Sicilia crocevia delle civiltà Mediterranee

La Sicilia fenicia

Mozia (Motya)

Gli studiosi di storia antica chiamarono fenici i mercanti che nel primo millennio avanti Cristo provenivano dalla Fenicia,regione che oggi coincide con l’odierno Libano. Questa è una semplificazione se si considera che questi mercanti in realtà provenivano da un’area più vasta, l’area siro-palestinese. Questi mercanti venivano da città come Arvad, Biblo, Beirut, Sidone, Sarepta e Tiro (Sor), tutte importanti città portuali che si affacciavano sul Mediterraneo e che oggigiorno fanno parte dei territori della Siria, del Libano e dell’Israele. Tutte queste città-stato erano independenti fino al momento che Tiro nel X secolo a Cristo prendeva il sopravvento su tutte le altre 2.
Uno dei motivi fondamentali dell’espansione fenicia verso il mediterraneo occidentale, in particolare della città di Tiro, era la ricerca dell’argento, metallo prezioso molto ambito dall’impero assiro nella vicina Mesopotamia. La città-stato di Tiro riusciva a soddisfare la richiesta di argento degli assiri inviando le sue navi per le lontane terre della Spagna del sud, nel Tartessos. Le rotte verso l’occidente erano già note ai mercanti fenici e prima di loro a quelli ciprioti. Si pensa che il traffico di argento e l’abilità dei mercanti fenici di inserirsi nei traffici locali, proponendo a loro volta i propri prodotti di lusso (profumi, porpora, ceramiche, oggetti in pasta vitrea), siano state fondamentali per il loro successo 3. I primi insediamenti fenici in occidente erano dei ports of call o ports of trade, questi erano porti di appoggio dove i mercanti scambiavano le loro mercanzie.

L’espansione fenicia in occidente

Il giovinetto di Mozia, 450 a.C.-440 a.C.
Museo Whithaker a Mozia

Questi porti non erano frequentati esclusivamente dai mercanti fenici, ma anche da mercanti greci, gli eubei. Un noto esempio di un porto dove si svolgevano attività di scambio di questo tipo era Pithecoussai, l’odierna Ischia, ma si suppone che anche Motya (Mozia) con il suo porto, situata su una piccola isola davanti alla costa Siciliana, potesse aver avuto un ruolo simile. I fenici però non si spinsero nell’entroterra per fondare estese colonie territoriali, come fecero i greci in un’epoca successiva 4.

Gli insediamenti fenici in Sicilia

Maschera fenicia, Mozia

Da analisi effetuate su reperti rinvenuti durante gli scavi archeologici si è potuto datare il periodo della fondazione degli insediamenti fenici nell’occidente. I reperti archeologici più antichi rinvenuti nella necropoli di Motya, sull’isola di San Pantaleo dove sorgeva la cittadina, risalgono al VIII secolo a C. Reperti provenienti dal tofet e dal santuario del Cappiddazzu risalenti al VII e VI secolo a C testimoniano il periodo della crescente prosperità della città 7. Infatti la costituzione di un’area dedicato al tofet (santuario all’aria aperta) e la costruzione del tempio sono considerati momenti importanti dell’urbanizzazione 8. Per quanto riguarda l’insediamento fenicio di Palermo non si hanno dati certi che questa sia stata fondata prima del VII secolo a C, mentre per Soloeis (Solus oppure Solunto) non ci sono prove certe di una fondazione fenicia 9.

Note

1 Un libro recente sulla storia dei fenici e cartaginesi è quello di Richard Miles, Cartagine.
2 Sherratt & Sherratt 1993, p 364; Aubet 1993, p 42 ff.; Markoe 2000, p 170-174; Volpi 2004, p 17-20
3 Sherratt & Sherratt 1993, p 363; Mathäeus 2000, p 56-57; Frankenstein 1979, p 280-283
4 Sherratt & Sherratt 1993, p 368; Markoe 2000, p 175-176; Frankenstein 1979, p 278; Coldstream , p 263-264; Buchner 1979, p 279; Botto 1989, p 235,241; Volpi 2004, p 21; Tusa 1999, p 232
5 Aubet 1993, p 138, 200; Volpi 2004, p 22; Finley 1978, p 35-36; Moscati 1986, p136; Tusa 1999, p 232, 246 (Pantelleria)
6 Moscati 1986, p 101-105; Tusa 1999, p 247
7 Aubet 1993, p 200-203; Volpi 2004, p 31; Tusa 1989, p 11, 30-33, 41-43; Moscati 1986, p 61-90 (Mozia)
8 Aubet 1993, p 216,217; Van Dommelen 1998, p 82-83, 104; Van Dommelen 2005, p 154
9 Moscati 1986, p 106,115 ;Amadasi Guzzo 1990, p 60; Tusa 1999, p 240 (su Solunto) 242 (su Palermo)

Bibliografia

1. Amadasi Guzzo M.G., 1990, Iscrizioni fenicie e puniche in Italia, Roma
2. Aubet M.E., 1993, The Phoenicians and the West. Politics Colonies and Trade, Cambridge (first published in Spanish, 1987)
3. Botto M., 1989, Considerazioni sul commercio fenicio nel tirreno nell’VIII e nel VII secolo a. C., in: Istituto Universitario Orientale Annali Archeologia e Storia Antica XI, Napoli
4. Buchner, G., 1979, Die Beziehungen zwischen der euboïschen kolonie Pithekoussai auf die Insel Ischia und dem nordwestsemitischen Mittelmeerraum in der Zweiten Hälfte des 8. Jhr v. Chr., in: Niemeyer H.G. ed., Phönizier im Westen, Köln, p 277-298
5. Coldstream J.N., 1979, Greeks and Phoenicians in the Aegean, in: Niemeyer H.G. ed., Phönizier im Westen, Köln, p 261-272
6. Finley M.I., 1985, Sicilia antica, Roma
7. Frankenstein S., 1979, The Phoenicians in the far west. A function of Neo-Assyrian imperialism, in: Larsen M.T. ed., Power and Propaganda. A symposion on ancient empires, Copenhagen
8. Markoe G.E., 2000, Peoples of the past. Phoenicians, London
9. Matthäus H., 2000, Die Rolle Zyperns und Sardiniens im Mittelmeerischen interaktionsprozess während der Späten Zweiten und Frühen ersten Jahrtausends v. Chr., in: Der Orient und Etrurien, Roma
10. Moscati S., 1985, Italia Punica, Milano
11. Sherratt A.G., Sherratt E.S., 1993, The growth of the Mediterranean economy in the early first millenium B.C., in: World Archeaology 24, p 361-378
12. Tusa V., 1999, Sicily in: The Phoenicians, Moscati S. ed. (first published on the occasion of the exhibition The Phoenicians at the Palazzo Grassi Venice 1988), New York, p 231-250
13. Volpi A., Toti M.P., 2004, Motya, nel mondo dei fenici, Marsala
14. Van Dommelen P., 1998, On Colonial Grounds, Leiden
15. Van Dommelen P., 2005, Urban Foundations? Colonial settlement and urbanization in the Western Mediterranean in: Mediterranean Urbanization 800-600 BC, Osborne R., Cunliffe B. ed., New York, p 143-167

Fonte: www.motya.info/


La Sicilia greca

Numerosissime furono le poleis greche in Sicilia. Molte delle città greche furono fondate intorno all’VIII – VII secolo a.C., durante la prima ondata di colonizzazione greca, in particolare nell’area della Sicilia orientale e meridionale. Successivamente, intorno al V – VI secolo a.C.,  le prime colonie greche si espansero e fondarono diverse sub-colonie che poi ebbero vita propria.

Tra le città greche siciliane, due si distinsero per importanza e forza militare: Siracusa e Agrigento, città in cui oggi è possibile ammirare alcune importanti costruzioni greche e manufatti antichi.

Agrigento e la Valle dei Templi

Questa antica colonia greca fu fondata nel 580 a.C. sotto il nome di Akragas, da parte di coloni gelesi. La città sorse su un declivio, protetta a nord dalla collina di Girgenti e a est e ovest rispettivamente dai valloni dei fiumi Akragas (oggi S.Biagio) e Hypsas (oggi S.Anna).

L’odierna Agrigento sorge sulla collina di Girgenti a circa 230m s.l.m. e domina i resti della città greca, conservati nell’area conosciuta come Valle dei Templi, in cui si possono ammirare le rovine dei più suggestivi templi della Sicilia. Sicuramente la Valle dei Templi è una delle più importanti cose da vedere ad Agrigento. Dal 1997 Patrimonio dell’Umanità dall’Unesco, il Parco Valle dei Templi, istituito nel 2000, è uno dei più importanti e affascinanti siti turistici della Sicilia; qui si possono ammirare diversi templi greci, per lo più in stile dorico, datati intorno al V sec. a.C. Persino lo scrittore tedesco Goethe visitò la zona nel 1787 e, incantato dai resti lasciati dai coloni della magna grecia, ne descrisse la bellezza nel suo “Viaggio in Italia”.

Visitare la Valle dei Templi permette al turista di vedere non solo i templi di Agrigento, ma anche santuari dedicati a divinità ctonie (Demetra e Kore), il Giardino della Kolymbethra e alcune necropoli situate nelle vicinanze del parco archeologico:

  • Tempio della Concordia: è il meglio conservato tra i templi greci in Sicilia; costruito intorno al 430 a.C., divenne basilica cristiana nel 597 e fu rinforzato e modificato strutturalmente; nel 1748 fu restituito alla sua forma originale ed incantò Goethe grazie alle sue linee classiche e snelle.
  • Tempio di Hera Lacinia o Giunone: edificato intorno al 450 a.C., subì un incendio nel 406 a.C. e fu restaurato in epoca romana. Oggi si conserva il colonnato settentrionale con parte del fregio, mentre gli altri lati sono danneggiati; davanti alla facciata principale si trovano alcuni resti dell’altare.
  • Tempio di Eracle o Ercole: eretto intorno al 510 a.C. in stile dorico arcaico e dedicato al forzuto eroe greco, il cui culto era molto diffuso nelle antiche città greche, oggi mostra solo 9 colonne erette (in origine se ne contavano 38), tuttavia affascina ancora.
  • Tempio di Zeus: costruito come offerta per ringraziare il dio dopo la vittoria sui Cartaginesi nel 480 – 479 a.C., il tempio fu raso al suolo dal terremoto del 9 dicembre 1401. Oggi purtroppo restano solo le rovine di un edificio maestoso.
  • Tempio dei Dioscuri: innalzato verso la fine del V secolo a.C., danneggiato dai Cartaginesi, fu restaurato in epoca ellenistica, ma subì i danni di uno dei terremoti che squassarono la zona. Oggi restano erette solo 4 colonne, rialzate nella seconda metà dell’800.
  • Giardino della Kolymbethra: è una suggestiva area in cui si possono ammirare tra i resti archeologici anche una gran varietà di piante tipiche della macchia mediterranea.

Se ancora vi chiedete cosa vedere ad Agrigento, sappiate che la visita alla Valle dei Templi di Agrigento è senza dubbio immancabile, ma visitare Agrigento vuo dire anche fare un giro nel centro storico della città dove, oltre al Museo archeologico regionale (assolutamente da non perdere), vi si può ammirare la splendida cattedrale normanna o il convento di S.Spirito.


Siracusa e Ortigia

Sirakousai fu tra le prime colonie greche in Sicilia; secondo lo storico greco Tucidide la città fu fondata nel 734 a.C., da un gruppo di corinzi, i quali approdarono sull’isoletta di Ortigia, luogo in cui testimonianze archeologiche attestano la presenza di un nucleo abitativo risalente al XIV secolo a.C.. La colonia greca di Siracusa crebbe economicamente e politicamente in breve tempo. Siracusa ebbe numerosi tiranni, il più famoso dei quali fu Dionisio I, che prese il potere nel 405 a.C. e sviluppò la colonia greca come potenza militare (restano oggi i resti delle mura fortificate), e nel tempo la città crebbe di importanza.

Oggi Siracusa conserva resti che riguardano la Sicilia greca e monumenti risalenti alle altre dominazioni della Sicilia; inoltre la città è sede di uno dei più grandi e meglio conservati teatri greci in Sicilia, risalente al III secolo a.C.. Il teatro di Siracusa ancora oggi, tra maggio e giugno, è sede di una rassegna teatrale che ripropone opere teatrali greche e romane; inoltre esso si trova all’interno del Parco archeologico della Neapolis, un’area in cui è possibile visitare le latomie di Siracusa, un gruppo di cave da cui già in epoca greca si estraevano blocchi di calcare, famose soprattutto per la cava detta orecchio di Dionisio. Per chi ama la Magna Grecia è da visitare il Museo archeologico regionale “Paolo Orsi”.

Oltre ai resti greco-romani, Siracusa offre la possibilità di vedere monumenti risalenti alle diverse epoche, come il medievale Castello Maniace, alcuni palazzi e chiese sei-settecenteschi, il duomo, costruito su un tempio greco e modificato nel tempo. In conclusione, la città è certamente uno dei poli turistici più attrattivi della Sicilia. (Fonte: discovermessina.it/)


Il Tempio di Segesta

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Tempio di Segesta

Quando si contempla questo paesaggio semplice e suggestivo, si sente che lì, soltanto lì, si poteva costruire un tempio greco. I maestri decoratori che insegnarono l’arte all’umanità, dimostrarono, in Sicilia soprattutto, quale scienza profonda e raffinata essi avessero dell’effetto e della scena. Il tempio di Segesta sembra essere stato posto ai piedi della montagna da un uomo di genio che aveva avuto la rivelazione dell’unico punto in cui lo si doveva costruire: animando da solo l’immensità del paesaggio, che ne esce vivificato e divinamente bello”. Così scriveva Guy de Maupassant nel suo “Viaggio in Sicilia” (1885) dopo la visita a Segesta.

L’eccezionalità di questo luogo sta anche nel fatto che ancora oggi, caso più unico che raro in Sicilia e non solo, appare ai tanti che vi giungono così come appariva ai viaggiatori del Grand Tour. Tutta l’area è rimasta pressoché uguale: vaste colline destinate alla semina o al pascolo, modesti rilievi animati da pochi alberi. Poche le costruzioni recenti.
Già da lontano, percorrendo la strada statale o l’autostrada in direzione di Trapani, il tempio, isolato in mezzo ad un mare di colline, colpisce per la sua imponenza. Poi, una volta lasciata la macchina, quando si inizia a intravedere dietro le agavi, le ginestre e gli ulivi, mentre si sale, a piedi, per un largo sentiero, la suggestione è tale che si ha l’impressione che da un momento all’altro quelle colonne dovessero animarsi di gente di un popolo indigeno per certi versi ancora misterioso, gli Èlimi.

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Tempio di Segesta

Costruito al di fuori dell’area urbana, sui resti di una costruzione più antica, a partire dall’ultimo trentennio del V secolo a.C., il tempio si compone di un crepidoma (basamento) a gradini di circa 61 metri per 26 metri dove poggiano 36 massicce colonne (6 nei lati corti e 14 nei lati lunghi) alti circa 10 metri. Ogni colonna, distanziata dall’altra da uno spazio di circa 2 metri e 40, ha il diametro inferiore di circa 2 metri e quello superiore di circa 1 metro e 50. Le colonne sorreggono ancora tutto l’architrave, il fregio e i due timpani.

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Nella costruzione sono state adottate diverse raffinatezze come ad esempio la correzione ottica ottenuta mediante una leggera curvatura del basamento, accorgimento riscontrabile solo nel Partenone di Atene.
Secondo gli studiosi il tempio fu realizzato, su progetto di un abile architetto ateniese, da maestranze provenienti dalle vicine colonie con cui la città manteneva rapporti commerciali. La presenza di un tempio greco in una città èlima, così come le differenze con altri templi dorici e la mancanza di alcuni elementi, hanno fatto discutere gli studiosi, e continuano ad animare ancora oggi numerosi dibattiti, soprattutto in merito alla funzione svolta e ai motivi della costruzione.

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Alcuni sostengono che gli Èlimi abbiano voluto costruire un peristilio pseudo-templare, secondo i modi usati dai greci, per dare prestigio ad un luogo di culto indigeno, quindi volutamente lasciato scoperto. Ipotesi, questa, avvalorata dalla totale mancanza, tra il colonnato, della cella interna, elemento essenziale in un tempio greco e generalmente la prima parte ad essere costruita. Altri sostengono che si tratti di un tempio destinato ad un culto greco ma rimasto incompleto, forse a causa della guerra con Selinunte scoppiata nel 409 a.C., come lasciano supporre la mancanza delle scanalature sulle colonne e i perni di pietra nel basamento, generalmente usati per la messa in opera dei conci e rimossi alla fine dei lavori.
Al di là del fatto che si tratti di un tempio finito o meno, destinato ad un culto greco o indigeno, di certo c’è che è giunto a noi in un ottimo stato di conservazione e, nonostante gli oltre 2400 anni di vita, continua a meravigliare per l’imponenza, l’eleganza e le proporzioni armoniose.


Kamarina

La Sicilia era per i Greci “il nuovo Mondo”, una terra molto più fertile della Grecia, dove poter espandere e mettere a frutto il “modo di vivere” greco attraverso le arti della lirica, dell’epica, del teatro e della filosofia. Questi antichi popoli attribuirono alla Sicilia una certa sacralità misteriosa, per la presenza di ciclopi, esseri giganteschi e feroci. Tra il 597 e il 596 a.c. gli antichi greci dorici e corinzi fondarono Camarina (o Kamarina), in greco Καμαρίνα, il cui nome secondo Strabone significa “abitata dopo molta fatica”, colonia di Siracusa.

Kamarina, orgogliosa e indomita colonia greca, preferì essere distrutta più volte piuttosto che piegarsi al dominio della madrepatria Siracusa. Fu definitivamente saccheggiata dai Romani nel 258 a.C. che ne fecero un porto per i traffici con l’Africa e l’Egitto. Infine venne distrutta dagli Arabi nell’827 d.c. Dell’antica città, posta tra i due fiumi, l’Ippari e l’Onasis, si conservano parti delle mura arcaiche e la grande torre. Nel punto più alto della collina, i resti del Tempio dedicato ad Athena (Athenaion -risalente al V secolo a.C), in cui sono state ritrovate delle lamelle di ferro su cui venivano incisi i nomi degli abitanti che votavano nell’agorà. Infatti Kamarina conobbe, anche se pur per un breve periodo, la democrazia, cioè quella invenzione greca che permetteva a tutti gli uomini (escluso le donne e gli schiavi) di votare per partecipare alla vita della polis. Situata all’estremità sud-occidentale della collina, fra il tempio di Atena Poliade ed il porto, si estendel’agorà, i cui scavi non sono stati del tutto portati a termine. Risalgono all’età repubblicana i resti della “Casa dell’altare”, così detta per la struttura sacra posta al centro del cortile, attorno al quale sono disposti vari ambienti. Dagli scavi e dalle ricerche sono stati riportati alla luce anche lenecropoli camarinesi, fra le quali non si può non menzionare quella di “Passo marinaro”, le cui tombe sono databili tra la metà del secolo V ed il 258 a.C. Il mare di Camarina si è rivelato ricco di tesori nascosti in numerosi relitti: un bell’elmo corinzio in bronzo (VI-V sec. a.C.), un elmo attico-etrusco (IV sec. a.C.), un elegante portaprofumi in bronzo e smalto (II sec. d.C.), un “gruzzolo” di più di 1000 monete in bronzo (275 d.C.). Il museo archeologico presenta una vasta collezione di reperti archeologici e anfore la maggior parte delle quali utilizzate per seppellirvi bambini morti appena nati o in tenera età.


La Sicilia sotto i Romani

L’arrivo dei Romani in Sicilia coincide con l’inizio della prima guerra punica (264-241 a.C.) che pose l’una contro l’altra le due maggiori potenze dell’epoca: Roma e Cartagine. Dopo 24 anni di alterne vicende e di scontri sanguinosi tra le forze terrestri e navali delle città rivali, venne finalmente stipulata la pace ed i Cartaginesi furono pertanto costretti ad abbandonare definitivamente l’isola.
Perché i Romani vennero in Sicilia? Il prof. Santi Correnti dell’Università di Catania, nel saggio su Roma e la Sicilia apparso nel 1992 sulla Rivista Storica Siciliana, scrive che «i motivi furono tre, ed ebbero carattere politico, economico e strategico. Per il motivo politico, era fatale che il duello imperialistico, ingaggiatosi per la supremazia nel Mediterraneo, si risolvesse proprio in Sicilia, data la determinante posizione geopolitica dell’isola; per il motivo economico, Roma aveva bisogno di assicurarsi il vettovagliamento sia per le sue truppe eternamente in guerra, sia per la popolazione continuamente in crescita; e, per il motivo strategico, la Sicilia costituiva per Roma la testa di ponte ideale per la conquista dell’Africa, come aveva già dimostrato la vittoriosa spedizione militare ivi condotta dal siciliano Agatocle nel 310 a.C.».

La Sicilia crocevia delle Civiltà Mediterranee

Al termine delle operazioni belliche, la Sicilia divenne la prima provincia del dominio romano; la conquista territoriale da parte dei Romani giunse però a compimento soltanto nel 212 a.C. con la presa di Siracusa.
Le condizioni economiche dell’Isola erano comunque peggiorate. Il perdurante malessere degli isolani ebbe tra le altre conseguenze anche quella dell’esplodere di rivolte servili, per rivendicazioni di carattere sociale ed autonomistico, come quella dello schiavo Euno ad Enna, che mobilitando la sua gente riuscì ad impadronirsi per breve tempo quasi dell’intera Sicilia proclamandosi re con il nome di Antioco ma, catturato dal console romano P. Rutilio, venne ucciso mentre tentava la fuga.
Fatta eccezione per poche comunità urbane, i Siciliani vennero di frequente trattati non da alleati ma da sudditi veri e propri, obbligati a pagare un tributo annuale in grano e costretti ad obbedire. Durante il periodo repubblicano romano, tutte le città siciliane godevano, ciò malgrado, di una qualche autonomia pur diversificandosi tra loro per tipo di organizzazione amministrativa.

Villa del Casale, Piazza Armerina, particolare mosaico

Come struttura economica si impose il latifondo (ingentia rura); quella del frumento era la coltivazione principale e ciò rese l’isola il più ricco dei granai di Roma e ne fece una delle sue province più importanti. In Sicilia furono apportati miglioramenti alle strade interne di comunicazione e alle arterie più rilevanti: un esempio è la via consolare Valeria che congiungeva Messina a Siracusa, in uso fino al XIX secolo. Fu la spina dorsale del versante ionico della Sicilia.

Villa romana del Casale, mosaici, le ragazze in bikini

Poco numerose le costruzioni di origine romana tra quelle realizzate durante il periodo ellenistico e conservatesi fino ai nostri giorni; fa eccezione la “Villa del Casale” a Piazza Armerina, ricca di meravigliosi mosaici originali per contenuto. Ma altre splendide residenze dell’epoca si contano a Marsala, a Patti e nel Siracusano. Nel 535 d.C. si conclude in Sicilia, con il sopraggiungere dei Bizantini, la lunga dominazione romana, protrattasi per circa un millennio dal III secolo a. C. al VI secolo d.C. – (Fonte: www.arkeomania.com)

I luoghi di Federico II “Stupor Mundi”

di Gianni Rapetti

È stato un personaggio controverso, come tutti i grandi autocrati della storia, sempre pronto ad afferrare il proprio destino a mani nude. Amato da pochi, temuto dagli altri, sia nemici che amici, Federico era il protagonista indiscusso del suo tempo, al punto da meritarsi l’appellativo di Stupor Mundi. Visitiamo, in rapida carrellata, alcuni luoghi teatri di momenti significativi di questa straordinaria esistenza.   Iesi Il piccolo, ma ben fortificato, comune marchigiano è in subbuglio in quel dicembre 1194. L’imperatrice Costanza è giunta in città e, come se non bastasse, sta per concludere una faticosa gravidanza, evento eccezionale per una donna della sua età: a quarant’anni, nel XII secolo, si è già “vecchi”. I coscienziosi iesini cercano di fornire l’augusta partoriente di tutti gli agi possibili e pregano per una felice conclusione del parto. Sanno bene che l’imperatore Enrico VI sta aspettando ancora un erede dopo nove anni di matrimonio, e temono, in caso di inconvenienti, di attirare sulla città l’ira imperiale del figlio di un certo Federico Barbarossa, ben noto come Enrico il Crudele.

Nascita di Federico a Jesi

La piazza del mercato di Iesi viene sgombrata per far posto ad una grande tenda sotto la quale prende alloggio Costanza. Il 26 dicembre, giorno di S.Stefano, l’imperatrice dà alla luce un maschio che vorrebbe chiamare Costantino, in omaggio alla raffinata cultura bizantina adottata dalla sua famiglia: i normanni Altavilla, signori del Meridione d’Italia da quasi due secoli. Nasce così, alla maniera dei khan mongoli o dei re goti, il futuro imperatore, proprio mentre sta per giungere la notizia dell’incoronazione a re di Sicilia di suo padre Enrico avvenuta il giorno prima, Natale, nel Duomo di Palermo. Il rude Enrico preferisce un nome più teutonico per il suo primogenito: così lo fa battezzare Federico Ruggero, in omaggio ai nonni Federico Barbarossa e Ruggero II d’Altavilla. Ma la strada per ripercorrere le gesta di questi gloriosi avi è molto lunga: Enrico VI muore di febbri maligne il 28 settembre 1197 a Messina, lasciando pochi rimpianti e un piccolo erede “agnello fra i lupi”.  

Palazzo dei Normanni, Cappella Palatina

Palermo – Molti sono coloro che si offrirebbero come tutori del piccolo orfano, e non certo per carità cristiana. I più interessati sono i nobili tedeschi, già scesi in Sicilia al seguito di Enrico VI. Ma anche il papa, Innocenzo III, grande fautore della superiorità della Chiesa su ogni potere secolare, mostra interesse per l’educazione del piccolo Federico. Costanza, troppo lontana culturalmente dai rozzi baroni germanici, sceglie l’alleanza con il pontefice. E con la sua preziosa benedizione, un bimbo di nemmeno 4 anni viene incoronato re di Sicilia nel Duomo di Palermo: è il giorno di Pentecoste del 1198. È l’ultimo atto politico di Costanza che muore pochi mesi dopo. Innocenzo, del quale il re di Sicilia è vassallo, nomina un collegio di vescovi quali reggenti in attesa della maggiore età del piccolo monarca. A Palermo Federico vive una triste infanzia quasi prigioniero nel castello di Maredolce. La leggenda vuole che il re bambino sfugga, di tanto in tanto, ai suoi tutori per scorrazzare con i monelli nelle strade della città. Il contatto con l’ambiente palermitano, caratterizzato dalla coesistenza di tre culture, l’occidentale cristiana, la bizantina e l’araba, sarà decisivo nella formazione di Federico. In un clima reso fosco dai continui intrighi e dalle lotte che lo vedono pedina inerme nelle mani dei potenti, Federico diventa direttamente adulto. A quattordici anni viene proclamato maggiorenne. Otto mesi dopo sposa Costanza, figlia del re d’Aragona, vedova ventiquattrenne del re d’Ungheria.  

Aquisgrana – La Cappella Palatina nell’antica capitale di Carlomagno è il miraggio di ogni aspirante alla corona imperiale. Federico vi entra da trionfatore nel luglio 1215. ma la regia dell’operazione è, ancora una volta, del pontefice. Innocenzo III ha, dapprima, sponsorizzato l’ascesa al trono imperiale del mediocre Ottone di Brunswick, pensando di poterlo tenere agevolmente sotto controllo. Tuttavia, quando Ottone si cala troppo diligentemente nel ruolo di imperatore e comincia ad occuparsi di politica italiana, Innocenzo non esita a scomunicarlo, a contrapporgli il giovane Federico come candidato all’Impero, e a scatenargli contro il re di Francia, Filippo Augusto. Quest’ultima si rivela la mossa decisiva. I cavalieri francesi sbaragliano quelli tedeschi a Bouvines, il 27 luglio 1214. È un gran giorno per la Francia e per il giovane Hohenstaufen. La sera stessa, Filippo Augusto invia a Federico l’aquila dorata rinvenuta dai suoi uomini tra i resti della tenda di Ottone, abbandonata dagli imperiali in rotta. Un anno dopo, dicevamo, Federico è ad Aquisgrana, sul punto di essere incoronato Re dei Romani, ultimo diaframma che lo separa dal titolo imperiale. Nella penombra della cripta sotto la Cappella Palatina, prende parte ad una cerimonia di alto valore simbolico. Davanti a pochi eletti, la salma del primo imperatore, Carlomagno, viene riesumata e i “sacri” resti traslati in un’urna d’argento riccamente decorata con le figure degli Apostoli. Lo stesso Federico sigilla la preziosa tomba. Al termine del rito, risaliti nella cappella, ha luogo l’incoronazione. Sigfrido, legato del pontefice e arcivescovo di Magonza, pone sul capo di Federico il diadema regale. Alla fine dell’incoronazione un piccolo fuori programma: il giovane re strappa la croce dalle mani dell’attonito arcivescovo e promette solennemente di recarsi in Terra Santa da crociato, continuando l’impresa che il nonno Barbarossa aveva abbandonato annegando in Cilicia, sulla strada per Gerusalemme, 25 anni prima. Chi immaginava il nuovo imperatore come un giovane inesperto e indeciso, in primis papa Innocenzo, è servito.

Napoli – Uomo di grande cultura e di vasti interessi, Federico è sensibile al problema dell’istruzione. Avverte la mancanza in Italia meridionale di una struttura universitaria in grado di competere con quelle del nord Italia e del resto d’Europa. Uno spirito moderno sta alla base della decisione di fondare un’università: i migliori cervelli del regno devono formarsi al suo interno e, soprattutto, fuori dall’ala protettiva della Chiesa che, all’epoca, deteneva il monopolio sull’istruzione. Un’istruzione laica, come profondamente laico è Federico. Il luogo scelto è Napoli, “dove i costumi sono per tutti benevoli e dove esiste facilità di trasporti, per terra e per mare, di tutto il necessario alla vita degli uomini”. La vicinanza con la celebre Scuola Medica di Salerno è un ulteriore vantaggio. Nell’atto di fondazione (riportato nella Chronica di Riccardo di San Germano), stilato a Siracusa in data 5 giugno 1224 e indirizzato a tutte le autorità civili e religiose del Regno di Sicilia, Federico promette agli studenti condizioni vantaggiose: presenza di tutte le discipline e di famosi magistri (il latinista Anello da Gaeta, il filosofo Arnaldo Catalano, i giuristi Benedetto d’Isernia e Roffredo di Benevento), convenzioni con gli alberghi per “una pensione di due once d’oro senz’altri carichi”, prestito dei libri di testo. Il freddo Federico si abbandona anche a considerazioni paterne: la presenza di un’università nel regno libera i giovani dalle insidie di lunghi viaggi all’estero e li mantiene “sotto gli occhi dei loro genitori”, aspetto non secondario vista la “vivacità” degli ambienti studenteschi di quel tempo. Per tutti questi motivi, l’imperatore intima “sotto pena delle persone e delle cose, che nessuno osi uscire dal Regno per motivi di studio né che entro i confini del Regno osi apprendere o insegnare altrove”. Quello di Napoli rappresenta il primo tentativo di contrapporre all’istruzione gestita dagli ordini monastici un’istruzione laica. Laica, ma non atea: San Tomaso d’Aquino, Padre della Chiesa, studia proprio nell’ateneo napoletano.  

Acri – E’ l’ultimo avamposto della Cristianità rimasto in Terrasanta all’inizio del Duecento. Gli Arabi potrebbero spazzare via facilmente questa fragile testa di ponte crociata. Non sono trattenuti da spirito di tolleranza o dalla possente cinta muraria, ma dalla presenza dei mercanti veneziani, pisani e genovesi: gli unici infedeli con i quali riescono ad intendersi perfettamente. Almeno finché non conoscono il “re dei principi”. Federico salpa da Brindisi il 28 giugno 1228 con cinque navi. La moglie bambina (14 anni) Jolanda di Brienne, morendo gli ha lasciato due doni: un figlio maschio, Corrado, e il titolo di re di Gerusalemme, appartenuto al padre di lei, Giovanni. Caso unico nella storia delle Crociate, Federico sbarca ad Acri macchiato dalla scomunica inflittagli da papa Gregorio IX per aver ritardato eccessivamente la partenza. L’imperatore non sembra avere intenzioni molto bellicose nei confronti degli arabi che ammira. Anzi, viene subito contattato dal sultano Malik al-Kamil, bisognoso di alleati per contrastare il fratello, Malik al-Mu’azzam. Federico pensa, invece, di sfruttare questa situazione per trovare un compromesso diplomatico che gli consenta di adempiere al voto di crociata senza combattere. Le trattative tra i due vanno avanti fino alla fine dell’anno. Nel febbraio 1229 viene firmato un accordo. Federico ottiene la città di Gerusalemme senza colpo ferire, a patto che le mura vengano smantellate e che le moschee sacre restino in mani musulmane. I cristiani avranno libertà di accesso dal mare lungo una via protetta dal possesso di alcuni villaggi dal nome insignificante per gli islamici: Nazareth e Betlemme. Il tutto per un periodo, rinnovabile, di dieci anni. I falchi dalle due parti inorridiscono, è inconcepibile venire a patti con l’infedele. Per i nemici cristiani di Federico l’ulteriore conferma di trovarsi di fronte all’Anticristo. E chissà come reagirebbero se conoscessero gli episodi che fonti arabe riportano riguardo al pellegrinaggio dell’imperatore a Gerusalemme, intrapreso subito dopo la firma della tregua, con il beneplacito del sultano e la scorta dei fedeli Cavalieri Teutonici. Mentre visita la moschea di al-Aqsa, vede un prete cristiano che tenta di entrare con il Vangelo in mano e lo scaccia violentemente: “Cosa ti ha condotto qui? Se uno di voi torna a entrar più qui senza permesso, gli caverò gli occhi!”. Il mattino dopo, il “Re dei Franchi”, come lo chiamano gli arabi, si lamenta con il funzionario del sultano che attende al suo soggiorno perché questi ha ordinato di sospendere la preghiera serale del muezzin come riguardo per l’ospite cristiano. “Il mio maggiore scopo nel pernottare a Gerusalemme era di sentire l’appello alla preghiera dei muezzin e la loro lode a Dio durante la notte” è la spiegazione di Federico. Curiosamente il giudizio dei musulmani sullo Stupor Mundi coincide con quello dei cristiani: “… era evidente dai suoi discorsi che era un materialista, che del Cristianesimo si faceva semplice gioco”1. Il pellegrinaggio nella Città Santa dura un paio di giorni. Federico riparte il 25 marzo 1229 per Acri: ben altri problemi lo attendono in Italia.  

Melfi – Il problema principale per un monarca medievale è personificato dai baroni. Per costoro il re è un primus inter pares e si comportano di conseguenza. La fedeltà alla corona è sempre condizionata da qualche contropartita. Ogni barone, infine, è re nelle proprie terre, costituendo un vero e proprio stato nello stato, con leggi e consuetudini autonome. La grande questione del Basso Medioevo sarà la lotta intrapresa dai monarchi europei per concentrare tutto il potere nelle proprie mani, eliminando le giurisdizioni indipendenti, sia feudali che comunali, condizione necessaria per l’evolversi verso uno stato moderno. Alcuni sovrani usano un mezzo indiretto: i tribunali regi i quali, contrapposti a quelli addomesticati dal signorotto locale, garantiscono l’applicazione di norme uniformi in tutto il regno. Questo sistema viene adottato in Francia e Inghilterra, dove il re non ha la forza di sopportare uno scontro aperto con i potenti vassalli. Ma Federico è l’imperatore, non un primus inter pares, nessun potere è superiore al suo. A Melfi, nel settembre 1231, promulga il Liber o Lex Augustalis, una raccolta di leggi che passerà alla storia con il nome della città lucana. Le 217 norme, o costituzioni, sono frutto di due soli mesi di lavoro di una commissione presieduta da Pietro delle Vigne, il fidato Gran Cancelliere dell’imperatore. Questo corpo legislativo rappresenta una svolta nella cultura giuridica europea, finora ispirata al diritto feudale di origine barbarica e al diritto canonico della Chiesa. Il Liber è il primo codice medievale ispirato esplicitamente ai principi del diritto romano, in particolare quello di età imperiale. L’ammirazione per la civiltà romana, coltivata negli ambienti della laica corte federiciana, è una novità nel panorama culturale dell’Europa medievale, decisa nel denigrare i mondi non cristiani. Federico invidia il potere assoluto e divino degli imperatori romani e giunge a farsi ritrarre sulle monete auree, che chiama significativamente augustali, abbigliato come un antico Cesare. Lo scopo delle costituzioni di Melfi è quello di imbrigliare il potere dei baroni del regno. Anche qui la strada percorsa è quella della normalizzazione della procedura giudiziaria. Vi si trovano norme che tutelano la libertà personale, anche quella dei servi della gleba, e che permettono ai vassalli minori di appellarsi al re contro i baroni. Decreti aggiuntivi del 1233 concedono ai rappresentanti delle città di sedere nei parlamenti accanto a nobili e clero. Il disegno è chiaro: far crescere una classe borghese che bilanci l’influenza dell’aristocrazia e dell’alto clero e dia luogo ad uno sviluppo economico pari a quello dell’Italia settentrionale. Federico sembra indirizzato verso un liberismo ante litteram quando riduce le barriere doganali interne o quando favorisce le attività dei mercanti, anche se provenienti da città nemiche come Genova e Venezia. La politica economica federiciana avrebbe successo se la pressione fiscale non crescesse di continuo. Aumentano le spese per mantenere un fidato esercito mercenario, che riduca la forza militare della nobiltà, e un apparato burocratico efficiente. Lo stato diventa il primo soggetto economico del regno: detiene ricchi monopoli (sale, ferro, seta, macellazione, trasporti, cambio valute) e possiede grandi estensioni di terra. Secondo alcuni storici il fisco federiciano affosserà lo sviluppo del capitalismo, con conseguenze definitive per l’economia del Mezzogiorno. La Lex Augustalis sembra ispirata da idee avanzate: abolizione delle ordalie nei processi, apertura di procedimenti penali d’ufficio per taluni reati gravi, non punibilità dei minori, riconoscimento dei diritti della donna nelle successioni. Ma non bisogna farsi ingannare. Rimangono in vigore tortura e pene corporali durissime. Federico cerca unicamente il potere assoluto, limitando i diritti politici delle classi sociali in grado di ostacolarlo.  

Castel del Monte – I limiti organizzativi di uno stato feudale non consentono al sovrano di risiedere stabilmente in una capitale. Il re e la sua corte si spostano continuamente da un luogo all’altro del regno sia per ribadire l’autorità regia, sia per consumare in loco le risorse del territorio destinate alla corona come tributi. Federico ama talmente la Puglia da sentirsene figlio: Puer Apuliae è un’altro dei suoi numerosi appellativi. Federico fa costruire diverse residenze in Puglia dopo il 1230. Un palazzo sorge a Gioia del Colle su un preesistente castello normanno, fortezze a Lucera e Barletta, castelli a Foggia, Conversano, Altamura, Minervino Murge, Lagopesole e Fiorentino. Castel del Monte, a pochi chilometri da Andria, rimane l’esempio più affascinante dell’architettura federiciana. Costruito su una collina che domina il paesaggio delle Murge, tutto ulivi e viti, nasce come casino di caccia, probabilmente intorno al 1240. L’edificio è un ottagono perfetto, circondato da 8 torri, una per vertice, anch’esse ottagonali, fusione armonica di elementi gotici, romanici, bizantini, arabi e dell’architettura militare crociata. Vi si accede attraverso un portale maestoso, capolavoro nel capolavoro, che immette nel cortile interno. Ognuno dei due piani del castello comprende otto stanze di dimensioni uguali, una per lato, tutte con il soffitto a volta. Nelle torri trovano posto soldati, falconieri e, in apposite stanze, gli amati rapaci dell’imperatore. La camera preferita da Federico è quella posta al secondo piano in corrispondenza del portale: da lì può scorgere in lontananza il mare, e ammirare i falconi che volteggiano intorno al castello in attesa della caccia. La corte itinerante dello Stupor Mundi impressiona i contemporanei con il suo esotismo. Attratto dalla cultura araba, ancora fortemente radicata in Sicilia, Federico, come un califfo, si circonda di un serraglio di animali esotici e di un harem, intorno al quale fioriscono maliziose leggende. La corte è anche luogo di elaborazione di una raffinata produzione poetica, la prima di un certo rilievo scritta in lingua volgare italiana. Il poliedrico imperatore si interessa anche di filosofia, anche se in modo piuttosto superficiale. Viene attratto da quesiti quali la distanza tra cielo e terra, o l’esatta ubicazione dell’Inferno. Per risolvere questi interrogativi indirizza questionari a noti maestri di filosofia, a Michele Scoto, il filosofo-astrologo di corte, e perfino a dotti arabi. Ma è la scienza la grande passione di Federico. Anche in questo caso è determinante l’influenza della cultura araba, all’epoca molto più avanzata di quella europea in campo scientifico. Da vero laico razionalista, praticamente un ateo per i contemporanei, non si accontenta delle vaghe spiegazioni della scienza cristiana che tende a liquidare i fenomeni naturali incomprensibili come interventi divini o demoniaci. Un’innata curiosità, e la mancanza di scrupoli di qualche scienziato di corte, lo portano a cercare risposte scientifiche attraverso la sperimentazione diretta, procedimento lodevole se non fosse per l’uso, un po’ troppo frequente, di cavie umane, ricordato con raccapriccio dai cronisti.

Castel del Monte disegnato nel 1837 dall’architetto francese Victor Baltard

Tipica espressione della cultura feudale è l’attività venatoria. Viene praticata dall’aristocrazia come sublime esercizio in preparazione alla guerra. La caccia dei nobili si distingue da quella praticata dai plebei per il rapporto cavalleresco che viene instaurato con la preda: il cacciatore aristocratico aborrisce trappole, reti e altri sistemi subdoli di cattura. In questa visione paritetica di cacciatore e cacciato, la falconeria, ove il confronto avviene tra due animali, è la più nobile tra le specialità venatorie. Federico ne è un vero cultore. Il suo falconiere Rinaldo d’Aquino è uno dei personaggi più importanti della corte. La passione per i rapaci e l’esperienza accumulata durante le battute nelle campagne pugliesi, vengono riversate da Federico in una celebre opera, il De arte venandi cum avibus, l’Arte di cacciare con gli uccelli, della quale si conserva uno splendido esemplare miniato alla Biblioteca Apostolica Vaticana. Nei 6 volumi che la compongono, oltre alle nozioni per l’addestramento dei rapaci alla pratica venatoria, lo Stupor Mundi descrive minuziosamente le diverse specie di uccelli, comprese abitudini e fisiologia. Insomma un vero e proprio trattato di storia naturale che testimonia il grande amore che Federico, deluso dagli uomini, nutre per la Natura.  

  • Fonte: tratto da www.stupormundi.it/

Sulle orme di Federico II di Svevia, Stupor mundi

La Real Casa di Svevia

RAMO CALABRIA CILENTO de HAUTEVILLE SVEVIA – V DINASTIA, RAMO CALABRIA CILENTO de HAUTEVILLE: Sua Altezza Imperiale e Reale il Principe Dom ANTONIO FRANCESCO CALABRIA CILENTO de HAUTEVILLE, Principe di Antiochia, Principe di Gerusalemme, Principe di Cipro e di Armenia Antica, Principe del Sacro Romano Impero di Germania, Principe della Stiria Superiore, Capo della Real Casa Hohenstaufen – Svevia, Sovrano Gran Maestro Ereditario per Naturale Successione Jure Sanguinis di Diritto e per Chiamata Generale Gran Maestro


Le isole minori della Sicilia

Pantelleria, dagli arabi al Regno di Sicilia

di Enzo Bonomo

Ci fu un tempo in cui la nostra Pantelleria fece parte di emirati musulmani, prima ancora del resto della Sicilia, quando le isole Pelagie erano ancora pressoché disabitate. L’occupazione da parte degli arabi musulmani avvenne intorno all’800 dopo Cristo, e avvenne strappando l’isola all’impero romano d’oriente, e cioè Bisanzio, quando l’isola costituiva ancora una diocesi della chiesa cristiana greco-ortodossa.
La popolazione di allora venne trucidata o convertita forzatamente all’Islam.

Dobbiamo molto anche agli arabi, per l’agricoltura (zibibbo e cotone) e per la toponomastica (il nome dei luoghi), oltreché per il lessico. tantissime parole, ancora oggi, del dialetto pantesco hanno un etimo, ovvero un’origine, dall’arabo magrebino (cioè del Nord Africa).
Ma certamente per gli abitanti di antica origine cristiana del tempo non fu un bel vivere, costretti com’erano a vivere da sudditi e a pagare una speciale tassa solo per potere mantenere la propria fede.

Ruggero I di Sicilia

La riconquista cristiana, come sappiamo, avvenne ad opera del Normanni di Sicilia, negli ultimi anni dell’undicesimo secolo, quando lo sforzo di riconquista segnò importanti passi sia nella penisola iberica (Spagna e Portogallo) sia nell’arcipelago siciliano (Sicilia, Ustica, Eolie, Egadi, Malta e Gozo). All’opera di riconquista parteciparono anche le flotte delle repubbliche marinare italiane, in particolare Genova, e, secondo qualche autore, anche Pisa, le cui incursioni erano spesso avvenute anche in precedenza. I Normanni, per presidiare il nuovo dominio costruirono una torre e un grande castello, oltreché una cinta muraria difensiva intorno al piccolo abitato (che aveva allora il nome di Oppidolo, ovvero piccola città o meglio paese. Era l’unico luogo in cui si potesse vivere con un minimo di quiete, sicurezza e tranquillità, anche per la presenza di pozzi e buvire, senza temere troppo attacchi allo scoperto da parte di pirati barbareschi e nemici. In questa località di svolgevano le varie attività e si tornava la sera per trascorrere la notte dopo avere svolto dei lavori nella campagna circostante.

Così si spiega l’espressione “iri n’casa” per significare l’andare in paese, tipica degli abitanti delle contrade. La “casa” era lì, e solo lì. Si venne quindi a fare parte del Regno di Sicilia, in quel momento lo stato più “moderno” dell’Europa cristiana, il più avanzato dal punto di vista istituzionale, e fra i più ricchi e forti.

(Prima parte)

Nell’immagine Ruggero I di Sicilia, conosciuto anche come il Gran Conte Ruggero (Hauteville-la-Guichard, 1031 circa – Mileto, 22 giugno 1101), figlio di Tancredi d’Altavilla e fratello di Roberto il Guiscardo della dinastia degli Altavilla, Conte di Calabria, fu il conquistatore e il primo Conte di Sicilia (1062).