare gli ebrei. Solo nel ’49 si raggiunge un accordo che sancisce una nuova spartizione: la Galilea e il Negehv ad Israele, Giudea e Samaria alla Giordania, la striscia di Gaza all’Egitto e Gerusalemme divisa in due, il settore occidentale agli ebrei, quello orientale alla Giordania. Un milione di profughi arabi viene accolto dal re di Transgiordania Abdullah, il cui paese assume il nome di regno di Giordania. Sembra che, in realtà, ebrei e giordani abbiano concordato, con la mediazione degli inglesi, il realizzarsi di questa situazione, che diverrà ufficiale nell’aprile del ’50, quando la parola Palestina viene bandita per decreto reale.

MANI EBRAICHE SUL SINAI
E’ in quel periodo che si salda l’alleanza tra Israele e gli Stati Uniti, ma è anche un momento di grande evoluzione negli assetti dell’area medio-orientale. Nel ’52 Nasser sale al potere in Egitto e la sua leadership finisce col galvanizzare il mondo arabo, mentre Israele prosegue nella sua campagna di attacchi, tesi alla difesa della neonata nazione. Un atteggiamento che rifiuta la disponibilità araba alla discussione. Ma la situazione precipita. Quando gli americani negano all’Egitto i fondi per la costruzione della diga di Assuan, Nasser reagisce nazionalizzando il canale di Suez e stipula un patto militare con Siria e Giordania. Gran Bretagna e Francia reagiscono ed a loro si unisce volentieri Israele. La guerra dura solo otto giorni, e viene fermata da un intervento congiunto di Usa e Urss, ma consente agli ebrei la conquista del Sinai e della striscia di Gaza.

LA GUERRA DEI SEI GIORNI
l decennio successivo è dedicato al consolidamento dello Stato israeliano, senza che però il clima di tensione coi paesi arabi si allenti. Israele continua a vivere con la sensazione di un perenne stato di assedio. C’era davvero una seria minaccia alla sua sopravvivenza? Forse no, come hanno ammesso successivamente gli stessi dirigenti israeliani. Resta il fatto che, nel maggio del ’67 gli ebrei lanciano una grande offensiva guidata da Moshe Dayan, che passerà alla storia come la “guerra dei sei giorni”, contro Egitto, Giordania e Siria, che porta ad una nuova sconfitta degli arabi. Giudea, Samaria, le alture del Golan e tutta Gerusalemme, passano sotto il controllo israeliano

Al Fatah e Settembre Nero
È proprio la guerra lampo del ’67 che fa emergere per la prima volta nelle sedi internazionali la questione dei profughi palestinesi, rispetto alla quale le potenze occidentali e gli stessi paesi arabi avevano avuto un atteggiamento assai freddo. Il 22 novembre ’67 il Consiglio di sicurezza dell’Onu approva una risoluzione, la 242, che auspica la soluzione del conflitto arabo-israeliano e dei profughi palestinesi. Gli israeliani sono scettici, perché si tratta di arretrare dalle posizioni conquistate, ed entrano addirittura in rotta di collisione con gli Usa, che puntano a ridurre le pretese di Israele. Solo nel ’70 si arriva ad un armistizio con l’Egitto, basato su un piano in tre punti, tra i quali c’è l’accettazione della 242, con un’interpretazione che pone però la questione palestinese sullo sfondo. Accetta anche la Giordania, che a settembre scatena la repressione contro i feddayin, la resistenza palestinese: è “settembre nero”, la cacciata dei palestinesi. Due anni prima era nato il movimento Al Fatah, che propugnava la liberazione della Palestina dagli ebrei, sulla scia della rivoluzione nasseriana in Egitto. Ma “settembre nero” mette fine, almeno per il momento, a questa illusione.

Dal Kippur a Camp David
Dopo la repressione del ’70, a cui fa seguito un’analoga iniziativa l’anno successivo, appare evidente che la Giordania vuole riaffermare il suo ruolo di leader dei palestinesi, passando attraverso l’eliminazione delle sue avanguardie politiche. Nel ’72 re Hussein annuncia un progetto per la creazione di un regno arabo unito, che dovrebbe comprendere la Cisgiordania occupata da Israele. Contestualmente gli Stati Uniti riannodano i rapporti con l’Egitto di Sadat, in funzione anti-sovietica. C’è poi il sanguinoso blitz dei palestinesi del ’72 a Monaco, durante le Olimpiadi, quando un gruppo di terroristi uccide undici atleti israeliani. È in questo clima che matura la scelta di Israele di scendere in guerra. Il 6 ottobre ’73, giorno di Yom Kippur, gli scontri diventano un vero e proprio conflitto, che vede gli israeliani entrare in Siria ed Egitto. La guerra del Kippur finirà per sancire la sconfitta elettorale dei laburisti israeliani e di ricompattare il fronte arabo.

NASCE L’AUTORITA’ NAZIONALE PALESTINESE
Nel vertice di Algeri, Yasser Arafat, diventato il leader dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, ottiene dai paesi arabi il riconoscimento dell’Olp quale unico rappresentante dei palestinesi. Un’altra vittoria dell’Olp è la risoluzione dell’Onu, che nel novembre del ’73 riafferma il diritto delle popolazioni medio-orientali residenti fuori dal paese a causa delle ostilità, a rientrare nelle loro case. Un avvertimento ad Israele. L’anno dopo gli Stati Uniti iniziano a tessere le fila dei negoziati con mondo arabo, mentre sul fronte palestinese si avvia la discussione fra lotta nazionale e lotta per la rivoluzione. Un dibattito che si fa aspro nel giugno del ’74 nel Consiglio nazionale palestinese, al termine del quale viene adottato un programma che prevede l’istituzione di un’autorità nazionale indipendente.

LA PACE DI CAMP DAVID
Il 13 novembre Arafat prende la parola per la prima volta davanti all’assemblea dell’Onu. Parla di speranze comuni, invita gli israeliani a costruire assieme un’alternativa, e parla di uno Stato palestinese in cui arabi, ebrei e cristiani possano convivere senza discriminazioni. Il 22 novembre l’Onu approva il progetto, che riafferma i diritti dei palestinesi. Ma Israele dice no e si ricomincia da capo. Bisogna arrivare fino al ’77 perché un paese arabo, l’Egitto, sieda ad un tavolo con gli israeliani. Mediatori gli americani, in particolare il presidente Jimmy Carter, si arriva al trattato di pace elaborato a Camp David nel settembre ’78, e firmato da Sadat e Begin il 26 marzo ’79. E’ il primo passo dopo trent’anni di guerra, che porta al definitivo ritiro israeliano dal Sinai nell’aprile ’82.

Uno Stato per i palestinesi
Ma, se con l’Egitto il clima è più disteso, si apre adesso il fronte del Libano. Qui, l’Olp ha le sue basi, da cui partono la guerriglia ed i missili verso Israele. Così, nel giugno dell’82, scatta l’operazione “Pace in Galilea”, che ottiene solo in parte i risultati sperati, e che si concluderà nell’85 col ritiro delle truppe. Ma due anni dopo, nell’87, scoppia la protesta dei palestinesi in Giudea, Samaria e Gaza. È l’Intifada, che durerà fino al ’92. Intanto però, nell”88 l’Olp ha riconosciuto l’esistenza di Israele, che nell’89 presenta una proposta di pace che prevede il negoziato coi palestinesi, la pace con la Giordania e una soluzione al problema dei profughi. Nel ’91 si apre la conferenza di Madrid e nel ’93 gli accordi di Oslo riconoscono una limitata autonomia ai palestinesi, a Gaza e Gerico.

L’ASSASSINIO DI RABIN
Ma il processo stenta a decollare, a causa dell’ostilità della destra israeliana, dei fondamentalisti religiosi e degli estremisti palestinesi. Il primo dirigente israeliano che ha davvero pensato alla fine del conflitto coi palestinesi, Itzhak Rabin, viene ucciso il 4 novembre ’95 da un estremista ebreo. I palestinesi non sono da meno nel frenare il processo di pace: in un solo mese, fra febbraio e marzo ’96, quattro attentati suicidi causano la morte di sessanta persone, e le milizie di Hezbollah, riaccendono lo scontro al confine col Libano. Tuttavia, il processo di pace, seppur faticosamente, va avanti. A settembre del ’99 viene firmato un nuovo accordo, che sancisce la nascita dello Stato Palestinese.

L’ULTIMA PROVOCAZIONE
In mezzo però ci sono violenze da entrambe le parti. Alcuni episodi. Nell’aprile dell’88 un commando israeliano tenta di uccidere a Tunisi il numero due dell’Olp Abu Jihad: scoppiano tumulti, che provocano 19 morti. Nell’ottobre ’90 durante una serie di scontri sulla spianata delle moschee a Gerusalemme, i soldati israeliani sparano uccidendo 18 palestinesi. Nel febbraio ’94 un colono israeliano massacra 29 mussulmani in una moschea. Nel ’96, dopo nuovi accordi a Oslo, gli scontri, provocati dallo scavo di un tunnel archeologico sotto la spianata delle moschee, provocano 87 morti, 71 dei quali palestinesi. Fino alla provocazione del leader della destra israeliana Ariel Sharon.

I tanti nemici della pace
«Ognuna delle parti in questo conflitto si batte non già contro il suo nemico, il suo avversario reale, ma contro le ombre nevrotiche del proprio passato. Gli arabi non vedono noi, ma i francesi, gli inglesi, i turchi. Tutti coloro che per secoli li hanno oppressi, massacrati. Per noi, non sono gli arabi. È Hitler, sono i nazisti, sono i russi, i pogrom. Penso che il conflitto sia tra due mondi malati, nevrotizzati. Ognuno si batte contro il proprio passato». Questo diceva lo scrittore israeliano Amos Oz nel ’74, a proposito del conflitto fra arabi e israeliani. Forse non è solo così, visto che la contrapposizione ha radici e motivi meno psicologici. Tuttavia c’è del vero, ad osservare l’estremismo che fa spesso violentemente capolino da entrambe le parti. Ad oltre cinquant’anni dalla fondazione dello Stato di Israele, la questione palestinese resta sostanzialmente al palo e i numerosi accordi non hanno contribuito a porre fine a questo contenzioso. Rigidità, la costante sensazione dell’accerchiamento da parte israeliana, il fondamentalismo arabo, hanno messo a dura prova i fautori della pace. Ad alcuni di loro, come l’israeliano Rabin o l’egiziano Sadat, l’impegno è costato la vita. Negli anni della guerra fredda si pensava che lo scontro fosse una delle conseguenze della contrapposizione fra i blocchi occidentale e sovietico. Ma il crollo del muro di Berlino non ha affatto favorito il processo di pace. La destra israeliana non ci ha messo certamente molto impegno, e la provocazione del leader del Likud Ariel Sharon la dice lunga. Mai, in mezzo secolo, un dirigente israeliano aveva messo piede sulla spianata delle moschee a Gerusalemme, luogo sacro dell’Islam, da cui si pensa che Maometto sia salito in cielo. Yasser Arafat ha fatto molti passi avanti nell’emancipazione dal fondamentalismo, verso una politica realista che tenda alla coesistenza fra ebrei e palestinesi, ma si è scontrato con le frazioni più estremiste dell’Olp, che hanno applaudito al fallimento delle trattative col primo ministro israeliano Barak. La pace è possibile, ma l’episodio dell’ottobre 2000 conferma, se mai ce ne fosse bisogno, che il raggiungimento dell’equilibrio è ancora lontano.
Tratto da: www.inclasse.it
Autore: Gianni Pacchiardo

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