Situazioni in atto

LIMES – Rivista Italiana di Geopolitica – Un interessante dibattito sulla guerra – Mappa Mundi

UCRAINA, SCENARI DI GUERRA – Agosto 2023






CRISI GEOPOLITICA E SICUREZZA AREA MEDITERRANEA ORIENTALE

Agosto 2021





Iniziati i colloqui sulla Libia a Tunisi: possiamo essere positivi?

di Filippo Sardella, Istituto Analisi Relazioni Internazionali

I due Paesi hanno ristabilito le relazioni dopo anni di allontanamento. L’obiettivo è quello di sottrarre l’Iraq dall’influenza del rivale iraniano.

L’ Arabia Saudita e l’Iraq hanno deciso di continuare il loro percorso nel rafforzamento delle relazioni diplomatiche, decisione sottolineata dalla chiamata che il principe bin Salman ha effettuato verso il primo ministro iracheno al-Khadimi. Non la prima telefonata di questo tipo, poiché l’avvicinamento tra i due Paesi è in atto da alcuni anni ed è stato accellerato dall’elezione di al-Khadimi a maggio, il quale ha favorito la costruzione di cooperazione e di mutua fiducia per Paesi che nel passato sono stati rivali.

L’Arabia Saudita ha interrotto i suoi rapporti con l’Iraq nel 1990, a seguito della decisione di Saddam Hussein di invadere il Kuwait, dando il via alla prima guerra del Golfo. Nel 2016, i due Paesi hanno ristabilito le relazioni dopo anni di allontanamento e la monarchia saudita ha riaperto la sua ambasciata a Baghdad.
Attualmente, l’obiettivo è quello di sottrarre l’Iraq dall’influenza del rivale iraniano attraverso il rafforzamento delle relazioni economiche, sull’onda della politica di massima pressione ed isolamento internazionale perpetuata dagli Stati Uniti verso quello che un tempo sembrava essere il vincitore della cosiddetta “nuova guerra fredda” in Medio Oriente.

L’Iraq post-2003, privo di partner arabi, è stato completamente dipendente dal vicino Iran in vari ambiti, dalla sicurezza, al commercio fino al supporto energetico. Questo ha trasformato Teheran in un attore di primo ordine nella politica irachena, influenza esercitata grazie soprattutto alle molteplici milizie sciite sparse nel territorio, che, in alcuni casi, rispondono direttamente alla Repubblica Islamica e che hanno esacerbato le divisioni settarie e la violenza politica di cui l’Iraq è vittima, oltre a costituire un ingombrante ostacolo alla sicurezza nazionale.

Il rafforzamento delle relazioni con l’Arabia Saudita e le monarchie del Golfo, sulla base di interessi comuni, potrebbe rappresentare un’occasione per l’Iraq di ridurre la sua dipendenza da Teheran, ma anche un’occasione per rivitalizzare l’economia irachena, interessata da molteplici crisi.
Si spera, pertanto, che questo avvicinamento potrà garantire maggiore stabilità al Paese iracheno, che rischiava di diventare, soltanto pochi mesi fa, il teatro di uno scontro tra Stati Uniti ed Iran. Al-Khadimi sembra essere l’uomo giusto per salvare l’Iraq, sebbene sia imprudente attribuire aspettative troppo alte ad un solo uomo, in carica per un tempo ridotto. Numerosi problemi devono essere affrontati, tra cui quello della corruzione, ma le relazioni con Riyad potrebbero costituire un passo significativo verso la sovranità irachena, a lungo ostacolata.

Fonte: Filippo Sardella | 12 novembre 2020 alle 20:51 | Categorie: DAILY, MEDIO ORIENTE DAILY | URL: https://wp.me/pb3xiC-5uB


Libano e Israele: un accordo di contenimento geopolitico

di Filippo Sardella, Istituto Analisi Relazioni Internazionali

Gli Stati Uniti mediano i colloqui fra Libano ed Israele, per la risoluzione di una disputa ormai quasi decennale sui confini marittimi. Obiettivo: fare di Israele il centro regionale, escludendo Iran, Russia e Turchia, giocando la partita del gas.

Il 14 Ottobre hanno avuto inizio i colloqui, mediati dagli Stati Uniti, fra Israele e Libano per una possibile risoluzione della disputa sui confini marittimi, che ha rischiato per anni di far infiammare una situazione politico-militare già fortemente instabile. I due paesi, infatti, sono formalmente in guerra e, a detta degli stessi rappresentanti di governo, neanche questo nuovo storico passo in avanti ha segnato la fine della guerra e delle ostilità. I colloqui si sono svolti a Naqoura, in una base UNIFIL, poco distante la Linea Blu che divide i due Stati, località scelta appositamente dagli statunitensi che, di fatto, guidano i negoziati e potenzialmente ne tracciano le trame. Perché in gioco c’è molto più di una semplice disputa di confine fra una potenza nucleare ed un Paese ormai al collasso: c’è in ballo l’equilibrio di potenza in tutto il Mediterraneo orientale.

I recenti ritrovamenti di riserve di gas nel Mediterraneo, oltre ad aver innescato un inasprimento delle relazioni fra Israele e Libano, hanno infatti favorito la corsa di tutti gli Stati rivieraschi, consci che nel prossimo futuro sarà la transizione energetica il vero carburante delle relazioni internazionali. Ciò potrebbe, potenzialmente, portare ad uno stato di totale anarchia e a confitti ingiustificati, soprattutto agli occhi di Washington. Israele, nel frattempo, è diventato anche esportatore di gas per la Giordania e l’Egitto, precognizione dei reali interessi alla base dell’accordo che va delineandosi da parte americana, oltre altre tre importanti ragioni.

Anzitutto, favorendo una nuova immagine ed una nuova politica energetica di Israele, gli States mirano ad arginare nuovamente l’Iran, colpendola al cuore non solo della propria potenza economica, ma anche politico-culturale, se pensiamo ad Hezbollah ed altri gruppi sciiti che popolano il Libano e che non hanno potuto esercitare un’eccessiva pressione. Sulla scia di questo nuovo futuro ruolo di Israele, quale esportatore di gas, gli Stati Uniti hanno caldeggiato la realizzazione della neonata organizzazione internazionale East Med Gas Forum: obiettivo principale, allentare la morsa russa del gas sull’Europa, favorendo una maggiore diversificazione d’approvvigionamento energetico per l’Unione. Altro Paese che ne esce ancor più isolato è la Turchia, che spera ancora in una lenta penetrazione economico-militare nel Paese dei cedri, soprattutto a seguito dell’esplosione del Porto di Beirut. In qualche modo, ora, Ankara ha subito una battuta d’arresto, soprattutto perché non fa parte dell’East Med Gas Forum.

Non v’è dubbio che dai colloqui, che seguiranno il 28 ottobre, Israele ne esca rafforzata nell’immagine e nelle potenzialità di sviluppo di questa fonte energetica importantissima per i prossimi trent’anni.  Il Libano, da parte sua, non ne uscirà vincitore come Tel Aviv, ma certamente potrà sentirsi sollevato economicamente: un passo in avanti verso Israele significa fiducia dei mercati, significa fiducia per le grandi organizzazioni economico-finanziarie, significa fiducia da parte delle grandi potenze che di fatto vogliono controllare direttamente l’area (nominalmente le più grandi in sede ONU Stati Uniti, Francia e Gran Bretagna), significa anche ritrovare uno spazio per esercitare direttamente la propria sovranità.

22/10/2020 – Fonte: https://wp.me/pb3xiC-52rFonte:


Fathi Bashagha

LIBIA: non è un paese per Libici

di Filippo Sardella, Istituto Analisi Relazioni Internazionali

È un continuo vortice geopolitico quello che interessa la Libia contemporanea, spezzettato ricordo dello Stato sovrano dei tempi di Muammar Gheddafi, suo ultimo quarantennale leader. Il vento forte delle primavere arabe del 2011, che conclusero brutalmente l’epoca del rais di Sirte, ha fatto sprofondare la nazione libica in una apparentemente perpetua anarchia. La sua composizione territoriale era già marcatamente frammentata durante i decenni del potere Gheddafi, che nonostante l’identità clanica e tribale della società libica, era riuscito a fare sintesi fra le principali aree del paese: Tripolitania a nord-ovest , Cirenaica a est, Fezzan a sud-ovest.
La mappa sia geografica che politica della Libia di oggi, invece, ricalca solo formalmente le divisioni amministrative e concettuali della Libia del decennio scorso.
Sempre più, inoltre, risulta chiaro come i fili del paese siano manovrati dall’esterno. Le principali istituzioni, sia quelle riconosciute dalla comunità internazionale come il governo di Tripoli, sia l’autoproclamato governo di Tobruck, hanno subito nelle ultime settimane non pochi stravolgimenti dei quali è facile pensare siano eterodiretti dalle potenze straniere che vigilano costantemente su quella porzione di Maghreb.

Il GNA tripolitano, il cosiddetto governo di accordo nazionale, ha deciso di riportare al suo incarico “originale” l’ormai ex Ministro degli Interni Fathi Bashagha.
Dopo aver annunciato la sua sospensione la scorsa settimana a seguito delle proteste contro la corruzione e le cattive condizioni di vita in cui versa la popolazione, in un post su Facebook il GNA ha annunciato che il Primo ministro Fayez al-Sarraj aveva “revocato la sospensione temporanea” di Bashagha, e che sarebbe tornato al suo ruolo lo stesso giorno. 

Fortemente delegittimato dagli insuccessi strategico-militari è invece Khalifa Haftar, il deus ex machina della parte est. I due schieramenti sono però le proiezioni di appetiti di cancellerie estere, rispettivamente di Turchia e Qatar e di Russia e Emirati Arabi Uniti. La conseguenza è che, nonostante le dinamiche interne presentino continui nuovi risvolti, il processo decisionale libico prosegue ad avere una cabina di regia estranea.

Fonte: https://iari.site/libia-non-e-un-paese-per-libici/


Il tramonto palestinese

di Filippo Sardella, Istituto Analisi Internazionali

Istituzioni e organizzazione politiche della Palestina sono sempre più delegittimate da un Medioriente che si sta plasmando senza prenderle in considerazione. E la colpa è soprattutto la loro.

Vi sono momenti nella storia delle relazioni internazionali che – più di altri – mettono a fuoco con particolare precisione l’evolversi lento dei rapporti fra Stati, delle mutate alleanze strategiche, del meticoloso lavoro delle diplomazie e, nel loro insieme, degli equilibri geopolitici di una determinata porzione di mondo.
Era stato così quando nel 1994, sul manto verde della White House di Washington, i fotografi immortalavano Bill Clinton, padrone di casa, Yatzhak Rabin, Primo Ministro dell’epoca di Israele, e Yasser Arafat, Presidente e leader dell’Organizzazione di Liberazione della Palestina, stringersi le mani per quelli che divennero famosi come gli Accordi di Oslo. Uno scatto molto simile a quanto avvenuto la settimana scorsa, quando – sempre nella cornice della Casa Bianca –  hanno siglato un accordo per la normalizzazione dei rapporti tra Israele da un lato ed Emirati e Bahrein dall’altro, rappresentati rispettivamente dal premier Benjamin Netanyahu dai ministri degli esteri Abdullah bin Zayed Al Nahyan e Bahrein Khalid bin Ahmed bin Mohammed Al Khalifa.

La normalizzazione dei rapporti diplomatici fra Emirati Arabi Uniti e Israele, benedetti dal placetdell’amministrazione a stelle e strisce a firma Donald Trump, è il segno più marcato di nuove traiettorie che stanno ridisegnando gli equilibri del Medio Oriente. Trump ha salutato l’occasione, sostenendo che la firma degli accordi di Abraham “cambierà il corso della storia” e segnerà “l’alba di un nuovo Medio Oriente“, Netanyahu, invece, ha descritto la giornata come un “perno della storia, una nuova alba di pace“. Effettivamente si ha l’impressione che muovimenti storici stiano prendendo forma, da Tel Aviv a Abu Dhabi, passando per Manama. Ad esserne sempre più annichilite, delegittimate ed esautorate sono le istituzioni palestinesi che, proprio dagli accordi del 1994, avevano ritrovato vigore. Le triangolazioni fra le varie capitali del golfo, però, gettano nuovamente in un cono d’ombra i futuri progetti di irredentismo palestinese, naufragato anno dopo anno dai molteplici errori commessi dalle istituzioni palestinesi in primis, ANP – l’Autorità Nazionale Palestinese di cui Arafat fu principale artefice –  e Hamas fra tutte. È comunque vero che la normalizzazione dei rapporti tra Israele, Emirati Arabi Uniti e Bahrein ufficializzata questa settimana è la certificazione di un processo in corso silenziosamente da anni per ragioni che prescindono dall’amministrazione Trump. È vero che non rappresentano tanto lo scenario di una “pace” in Medioriente quanto della vittoria di un fronte e della sconfitta dell’altro (l’Iran ma soprattutto i palestinesi, che sbagliando ogni cosa fosse possibile sbagliare sono riusciti a fare sbuffare di insofferenza persino il mondo arabo).

 È vero che i tre paesi coinvolti negli accordi hanno grandi interessi perché Trump venga rieletto, e quindi vogliano dargli una mano. Gli indizi di una così decisa virata da parte di due Stati arabi verso il “confine” israeliano, però, si poteva cogliere già da qualche anno: si prenda ad l’alta missione presso l’Agenzia internazionale per le energie rinnovabili ad Abu Dhabi aperta da Israele nel 2015, o la visita di Stato dell’allora Ministro Regev  alla Grande Moschea emiratina nel 2018, o l’invito ricevuto da Israele per l’Expo di Dubai del 2020. In egual modo, seppur in maniera più timida, aveva agito il Bahrein, che ha una comunità ebraica piccola ma sostenuta, con uno dei suoi membri che serve come ambasciatore del paese negli Stati Uniti dal 2008 al 2013. Legami e connection che indicano l’orizzonte delle nuove alleanze strategiche. Il particolare per il Regno di Re Hamad bin Isa al-Khalifa che, tramite i recenti accordi, può implementare il proprio arsenale, accedendo alla tecnologia militare israeliana come il sistema di difesa missilistica Iron Dome, e lubrificare la cooperazione in materia di economia, salute e turismo. Risultati che, se raggiunti, sarebbero molto apprezzati anche dalle parti di Riyad, capitale dell’Arabia Saudita, che – dietro le quinte – è l’attore più soddisfatto del consolidamento dei rapporti fra paesi del Golfo e Israele, tassello fondamentali nel mosaico anti-iraniano della corona dei Saud.
Il Bahrein è da tempo sotto la tutela dell’Arabia Saudita, in particolare da quando quest’ultima ha aiutato Manama a sedare le rivolte della componente sciita del paese, quella che – verosimilmente – tende sempre un orecchio alle indicazioni in arrivo dalla Repubblica Islamica dell’Iran.
La fresca collaborazione fra Bahrein e Israele, infatti, potrebbe essere “la mossa del cavallo” di Riyad in attesa che, con il giusto tempismo, si avvicinino sempre di più anche Arabia Saudita e lo Stato della stella di Davide.

Un turbinio di intrecci che relega in un angolo le prospettive di spazio politico per le rappresentanze palestinesi, sia quelle più moderate, sia quelle meno.
L’ANP, a cui oggi è rimasto il controllo dei territori della Cisgiordania ed è riconosciuta in sede ONU, sopporta il peso di anni, se non decenni, di un estenuante lavoro politico che nel concreto ha prodotto ben pochi risultati, limitato da partner arabi sempre più timidi, ed un’opinione pubblica sempre più indifferente.
Hamas, che prosegue il suo lavoro di proselitismo e resistenza, ha visto nei tempi recenti assottigliarsi sponsorizzazioni e contributi: troppi i vortici neri che nel teatro mediorientale hanno catturato sforzi ed energie dei principali player dell’area: dalla Siria allo Yemen, dalla Libia al Libano, la questione palestinese è stata inghiottita da una spirale d’apatia. L’una e l’altra, a causa anche e soprattutto della sfrontatezza sia politica sia paramilitare, e delle pratiche ruvide di terrorismo messe in atte, sono state vicendevolmente nemiche, e nemiche di se stesse. Nonostante nella striscia di Gaza continui un contrasto armato allo Stato di Israele, oggi sempre più preparato tecnologicamente a sferrare attacchi aerei e di terra, la crisi identiaria palestinese si acuisce ogni giorno che passa, mentre gli insediamenti in Cisgiordania aumentano la propria tenacia, e mentre l’alleanza Tel Aviv – Washington – Riyad si stringe e solidifica. Eduard Shevardnadze, Ministro degli Affari Esteri dell’URSS e poi Presidente della Georgia, disse che “persino le Piramidi spariranno, ma non il desiderio dei palestinesi per la loro terra ”.  Per oltre un secolo è stato utilizzato ogni mezzo per realizzarlo, se Shevardnadze avesse ragione ne passeranno molti altri.

23 settembre 2020 – Fonte: https://iari.site/il-tramonto-palestinese/


Dov’è finita la diplomazia nel Mediterraneo?

di Filippo Sardella, Istituto Analisi Relazioni Internazionali

La lenta guerra di posizione e le dispute marittime fra Atene, Nicosia ed Ankara hanno mobilitato un pugno di Stati, Mediterranei e non, interessati (alcuni parzialmente) a mantenere l’equilibrio nelle acque calde del Mediterraneo. Ma nessuno di essi sembra avere un peso consistente. Esiste ancora la diplomazia nel Mediterraneo?

È ben nota la posizione di Parigi in questa sorta di conflitto “bianco” (senza scontri) fra Grecia, Cipro e Turchia: schieratasi sin da subito al fianco di Atene e Nicosia, la Francia ha, nel corso di questi mesi, garantito una copertura militare alle sue alleate. Non senza secondi fini: Parigi ed Ankara sono lontane in tutti i terreni di scontro regionali ed anche sotto il profilo energetico. Mentre la Francia non ha mai preteso di assurgere a ruolo di mediatore, la Germania, più di una volta, si è proposta alle Nazioni in contesa. Ma, laddove Ankara si è dimostrata più disponibile, dati gli intrecciati interessi con Berlino (fra i quali, ricordiamo, anche la questione dei migranti), Atene ha preferito la concreta ed ingombrante presenza francese, con cui da tempo ha iniziato un dialogo in materia di difesa.

L’Italia ha preferito adottare un profilo molto più neutrale, nonostante gli interessi energetici in gioco. Le recentissime esercitazioni navali al fianco di Atene, si sono accompagnate ad alcuni avvicinamenti fra la marina turca e l’Italia, nel quadro dell’operazione Mediterranean Shield. Il segno che l’Italia non vuole compromettersi, anzitutto per proteggere gli interessi economici con Ankara ed anche perché la Turchia costituisce un interlocutore importantissimo per il dossier libico.  Gli ultimi tentativi sono stati Russi e Statitunitensi. Il Ministro degli Esteri russo, Lavrov, è stato recentemente in visita a Nicosia, ed ha accennato alla possibilità di fungere da mediatore nella controversia solo a patto che tutte le parti fossero d’accordo. Anche in questo caso, lo Stato che sembra maggiormente sospettoso è stata la Grecia, che non vede sempre favorevolmente gli interventi russi.

Gli States hanno proceduto lentamente. Essi sanno molto bene che in gioco vi sono gli equilibri di tutta l’aria Medio orientale e che per tale motivo ogni mossa necessita d’essere opportunamente soppesata. In tale ottica vanno inquadrati gli Accordi di Pace fra EAU, Bahrain e Israele (è quasi certo prossimamente si unirà anche l’Oman). Essi nascondono in sé anche la volontà di contenere in qualche modo l’espansionismo turco (e iraniano) nel mondo arabo-sunnita. La recente visita, poi, di Mike Pompeo, Segretario di Stato USA, a Nicosia e le conseguenti dichiarazioni hanno lasciato intendere da che parte punta la bandiera americana. Recentissime alcune indiscrezioni riguardo la possibile ricollocazione delle 50 testate nucleari in Turchia: Ron Johnson, Presidente della Foreign Relations subcommittee for Europe del Senato USA, ha accennato al Washington Examiner la possibilità da parte degli States di spostare le suddette testate da İncirlik (Adana) in Grecia. La minaccia di una simile mossa potrebbe fungere da deterrenteper Ankara.

Anche se negli ultimi giorni i toni si sono un po’ placanti, e continuano i dialoghi in sede NATO, non sembra scontato un passo indietro da parte di Ankara, profondamente determinata a far valere le proprie pretese territoriali. A tal proposito, è attesissimo (in Turchia e nel mondo arabo-sunnita) il discorso di Erdoğan alla prossima Assemblea Generale delle Nazioni Unite, il prossimo 22 Settembre, durante la quale ci si aspetta una netta posizione da parte del Presidente turco in relazione all’ordine mondiale costituito che, secondo una certa corrente molto forte in Turchia, esclude dalle decisioni globali più importanti alcuni Paesi rilevanti, tra i quali la Turchia stessa. Ad ogni modo, l’impasse venutasi a creare denota certamente un altissimo grado di incertezza in tutto il Mediterraneo, anche sotto il profilo diplomatico: nessuno Stato, nessuna potenza, neanche la NATO, sembra essere in grado di contenere gli interessi turchi, senza andare a modificare qualche altro assetto comunque importante per l’equilibrio generale della regione. E questo è forse il rischio più grande del multilateralismo.


Crisi Grecia-Turchia, Erdogan schiera carri armati, Nato e UE puntano sulla diplomazia

Cresce la tensione tra Grecia e Turchia per lo sfruttamento di giacimenti di gas ed idrocarburi nel Mediterraneo

di Paola Susanna Marconi

Sale la tensione sulla terraferma al confine fra Turchia e Grecia, nei pressi del fiume Evros. Il presidente turco Erdogan ha annunciato di aver spostato 40 carri armati del suo esercito dal confine siriano a quello greco. Dopo le scaramucce nelle acque del Mediterraneo orientale del mese di agosto, la manovra via terra – che comunque pare fosse già prevista – sembra una sorta di guanto di sfida lanciato a Grecia e Cipro. D’altronde, le dichiarazioni di Erdogan sono state una sorta di messaggio inviato ai due paesi, accampando diritti legittimi sulle riserve energetiche in quel tratto di mare e dicendosi pronto a qualsiasi eventualità e conseguenza qualora fallissero i tentativi delle diplomazie della Nato e dell’Unione europea. Nell’isola di Cipro, inoltre, su quella porzione di territorio della Repubblica separatista del Nord riconosciuta solo da Ankara dal 1974 è in corso da alcuni giorni l’esercitazione annuale Mediterranean Storm: è stato il vicepresidente turco Fuat Oktay a comunicarlo tramite un tweet nel quale ha parlato dell’importanza dell’operazione per la sicurezza del proprio paese e della Repubblica separatista cipriota, ma anche delle soluzioni diplomatiche.

Gli attriti interni alla Nato, tensioni fra Turchia e Stati Uniti

I timori di Trump, del resto, vanno crescendo da mesi, ossia da quando Ankara ha deciso di acquistare da Mosca i sistemi di difesa missilistica russi S-400, e da quando la Turchia ha fatto sapere che la sua prima centrale nucleare verrà costruita in collaborazione con la Russia. Il governo turco, da parte sua, non sembra intenzionato ad ammorbidire le proprie posizioni in politica estera, e finora ha ignorato gli avvisi di Trump, il quale si è detto anche pronto a non consegnare più i promessi caccia F-35. La Turchia, membro della Nato dal 1952, ha annunciato per conto di Mosca delle esercitazioni navali nel Mediterraneo dall’8 al 22 settembre e dal 17 al 25 dello stesso mese: una decisione che ha sollevato preoccupazioni nel patto atlantico e negli Stati Uniti.

La mediazione della Nato e della Ue

In questi giorni è arrivato anche un intervento del segretario generale della Nato, Jens Stoltenberg, il quale ha fatto sapere che sta lavorando personalmente ad una mediazione tra Grecia e Turchia, allo scopo di portare attorno ad un tavolo le parti. Inoltre ha anticipato su Twitter che entrambi i paesi hanno già concordato l’impegno per colloqui tecnici volti a prevenire ogni tipo di incidente in quell’area del Mediterraneo. (https://179187960cf6104f789dd9046233e1b7.safeframe.googlesyndication.com/safeframe/1-0-37/html/container.html)

Atene ha chiarito però che ogni mediazione sarà possibile solo dopo il ritiro delle navi turche dalle acque greche. I motivi del contendere tra i due paesi sono anzitutto lo sfruttamento delle risorse energetiche del Mediterraneo, ma anche la questione dei migranti, poiché la Grecia continua a registrare arrivi cospicui sia via terra che via mare, molto spesso lasciati partire dalla Turchia.

Il presidente del Consiglio europeo Charles Michel in un colloquio telefonico con il presidente turco Erdogan ha sottolineato l’importanza di mitigare il conflitto, invitando la Turchia ad avere comportamenti non provocatori. L’Unione europea è solidale con Grecia e Cipro, ma intende avere delle relazioni costruttive anche con i turchi. (https://179187960cf6104f789dd9046233e1b7.safeframe.googlesyndication.com/safeframe/1-0-37/html/container.html)

Alla fine di agosto, durante una riunione informale dei ministri degli Esteri della Ue, si era paventata l’ipotesi di sanzioni verso la Turchia. Tuttavia, in seguito all’escalation delle tensioni, ogni decisione è stata rimandata al Consiglio europeo che si terrà dal 24 al 25 settembre, sessione che verrà dedicata soprattutto alla crisi nel Mediterraneo.

8 settembre 2020 – fonte: https://it.blastingnews.com/cronaca/2020/09/crisi-grecia-turchia-erdogan-schiera-carri-armati-nato-e-ue-puntano-sulla-diplomazia-003196928.html


Le reazioni del mondo all’accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti

dal Quotidiano Sicurezza Internazionale di Chiara Gentili* – LUISS Osservatorio sulla Sicurezza Internazionale

Redazione

Gli Emirati Arabi Uniti sono diventati il primo Paese arabo del Golfo a normalizzare ufficialmente le relazioni con Israele. Il cosiddetto “accordo Abraham”, annunciato giovedì 13 agosto dal presidente degli Stati Uniti Donald Trump, assicura l’impegno israeliano a sospendere l’ulteriore annessione delle terre palestinesi nella Cisgiordania occupata. Tuttavia, parlando ai giornalisti da Tel Aviv, il primo ministro israeliano, Benjamin Netanyahu, ha specificato di aver deciso di “ritardare” l’annessione come parte dell’accordo con gli Emirati Arabi Uniti. I piani, ha assicurato il premier, rimangono “sul tavolo”.

Gli Emirati Arabi Uniti sono la terza nazione araba a raggiungere un accordo simile con Israele, dopo la Giordania e l’Egitto. Ecco come hanno reagito alla pace tra Tel Aviv e Abu Dhabi gli altri Paesi della comunità internazionale e le varie parti interessate al conflitto israelo-palestinese.

In una dichiarazione rilasciata dal suo portavoce, Mahmoud Abbas, l’Autorità palestinese ha denunciato l’accordo. “La leadership palestinese respinge e denuncia l’accordo trilaterale, a sorpresa, tra Emirati Arabi Uniti, Israele e Stati Uniti”, ha detto Nabil Abu Rudeineh, un consigliere senior di Abbas. L’uomo, leggendo una dichiarazione fuori dal quartier generale di Abbas, a Ramallah, nella Cisgiordania occupata, ha affermato che l’accordo rappresenta un “tradimento a Gerusalemme, ad Al-Aqsa e alla causa palestinese”. Hanan Ashrawi, un membro del comitato esecutivo dell’Organizzazione per la liberazione della Palestina, che ha ricoperto varie posizioni di leadership, ha sottolineato che l’annuncio degli Emirati Arabi Uniti è stato come essere “traditi dagli amici”.

Anche il Movimento Islamico di Resistenza, conosciuto come Hamas, ha respinto l’accordo affermando che non rispetta la causa dei palestinesi.”Questo patto non serve assolutamente la causa palestinese, ma piuttosto la narrativa sionista. Questo accordo incoraggia l’occupazione e permette a Israele di continuare a negare i diritti del popolo palestinese e i suoi crimini contro la nostra popolazione”, ha affermato il portavoce di Hamas, Hazem Qassem, in una dichiarazione.”Ciò che è necessario è sostenere la lotta legittima del nostro popolo contro l’occupazione e non stabilire accordi con questo occupante. Qualsiasi decisione che affronteremo sul nostro destino sarà sostenuta dagli arabi e internazionalmente, e non dalla firma di accordi di normalizzazione con Israele”, ha aggiunto.

La Giordania, che, insieme all’Egitto, ha già normalizzato le sue relazioni con Tel Aviv, ha affermato che l’accordo tra Emirati Arabi Uniti ed Israele potrebbe portare avanti i negoziati di pace e spingere Netanyahu ad accettare uno stato palestinese sulla terra che Israele aveva occupato nella guerra arabo-israeliana del 1967. “Se Israele affronterà l’accordo come un incentivo per porre fine all’occupazione, porterà nella regione una pace giusta”, ha detto il ministro degli Esteri giordano, Ayman Safadi. Al contrario, la mancanza di disponibilità da parte di Israele non farebbe che aggravare il conflitto arabo-israeliano e minacciare la sicurezza dell’intera regione, ha aggiunto Safadi, specificando che Israele dovrebbe porre fine a qualsiasi azione unilaterale volta ad annettere ulteriori territori nella Cisgiordania. “La regione è a un bivio. La continua occupazione e la negazione dei diritti legittimi del popolo palestinese non porteranno pace o sicurezza”, ha concluso il ministro.

Da parte sua, anche l’Egitto ha accolto con piacere la notizia dell’accordo. Il presidente egiziano, Abdel Fattah al-Sisi, stretto alleato degli Emirati Arabi Uniti, ha scritto su Twitter: “Ho seguito con interesse e apprezzamento la dichiarazione congiunta tra Stati Uniti, Emirati Arabi Uniti ed Israele per fermare l’annessione israeliana delle terre palestinesi e prendere provvedimenti per portare la pace in Medio Oriente”. “Apprezzo gli sforzi dei responsabili dell’accordo per ottenere prosperità e stabilità per la nostra regione”, ha aggiunto.

L’Iran, d’altro canto, ha condannato fermamente la normalizzazione dei rapporti tra Abu Dhabi e Tel Aviv, definendo il patto un gesto di “stupidità strategica” che rafforzerà solo “l’asse di resistenza” sostenuto da Teheran. Il Ministero degli Esteri iraniano ha scritto in un comunicato: “Il popolo oppresso della Palestina e tutte le nazioni libere del mondo non perdoneranno mai la normalizzazione delle relazioni con il regime criminale di occupazione israeliano e la complicità nei suoi crimini”. “Quest’azione pugnala alle spalle i palestinesi e rafforza l’unità regionale contro il regime sionista”, si legge ancora nel rapporto.

Ugualmente indignata la Turchia, che ha condannato con parole dure il “tradimento” degli Emirati Arabi Uniti. “La storia e la coscienza dei popoli della regione non dimenticheranno e non perdoneranno mai questo comportamento ipocrita degli Emirati Arabi Uniti, che tradisce la causa palestinese per il bene e gli interessi ristretti di Abu Dhabi”, si legge in una dichiarazione. “È estremamente preoccupante che gli Emirati Arabi Uniti possano, con un’azione unilaterale, cercare di distruggere il Piano di pace arabo sviluppato nel 2002 dalla Lega araba. Non è affatto credibile che questa dichiarazione a tre vie venga presentata per sostenere la causa palestinese”, afferma la nota in conclusione.

Diverso il tenore delle reazioni in Europa, dove la maggior Parte dei Paesi ha lodato l’accordo tra Israele ed Emirati Arabi Uniti definendolo un gesto a favore della pace e della stabilizzazione dei rapporti in Medio Oriente. Il ministro degli Esteri tedesco, Heiko Maas, ha dichiarato che il patto segna un contributo importante alla pace nella regione. Il primo ministro inglese, Boris Johnson, ha affermato che l’accordo è una notizia estremamente positiva. Il ministro degli Affari Esteri francese, Jean-Yves Le Drian, ha detto che Parigi è felice della decisione israeliana di sospendere i suoi piani di annessione nella Cisgiordania occupata e ha definito lo storico accordo una “mossa positiva”. “L’accordo ha aperto la strada alla ripresa dei colloqui tra israeliani e palestinesi con l’obiettivo di stabilire due Stati, l’unica opzione per raggiungere la pace nella regione”, ha sottolineato il ministro.

Dalle Nazioni Unite, il segretario generale, Antonio Guterres, ha detto di sperare che la normalizzazione dei legami tra Israele ed Emirati Arabi Uniti possa aiutare a realizzare una soluzione a due Stati tra israeliani e palestinesi. “Il segretario generale accoglie con favore questo accordo, sperando che creerà un’opportunità per i leader israeliani e palestinesi di impegnarsi nuovamente in negoziati significativi che realizzeranno una soluzione a due stati in linea con le pertinenti risoluzioni delle Nazioni Unite, il diritto internazionale e gli accordi bilaterali”, ha affermato il portavoce di Guterres in una nota, specificando che “il segretario generale continuerà a lavorare con tutte le parti per aprire ulteriori possibilità di dialogo, pace e stabilità”.

14 agosto 2020

Fonte: https://sicurezzainternazionale.luiss.it/2020/08/14/le-reazioni-del-mondo-allaccordo-israele-ed-emirati-arabi-uniti/


Factors affecting the escalation of tensions between Turkey and Greece

by Farzad Ramezani Bonesh, Senior Researcher and Analyst of International Affairs

Turkey and Greece have a history full of war and conflict over the past five or six centuries. Relations between the two countries have been strained for the past decades. The following article deals with the factors affecting any increase in tensions between Turkey and Greece.

Disputes over historical heritage

Despite Greece’s efforts to relating Hagia Sophia to Christianity, Turkey gave a green light to re-use the building as a mosque by revoking the 1934 decree. From Turkey’s point of view, the issue of using Hagia Sophia is a sovereign right of Turkey, and any criticism to it will be interpreted as a violation of the country’s independence. On the other hand, Greece and many Western countries oppose the plan. In fact, Hagia Sophia was the center of the Orthodox Church for more than 900 years. So, Greece’s efforts to internationalize the issue of Hagia Sofia will have a more negative impact on Turkey’s relations with Greece, the European Union and the West.

Strengthening the military and modernizing the force

Turkey and Greece have very long maritime borders. Also, the differences between Turkey and Greece in strategic and important areas are still the reasons and motives for tensions and hostile competition. The two sides have conflicting views on previous border treaties, revisions of the Lausanne Treaty, the Aegean Islands, breaches of privacy, and so on. In fact, the transition from the diplomatic sphere, military strengthening and modernization of the forces, and the increase of the army’s deterrence capacity can lead to an increase in possibility of tension and bilateral conflict.

Islands and maritime influence area

The Mediterranean is a relatively dangerous sea in terms of territorial waters determination and the continental shelf and the exclusive economic zone. The 200-mile border for the two countries’ monopoly-economic zone is virtually impractical and interferes with neighboring coasts.

Meanwhile, the escalation of the dispute between Turkey and Greece over the territorial sea and the continental shelf has reached an exclusive economic zone in the eastern Mediterranean.

In fact, the increasing of readiness of the two countries for military conflict, the differences between the two countries, their claims over the islands in the Aegean Sea, the militarization of the islands, the violation of airspace, etc., increase the scope of tension.

Anti-Turkish cooperation in the region

In fact, the three countries of Cyprus, Armenia and Greece have increased diplomatic pressure on Turkey and shifted their relations towards greater convergence. Also, with increasing challenges in US-Turkish relations, the United States has included expanding security relations and military training with the Cyprus government in its 2020 program. In addition, Cyprus and Greece have for years played an important role in thwarting Turkey’s bid to join the European Union. It seems that Turkey has put emphasize on Greece’s roll in all those mentioned issues.

Anti-Turkish alliances in gas resources in the Mediterranean

Turkey has already reached a maritime border agreement in addition to signing a security cooperation treaty with the Libyan government of Al-Siraj. Greece, meanwhile, denies the validity of the agreements and considers them negative in its own interests.

In addition, Ankara is completely opposed to Greece’s Mediterranean approaches. In fact, on the one hand, Greece and Cyprus, which have maritime and territorial disputes with Turkey, consider the agreements between Turkey and Libya invalid. Greece, Israel and Cyprus have also stepped up their efforts to reach an agreement on the formation of an energy triangle to build a pipeline in the eastern Mediterranean, along with the establishing of Eastern Mediterranean Gas Association.

In addition, Greece and Italy have agreed on bilateral maritime borders and an agreement has been signed between the two countries. This would erode the legitimacy of the agreement between Ankara and Tripoli. On the other hand, the wider cooperation, the risk of more European and Western support for military cooperation between Egypt, Greece, Cyprus and Israel has increased Turkey’s concern. Meanwhile, in addition to paying more attention to the issue of the Turkish Republic of Cyprus, Turkey has also paid attention to the role of Greece in keeping away of Ankara from regional coalitions.

Ups and downs in Turkey’s relations with the West

Turkey’s relations with the European Union and the United States have had ups and downs in recent years. From one hand, increasing defense relations between the United States and Turkey’s rivals such as Israel and Greece have continued in the Mediterranean. In addition, the risk of Greece using its diplomatic capacity in the European Union to put more pressure on Turkey and isolate it, and more direct and indirect support for Greece, seems has led to more Ankara’s dissatisfaction.

Dispute in Libya

Turkish President Recep Tayyip Erdogan signed two naval agreements and security and military cooperation with Fayez Al-Seraj, Prime Minister of the Libyan (GNA), in November 2019. Meanwhile, the Turkish parliament issued a permit to send Turkish troops to Libya after the Libyan government requested military assistance. Also, the different view of Greece and Turkey on Libya has caused Greece to pay attention to Turkey’s rival players in the Libyan issue.

Immigrants and refugees

Turkey hosts more than a few million refugees and has repeatedly threatened to open its border gates to Europe. Athens, meanwhile, says Erdogan’s threat the refugees as a weapon to put pressure on Europe and Greece has dire consequences. The dispute between Greece and Turkey continues in this area is continuing and could escalate after the Corona crisis decreased.

Cyprus issue

Cyprus has been a major source of tension between Turkey and Greece since at least 1974. The Turkey’s approach to Turkish Republic of Northern Cyprus and extensive opposition of Greece to formal recognition of it in the face of supporting Cyprus, has kept the tension in Turkey-Greece relations high.

Vision

However, although Greek President Krias Mitsotakis and Turkish President Recep Tayyip Erdogan have already agreed to keep bilateral channels open.

But developments such as the greater presence of refugees on the Turkish-Greek border, the violation of maritime and air borders, the possibility of Ankara’s drilling off the coast of Crete, etc. can heighten tensions between Ankara and Athens. In addition, the low level of economic relations between the two countries, the growing support of the Greeks for the military response against Turkey, bolding of the security aspect of the refugee issue and the risk of Greek’s support from the anti-Turkish PKK group and the Gulen network ٬ The risk of Turkish support from the Turkish minority In Greece, and further propaganda by extremist nationalists against each other could increase the scope of the dispute.

In the meantime, it is unlikely that the two countries will declare war on each other, but the current trend will lead to continuing of the tense atmosphere between the two countries in the field of diplomacy, security-military and international coalitions.

Fonte: https://geostrategicmedia.com/


Il Libano torna in piazza

di Denise Morenghi

CeSI, Centro Studi Internazionali


Il Libano è vittima di un’élite politica accusata di corruzione e malaffare

L’intervista a Silvia Colombo, esperta di Medio Oriente all’IAI di Roma, in seguito alle esplosioni avvenute a Beirut.

di Osvaldo Migotto (06 agosto 2020 , 06:00 Mondo)

Silvia Colombo è ricercatrice responsabile del programma «Mediterraneo e Medio Oriente» presso l’Istituto Affari Internazionali (IAI) di Roma. Abbiamo sentito le sue valutazioni sulla grave crisi in cui è piombato il Libano da mesi, aggravata ora dalle micidiali esplosioni avvenute martedì nel porto di Beirut in cui sono morte almeno 137 persone e 5.000 sono rimaste ferite.

Secondo Al Jazeera funzionari doganali avevano avvertito le autorità libanesi del grave pericolo rappresentato dal nitrato di ammonio presente in un magazzino del porto. Come spiegare una così grave incuranza da parte del Governo?

«Il Libano è sempre stato, da certi punti di vista, uno Stato molto disfunzionale. Accuse di corruzione, clientelismo e malaffare hanno sempre caratterizzato le élite al potere fin dalla metà degli anni Cinquanta ad oggi. Per cui è possibile che una cosa macroscopica come un deposito con agenti chimici pericolosissimi lasciati a marcire per molti anni, sia finita nei gangli di una burocrazia strangolante. Il Governo che si è insediato un anno e mezzo fa aveva cercato di ridare un po’ di respiro al Paese, ma si è trovato a fare i conti con una gravissima crisi economica e del debito che ha avuto dei risvolti importanti anche a livello sociale. Poi la situazione si è ulteriormente aggravata con l’emergenza coronavirus, aumentando le grosse disuguaglianze che ci sono nel Paese».

Come vede oggi il Libano?

«La classe dirigente si mostra incapace di affrontare le gravi difficoltà con cui è confrontato il Libano in quanto è sempre alle prese con lotte interne per il potere, clientelismo e settarismo, nonché distribuzione delle cariche sulla base di favori personali. Ciò determina una incapacità a mettere mano e risolvere i problemi strutturali del Paese. Per cui oggi vedo il Libano profondamente ferito, in quanto Beirut e il suo porto sono il motore fondamentale per questo Paese. Ricordiamo che il Libano importa praticamente tutto ciò di cui ha bisogno la popolazione, dai medicinali ai beni di prima necessità. Non vi è un settore agricolo e non vi è un settore industriale sufficientemente forte. Tutto viene importato e di conseguenza i due grossi porti del Libano sono fondamentali. Ora quello principale di Beirut è andato distrutto, per cui il Paese ha perso un’infrastruttura fondamentale e questo avrà delle ripercussioni pesantissime».

Cosa dobbiamo aspettarci ora?

«Si parla di un’inflazione che andrà alle stelle, e già era molto alta nelle ultime settimane. Si è sempre parlato della capacità dei libanesi di superare periodi molto bui come quello della guerra civile dal 1975 al 1990, oppure l’aggressione militare dello Stato ebraico nel 2006 (a seguito di un attacco di Hezbollah a una pattuglia israeliana ndr). La resilienza dei libanesi ha permesso al Paese di non subire tracolli tempo addietro, ma in realtà ha perpetuato delle disfunzionalità che ormai sono diventate profonde e croniche. La paurosa esplosione di martedì rappresenta una sorta di campanello d’allarme che indica al Paese che è quasi fuori tempo massimo».

Tante le voci di solidarietà nel mondo nei confronti del Libano, ma oggi su chi può contare il Paese per riemergere dalle sabbie mobili?

Hassan Diab, Premier del Libano

«Sarei tentata di dire che se il Libano potesse camminare con i suoi piedi andrebbe molto più lontano, in quanto i partner e gli alleati che a volte hanno cambiato bandiera molto velocemente, non hanno fatto grandi favori al Libano. Però è difficile pensare a una politica estera libanese indipendente da condizionamenti esterni, in quanto il Paese non ha mai avuto la capacità di sfuggire a queste pressioni. Nel primo decennio del 2000 e dopo le primavere arabe il Libano è stato sotto una forte tutela da parte dell’Arabia Saudita che durante il premieriato di Saad Hariri aveva costituito un proprio feudo all’interno del Paese. Mentre negli ultimi anni è stato il Qatar ad aumentare la propria esposizione in Libano anche con aiuti alle banche libanesi».

Venerdì 7 agosto è attesa la sentenza del processo per l’attentato che nel 2005 causò la morte dell’ex premier Rafic Ariri. Vede possibili legami con l’esplosione di martedì scorso?

«In questo momento le congetture si stanno muovendo in tutte le direzioni. Io non mi sento di escludere questa ipotesi, però allo stesso tempo mi sembra che al momento non vi sia un chiaro collegamento tra i due fatti. Sicuramente questo processo è un passaggio molto delicato per il Libano, e vi è il rischio che intensifichi i contrasti tra i gruppi della popolazione su base settaria. Come verrà sfruttata questa fase e che tipo di messaggio le élite libanesi saranno in grado di dare in queste ore e in questi giorni, anche prima dell’appuntamento di venerdì, sarà fondamentale per permettere al Paese di non sprofondare ancora di più, con il rischio di un conflitto interno. Vi è inoltre la possibilità di uno sfruttamento, da parte di attori esterni, di questa estrema debolezza del Libano».

Fonte: https://www.cdt.ch/mondo/il-libano-e-vittima-di-un-elite-politica-accusata-di-corruzione-e-malaffare-BC3026829


La nuova postura della Marina turca e le crescenti ambizioni di Ankara nel Mediterraneo

di Denise Morenghi – CeSI – Centro Studi Internazionali


IL RIARMO NAVALE SOTTOMARINO NEL MEDITERRANEO

di Filippo Sardella, Istituto Analisi Relazioni Internazionali, 27/7/2020

Giovedì scorso è stato sequestrato un aereo drone militare, con materiale esplosivo, diretto verso la Green Zone di Baghdad che ospita l’ambasciata americana. Washington accusa le milizie para-militari delle Forze di Mobilitazione Popolare le quali, a oggi, sono nuovamente impegnate nella lotta al terrorismo in Iraq.

Questo giovedì, nei pressi della green zone di Baghdad, le forze di intelligence irachene hanno sequestrato un aereo drone militare che trasportava materiale esplosivo nei pressi dell’ambasciata americana. Quest’area è sotto attacco dall’inizio di quest’anno, asseguito dell’assassinio, da parte di Washington, di Qasim Suleimani, ex leader delle Forze di Mobilitazione Popolare, coalizione di milizie para-militari sciite, armate e finanziate dall’Iran. Gli Stati Uniti ritengono che i responsabili dell’episodio di giovedì siano le Forze di Mobilitazione Popolare.

Quest’ultime si sono costituite come gruppo para-militare nel 2013, ma sono ufficialmente entrate a far parte dell’esercito nazionale iracheno l’anno seguente, a seguito dell’appello di al-Sistani, il maggiore ayatollah in Iraq, che aveva esortato il popolo iracheno ad armarsi per contrastare l’avanzata dello Stato Islamico (ISIS) nel paese. Oggi il loro ruolo nella lotta al terrorismo è stato confermato nell’operazione militare anti-ISIS, che ha preso avvio domenica scorsa nel Governatorato di Diyala, ad est di Baghdad, sono state coinvolte alcune milizie appartenenti proprio alle Forze di Mobilitazione Popolare. Per quanto riguarda gli Stati Uniti, invece, la presenza delle truppe americane della Coalizione internazionale anti-terrorismo si è progressivamente ridotta, negli scorsi mesi, a seguito dell’uccisione di Soleimani e della conseguente decisione presa dal Parlamento iracheno, su pressione delle forze politiche sciite filo-iraniane che muovono i fili della macchina statale, di predisporre il ritiro completo delle truppe statunitensi dal paese.

Iran e Stati Uniti sono stati i fautori dell’Iraq post-Saddam, in quanto l’invasione americana del 2003 ha portato all’istituzione di un regime di governo, in vigore tutt’oggi, in cui il potere è in gran parte detenuto dagli sciiti che erano stati costretti all’esilio sotto il regime di Saddam, i quali seguono le direttive di Teheran e sono, a oggi, tra i principali oppositori della presenza di Washington in Iraq. Le proteste popolari che stanno attraversando il paese, da nord a sud, a partire dallo scorso ottobre, chiedono proprio la fine di questa distribuzione settaria del potere, chiamata in arabo muhasasa, che oltre ad aver legittimato le continue interferenze di Washington e Teheran negli affari interni iracheni, ha portato alla marginalizzazione e alla conseguente radicalizzazione della componente sunnita della popolazione nazionale, con devastanti conseguenze: la guerra civile del 2006, l’auto-proclamazione dello Stato Islamico nel 2014.

Se da una parte il nuovo governo iracheno, sotto la direzione di Mustapha al-Kadhimi, sta cercando di mantenere relazioni diplomatiche sia con Washington sia con Teheran, al fine di evitare che l’Iraq diventi un’arena di scontro tra i due paesi, come era stato pronosticato a seguito dell’assassinio di Suleimani, i recenti attacchi alla green zone, come anche, ai convogli militari americani che trasportano rifornimenti logistici alle truppe della Coalizione internazionale anti-terrorismo, mettono in luce un dato molto importante. Una futura stabilizzazione dell’Iraq dipende fortemente da una ridefinizione e da un ridimensionamento del ruolo politico-militare di Washington e Teheran nel paese, in quanto consentirebbe di dare un nuovo corso politico al paese, dopo quasi vent’anni di muhasasa, e di restituire, così, l’Iraq agli iracheni.


Egyptian President Abdel Fattah al-Sisi attends the extraordinary Arab summit held at al-Safa Royal Palace in Mecca on May 31, 2019. (Photo by BANDAR ALDANDANI / AFP)

EGITTO E LIBIA, UN SOLO POPOLO E UN SOLO DESTINO

di Filippo Sardella, Istituto Analisi Relazioni Internazionali, 20 luglio 2020

Secondo le ultime dichiarazioni del presidente egiziano al-Sisi, l’intervento militare dell’Egitto nel conflitto libico serve a difendere le nazioni arabe. In una riunione tenutasi questo giovedì al Cairo, alla presenza del Consiglio supremo degli sceicchi e dei notabili della Libia, il presidente egiziano al-Sisi ha dichiarato che l’intervento militare dell’Egitto nel conflitto libico è necessario per garantire la sicurezza del popolo egiziano, di quello libico e di tutte le nazioni arabe.

Secondo le parole del presidente egiziano, le forze esterne coinvolte nel conflitto libico, in primis la Turchia, non sono realmente intenzionate a una soluzione del conflitto libico, in quanto preoccupate soltanto dei loro interessi nazionali. Alla luce dei legami storici tra i due paesi, e del ruolo ex-ruolo dell’Egitto di leader del mondo arabo, al-Sisi si mostra intenzionato a difendere l’integrità territoriale dei due stati dalla minaccia del ‘’colonialismo turco’’ e dei gruppi terroristici del deserto occidentale. Nella riunione di questo giovedì, alla presenza del Consiglio supremo degli sceicchi e dei notabili della Libia, il presidente egiziano ha dichiarato di voler armare le tribù libiche, che si trovano al confine tra i due paesi, come anche altre comunità residenti al nord dell’Egitto, al fine di creare un ‘’esercito nazionale comune’’.

Il suo l’intervento militare viene posto come decisivo per la risoluzione del conflitto libico e necessario per garantire un futuro migliore alle future generazioni della Libia. Il suo discorso è stato ben accolto dal Consiglio supremo degli sceicchi e dei notabili della Libia, che ha dichiarato ‘’siamo venuti al Cairo per dire che noi e l’Egitto siamo un solo popolo e vogliamo liberare completamente la Libia’.  Il presidente egiziano, dunque, in risposta alle ultime sconfitte militari dell’Esercito Nazionale Libico, sotto il comando di Khalifa Haftar e all’avanzata del ‘’colonizzatore turco’’ nel Mediterraneo orientale, sta facendo leva su una retorica statale ben consolidata: il ruolo storico dell’Egitto nel mondo arabo e la lotta al terrorismo.

Il presidente egiziano, forte del sostegno della Camera dei rappresentanti di Tobruk, è ora in attesa dell’approvazione del Parlamento egiziano per dare avvio all’intervento militare in Libia. Vedremo nelle prossime settimane, quale sarà la risposta degli altri attori coinvolti nel conflitto – Stati Uniti, Europa e Russia – che, il mese scorso, avevano ben accolto l’iniziativa diplomatica egiziana della Dichiarazione del Cairo.


DOV’È LA SOCIETÀ CIVILE NEL CONFLITTO LIBICO?

di Filippo Sardella, Istituto Analisi Relazioni Internazionali

All’interno della crisi libica, la presenza di mercenari di diverse nazionalità e il coinvolgimento delle potenze regionali e internazionali, hanno oscurato il ruolo della società civile nella risoluzione politica del conflitto, su cui preme, con scarsi risultati, le iniziative diplomatiche della comunità internazionale.

Quando si parla del conflitto libico, in corso dal 2011 in seguito alla deposizione del regime di Gheddafi, ci si concentra molto sugli stati esterni che sono intervenuti nel conflitto, con i relativi mercenari, e sui loro interessi strategico-economici nell’appoggiare il primo ministro al-Sarraj o il generale Khalifa Haftar. All’interno di questo quadro, nonostante la comunità internazionale, e la recente iniziativa diplomatica egiziana, abbiano sottolineato la necessità di una soluzione politica al conflitto, e lo svolgimento di elezioni parlamentari, la società civile non viene presa realmente in considerazione nella risoluzione della crisi libica. Eppure, sono state proprio le azioni della società civile, con lo scoppio della rivoluzione del 17 febbraio a Benghazi, a portare, in seguito all’intervento americano, giustificato dalla dottrina della responsabilità di proteggere, alla deposizione del regime di Gheddafi nel 2011. In seguito alla quale è iniziata in una guerra civile che si è progressivamente internazionalizzata, con relativi momenti di esclation e distensione.

La mancata ricostruzione del paese, in seguito alla deposizione del regime di Gheddafi, ha portato a dei vuoti di potere all’interno del territorio statale, che sono stati riempiti da mercenari stranieri e gruppi jihadisti. Dunque, in una situazione in cui il discorso pubblico è focalizzato sulla dimensione regionale e internazionale del conflitto, e la comunità internazionale non riesce a far conciliare gli interessi dei vari attori esterni coinvolti, la domanda che ci poniamo è la seguente: qual è la posizione della società libica all’interno di questa crisi politico-istituzionale in corso da lungo tempo?

Due settimane fa, migliaia di persone hanno manifestato nella città di Benghazi – roccaforte del generale Khalifa Haftar, che detiene il controllo della parte orientale della Libia, ovvero la della Cirenaica – mostrando, attraverso slogan e striscioni, il proprio dissenso verso Fayez al-Sarraj, il primo ministro a capo del governo internazionalmente riconosciuto di Tripoli, e il suo alleato il presidente turco Erdogan. Ed è proprio contro di lui che si sono scagliati i manifestanti, con particolare veemenza, agitando cartelli con su scritto ‘’La Libia non si inchinerà al regime turco’’ e ‘’No alla colonizzazione, no all’intervento turco’’. A novembre di quest’anno, attraverso la stipula del memorandum con Tripoli, Ankara è entrata ufficialmente nella guerra civile libica, offrendo supporto tecnico-militare al governo di Tripoli. Il coinvolgimento della Turchia ha portato ad una nuova escalation del conflitto, in quanto il generale Haftar ha rinforzato, in risposta alla minaccia turca, le file dei suoi militari con mercenari provenienti dall’Europa, in particolare Russia, e dall’Africa, tra cui il Sudan. In risposta, le forze militari al sostegno di al-Sarraj, con il supporto della Turchia, hanno fatto ricorso a profughi siriani per difendere la città di Tripoli dall’avanzata verso Tripoli dell’esercito nazionale libico, sotto il comando del colonnello Khalifa Haftar.

Pochi giorni dopo le proteste avvenute a Benghazi, due settimana fa, gli abitanti di Tripoli, hanno celebrato la caduta dell’ultima roccaforte occidentale di Haftar, dopo una campagna militare, durata quattordici mesi, lanciata dal colonello per riconquistare la città di Tripoli. In quest’occasione, i tripolini hanno espresso la loro fermezza nell’opporsi a qualsiasi minaccia, interna ed esterna al paese, che ostacoli l’istituzione di uno stato civile in Libia e quindi verso coloro che, secondo loro dichiarazioni, vogliono rinstaurare un regime dittatoriale militare simile a quello esistente prima della rivoluzione di febbraio. Il riferimento è all’esercito nazionale libico e ai suoi partner regionali e internazionali.

Qualche giorno fa, in un’intervista a France 24, il presidente algerino, Abdel Majid Taboun ha sottolineato la necessità di svolgere al più presto delle elezioni in Libia, che riportino la sovranità statale alla società civile, mettendo in luce le loro esigenze. Lo stesso ha sottolineato Agila Salih, presidente della Camera dei Rappresentanti a Tobruk, in Cirenaica, sottolineando la necessità di far tornare la sovranità al popolo libico.

All’interno della crisi libica, il ruolo della società civile, nella risoluzione del conflitto, è stato oscurato dalla presenza di mercenari di diverse nazionalità e dagli interessi delle potenze regionali e internazionali nel conflitto. Il territorio libico, infatti, dispone di ingenti materie prime e si trova in una posizione strategica all’interno del Mediterraneo orientale, un’area che è diventata, di recente, di centrale interesse per l’Europa e i paesi del Medio Oriente e del Nord Africa come dimostrano le recenti controversie tra Turchia, Grecia ed Egitto riguardo la delimitazione delle acque territoriale libiche e la costruzione di gasdotti ad est del Mediterraneo. Se da una parte i paesi arabi del Nord Africa, come l’Algeria, sottolineano la necessità di coinvolgere la società libica all’interno della risoluzione del conflitto, la comunità internazionale – con le ripetute dichiarazioni del cessate il fuoco e le violazioni continue dell’embargo d’armi imposto dalle Nazioni Unite – sembra essere troppo impegnata a conciliare gli interessi degli stati esterni, coinvolti nel conflitto, piuttosto che focalizzarsi sulla società civile e il suo ruolo nell’elaborare una soluzione politica pacifica al conflitto libico.


Nuova guerra a colpi di computer da Israele verso Iran

di Filippo Sardella, Istituto Analisi Relazioni Internazionali – 13 luglio 2020

Negli ultimi mesi, gli attacchi tra Iran ed Israele sono aumentati al punto da far temere una nuova guerra cibernetica. Questo dimostra il ruolo importante che ricoprirà la cyberwar nel futuro prossimo e la necessità, al tempo stesso, di accrescere le nostre conoscenze in questo settore.

Le questioni relative alla sicurezza statale continuano ad esercitare una grande importanza nell’ambito delle relazioni internazionali. La comparsa di nuove minacce, sconosciute nel passato e di gran lunga differenti, ha complicato ulteriormente il panorama della sicurezza internazionale. Tra queste, spicca la cyber security e le nuove strategie di cyber warfare, in cui lo spazio cibernetico è considerato, alla stregua dello spazio marittimo o terrestre, uno spazio in cui estendere la propria influenza, combattere e vincere delle guerre.  La cyber warfare è un metodo strategico per implementare una proxy strategy, data la difficoltà di individuare l’origine degli attacchi cyber, riducendo, notevolmente, i costi e i rischi legati ad un attacco. Difatti, questi tipi di attacchi informatici sono più semplici da implementare, meno costosi rispetto alla produzione di armi convenzionali, e meno costosi anche dal punto di vista di perdite umane.

Cyber warfare o guerra cibernetica è un termine di recente utilizzo e si intende “qualunque azione intrapresa da uno stato-nazione di penetrare nei computer o network di altri stati al fine di provocare un danno.”  In Medio Oriente, assistiamo ad un incremento di attacchi cibernetici, utilizzati da vari attori, per raggiungere determinati obiettivi strategici. Meritano particolare attenzione l’Iran, che si configura come una potenza emergente nell’ambito cibernetico, ed Israele. Recentemente, infatti, sono stati riportati una serie di incidenti nella prossimità di alcune centrali nucleari in Iran e due esplosioni, l’ultima vicino la capitale Teheran, le cui responsabilità sono state attribuite ad Israele.

Cyber capabilities: Iran VS Israele

La dottrina militare iraniana è un’eredità della guerra di otto anni contro l’Iraq, in cui la maggior parte del mondo arabo prese parte contro la neonata repubblica, nel tentativo di limitare il rivoluzionarismo islamico. A seguito di questo drammatico evento, Teheran ha sviluppato una strategia difensiva, volta a preservare il suo assetto istituzionale e difendere il territorio nazionale. Con le Primavere Arabe e il ridisegnamento degli assetti geopolitici, la strategia iraniana nella regione ha incorporato elementi offensivi, dando vita ad un warfare ibrido, ossia una combinazione di capacità convenzionali e capacità asimmetriche. La deterrenza costituisce un imperativo della dottrina iraniana, i cui strumenti principali sono i missili balistici, i droni, la guerriglia navale e il warfare cibernetico.

Quest’ultimo appare di notevole interesse. Sebbene la Repubblica di Iran non si posiziona tra le superpotenze nella cyber war, a partire dagli anni duemila, ha sviluppato di gran lunga le sua capacità cyber, in risposta alle sue limitate capacità militari convenzionali.  La Green Revolution del 2009, chiamata anche “Twitter Revolution”, per il largo utilizzo dei social media nell’organizzare le proteste, ha portato ad un maggior controllo governativo dello spazio cibernetico e ad un incremento di attacchi contro siti web di opposizione al potere centrale. Inoltre, la scoperta del virus Stuxnet, la prima arma cibernetica, ha reso la cybersecurity una priorità nell’agenda iraniana. Risale al 2012 la creazione del Consiglio Supremo del Cyberspace al fine di coordinare e gestire al meglio le nuove sfide tecnologiche. Ma, oltre a rappresentare una minaccia esistenziale, rappresenta un’incredibile opportunità di controllare, al tempo stesso, le minacce interne ed esterne ed aumentare le sue capacità di warfare asimmetrico.

Israele è considerato una superpotenza cibernetica.  Israele ha sviluppato avanzate capacità di cyber warfare, sia di tipo offensivo sia di tipo difensivo, posizionandosi tra i primi cinque Paesi al mondo leader nel settore cyber.  La politica di sicurezza israeliana è guidata, fin dalla fondazione dello Stato, dalla necessità di difendere il territorio statale, costantemente posto sotto minaccia da un contesto geopolitico altamente instabile e volatile. In risposta alla sua inferiorità numerica, ha puntato sulla superiorità qualitativa, con enfasi, in particolare, sull’intelligence e sulla tecnologia. Questo ha portato ad ingenti investimenti in ricerca scientifica e tecnologica.

Secondo l’Israel National Cyber Bureau, Tel Aviv è stato il maggior esportatore di software di cybersecurity, dopo gli Stati Uniti, e più di 200 start-up operano in Israele.  Nel 2010, il governo di Netanyahu ha lanciato la National Cyber Initiative, una taskforce volta a definire la strategia cibernetica di Israele, ad incentivare le sue tecnologie e ad esplorare le opportunità nel settore cyber. Dalla suddetta iniziativa, prende forma la National Cybersecurity Strategy del 2011, con lo scopo di salvaguardare la posizione israeliana tra le cinque prime cyber-power mondiali. Due obiettivi principali guidano la sua cybersecurity: minimizzare i rischi legati alla sicurezza, in questo senso la deterrenza è di fondamentale importanza, e cogliere le opportunità offerte dallo spazio cibernetico.
Il caso Stuxnet è esplicativo degli alti sviluppi raggiunti da Israele nel settore. 

STUXNET

Il primo e significativo esempio di proxywar strategy è fornito dal virus Stuxnet del 2010.  Sebbene non ci sia stata nessuna rivendicazione ufficiale, il New York Times fu il primo a dichiarare che l’attacco era parte di una più ampia operazione congiunta chiamata “Olympic Games”, organizzata da dall’intelligence statunitense ed israeliana, con l’obiettivo di rallentare il programma nucleare iraniano. L’acquisizione del nucleare da parte iraniana, infatti, costituiva una minaccia esistenziale per Israele, oltre che un elemento di instabilità per l’intera regione.Questo rappresenta il prototipo di un nuovo tipo di attacco, poiché è stato il malware più importante per sistemi cyber fisici, ossia sistemi che utilizzano una parte informatica per controllare sistemi fisici. Per la prima volta, gli Stati Uniti hanno utilizzato un’arma cibernetica per colpire le infrastrutture di un’altra nazione, distruggendo circa mille centrifughe e provocando ingenti danni economici.  Nello specifico, una combinazione di un worm e un virus è stata utilizzata per intaccare in maniera pesante delle infrastrutture nazionali. L’Agenzia dell’unione europea per la cibersicurezza (ENISA) ha definito Stuxnet “un cambiamento di paradigma” perché rappresenta una novità in termini di categoria e dimensione del malware, e non solo per la sua complessità, ma anche perché ha sfruttato, in maniera combinata, differenti vulnerabilità del sistema informatico dell’impianto.

Negli ultimi mesi, Iran ed Israele sono i protagonisti di una sfida cyber nella regione.  A metà maggio circa, è stato riportato un attacco cibernetico contro le infrastrutture dei computer nel porto iraniano di Shahid Rajaeed. Ciò rappresenta, probabilmente, una controffensiva israeliana ad un attacco iraniano contro il sistema idrico di Israele, che non ha causato danni se non delle interruzioni limitate nella distribuzione dell’acqua.  Naturalmente, entrambi i paesi non hanno rivendicato gli attacchi, in maniera ufficiale. Difatti, uno dei maggiori vantaggi degli attacchi cyber risiede nella cosiddetta deniability, derivata dalla difficoltà di identificare l’origine di un attacco informatico. Il 2 luglio l’Organizzazione dell’Energia Atomica in Iran ha annunciato un incidente avvenuto nell’impianto nucleare di Natanz. Il portavoce dell’Organizzazione per l’Energia Atomica in Iran ha riferito che non ci sono state vittime, ma le perdite economiche sono significative. In base a quanto riferito, le autorità iraniane conoscono la causa e la modalità dell’incidente, che, tuttavia, verranno rese note a tempo debito, per ragioni di sicurezza.

Questo, però, è il terzo incidente avvenuto in una settimana, ed altrettanti numerosi sono gli attacchi denunciati negli ultimi mesi, il che esclude la loro casualità. Stiamo assistendo ad una guerra cibernetica tra Iran e Israele? Difficile dare delle risposte certe, difficile stabilire i responsabili degli attacchi. Quello che non è difficile da prevedere è che le nuove guerre saranno sempre più cyber e meno cinetiche. Lo sviluppo di un’arma cibernetica richiede meno risorse, condurre attacchi è più semplice e meno rischioso, anche in termini di vite umane e, per ultimo, l’assenza di un’idonea difesa alla cyber war rende gli Stati particolarmente vulnerabili.

Ampio spazio merita lo studio della cybersecurity, un settore nuovo ed ancora largamente inesplorato, a causa, anche, delle rapide trasformazioni e della volatilità del sistema stesso.  Il vantaggio maggiore degli attacchi cyber è anche il suo rischio maggiore, poiché è alto il rischio di incertezza e errori di calcolo. Non esistono ancora delle regole per lo spazio cibernetico, i confini tra ciò che è lecito e ciò che non lo è sono ancora molto labili. Questa incertezza aumenta il rischio di una nuova escalation in una regione già molto instabile.


TURCHIA E UNIONE EUROPEA SEMPRE PIU’ LONTANE

di Filippo Sardella, Istituto Analisi Relazioni Internazionali

A seguito della IV Conferenza di Bruxelles, conclusasi ieri 30 giugno, le relazioni fra Turchia ed Unione Europea (in particolare con alcuni Paesi) continuano ad essere tese. Ora si tratta della Siria e della sua integrità territoriale, ma la verità è che la Turchia ha dimostrato tutta l’inconsistenza regionale dell’Unione europea…

I travagliati rapporti fra Turchia ed Unione europea stentano ad appianarsi. E fintanto che gli interessi regionali verranno percepiti in maniera differente, l’Anatolia e il Vecchio continente sono destinati sempre più ad allontanarsi.

Ulteriore occasione è stata la IV Conferenza di Bruxelles sulla Siria co-presenziata dall’Unione europea e dalle Nazioni Unite, svoltasi in remoto online, come avviene ormai da settimane a causa della pandemia. Hanno preso parte alla conferenza 80 paesi e varie organizzazioni internazionali, per discutere degli ultimi risvolti del conflitto siriano e monitorare la situazione umanitaria.

Se da un lato la Conferenza ha riconosciuto lo sforzo e il ruolo primario di Turchia, Giordania e Libano nella gestione e nell’accoglienza dei rifugiati siriani, si è avuto altresì modo di sottolineare alcuni importanti punti politici, sui quali l’Unione europea preme da tempo (ancor prima dell’operazione militare Olive branch del 2018): anzitutto che l’unica soluzione possibile ai problemi siriani risieda in un processo di riconciliazione politica, facilitato dalle Nazioni Unite; ancor più importante, si è richiamata l’importanza e la necessità di preservare la sovranità, l’indipendenza, l’unità e, non ultima, l’integrità territoriale della Siria.

Non si sa se il Congresso si pronuncerà unito su una legge definitiva prima di ottobre, scadenza stabilita dai Democratici per l’informativa di Esper a tale gruppo sulla questione. Al di là di questi passaggi, il piano di Trump a protezione dei pozzi petroliferi siriani resta importante per diversi obiettivi geopolitici strategici. Primo, gestendo con i Curdi i pozzi petroliferi si evita che le cellule dormienti dello Stato Islamico presenti nell’est possano sabotare gli impianti o riprenderne il controllo. Secondo, si tratta di una carta che i Curdi e gli Americani giocano per strappare concessioni sull’autonomia curda nel nord-est ad Assad. Terzo, la presenza nell’est per proteggere i pozzi petroliferi consente agli apparati statunitensi di tagliare i corridoi utili della Repubblica Islamica verso l’Iraq e infine ricorda ai Russi che sul futuro del territorio siriano le decisioni passano anche da Washington.

Quest’ultimo punto cade proprio in un momento storico particolare: a causa della crisi economica, la moneta siriana ha perso sostanzialmente valore e per tale motivo la provincia di Idlib ha iniziato ad utilizzare la lira turca come moneta corrente, secondo alcune fonti. Non solo appare evidente, da tale ulteriore presa di posizione, che la provincia sia ormai totalmente staccata da Damasco, ma che la penetrazione ottomana stia lentamente aprendosi un varco sempre più profondo per poter annettere a sé parte dei territori una volta siriani.

Ad ampliare ancor di più il varco fra Turchia ed Unione le parole del Ministro degli Esteri turco alla Conferenza suddetta. Çavuşoglu ha infatti affermato, riguardo la situazione dei rifugiati siriani, che “la Grecia continua a violare i diritti dei richiedenti asilo, respingendoli e cercando di mantenerli nei campi in condizioni disumane, e la cosa più preoccupante è che l’Unione non reagisce a queste violazioni e accusa la Turchia”. Una dichiarazione molto forte se pensiamo che nell’ultimo periodo le relazioni diplomatiche si sono ripiegate notevolmente, prima proprio a causa della crisi dei rifugiati e successivamente per i differenti interessi nel Mediterraneo orientale.

Insieme alla questione libica, gli interessi nel Mediterraneo orientale e la crisi siriana sono il banco di prova anche e soprattutto per la politica europea: se davvero l’Unione vuole dimostrare di poter competere a livello internazionale, al fianco dei giganti, e non solo a livello economico, dovrebbe studiare una differente politica di apertura nei confronti dei paesi mediterranei. Le azioni turche non fanno altro che dimostrare quanto poco scarso peso l’Unione abbia, nonostante tutto, a livello regionale: potremmo quasi dire che la Turchia e le sue strategie nel Mediterraneo e in Medio Oriente sono il chiaro fallimento del pensiero europeo sulla regione e sul mondo. V’è bisogno di un radicale ripensamento sulle politiche: l’Unione può farcela.

1 luglio 2020


Conflitto israelo-palestinese. Baskin (Ipcri): “La sfida enorme di israeliani e palestinesi”, uno Stato per due popoli

Israele annuncia annessione di parte del territorio occupato della Cisgiordania e il presidente palestinese, Abu Mazen, risponde svincolando la Palestina dagli accordi siglati con Usa e Israele. La soluzione “Due popoli, due Stati” appare sempre più lontana. Ne è convinto Gershon Baskin, co-presidente fondatore di Ipcri, editorialista di The Jerusalem Post, che rilancia: “Giunto il tempo di pensare a un nuovo orizzonte”, a una soluzione a “Uno Stato”. Baskin ha di recente pubblicato il libro “In pursuit of peace in Israel and Palestine” (Alla ricerca della pace in Israele e Palestina), edizioni Vanderbilt University Press

La Palestina si sfila dagli accordi con Israele e Usa. La decisione del presidente palestinese Abu Mazen è arrivata nella serata del 19 maggio, rilanciata dall’agenzia palestinese Wafa, e fa seguito all’annuncio del nuovo Governo di emergenza nazionale, guidato da Benyamin Netanyahu e Benny Gantz, di annettersi parte del territorio occupato della Cisgiordania, come prevede il piano di pace proposto da Donald Trump il 28 gennaio scorso a Washington. “L’Olp (Organizzazione per la liberazione della Palestina) e lo Stato di Palestina si sentono svincolati da oggi da tutti gli accordi e le intese con gli Usa e Israele e da tutti gli obblighi che da essi derivano, compresi quelli di sicurezza” ha detto Abu Mazen richiamando così Israele “ad assumersi i propri obblighi in quanto potenza occupante con tutte le conseguenze e le ripercussioni basate sul diritto internazionale e umanitario, in particolare la Quarta Convenzione di Ginevra”. Chiaro il riferimento alla responsabilità per “la sicurezza della popolazione civile nei territori occupati e delle sue proprietà, il divieto di punizioni collettive, del furto di risorse, dell’annessione di terra e di trasferimenti di popolazione dall’occupante agli occupati, che costituiscono gravi violazioni e crimini di guerra”. Dichiarazioni non nuove per il presidente palestinese che già in un altro paio di occasioni aveva minacciato questa intenzione. L’ultima il 22 aprile, nel corso del discorso tenuto in occasione dell’inizio del Ramadan: “Non staremo a guardare se Israele dichiarerà l’annessione di qualsiasi parte delle nostre terre e considereremo nulli tutti gli accordi e le intese tra noi e questi governi, sulla base delle relative decisioni dei Consigli nazionali e centrali”. E ancora prima, a fine gennaio, alla riunione straordinaria convocata dalla Lega Araba al Cairo, in seguito alla presentazione del Piano di Trump per la pace in Medio Oriente. In quella occasione affermò: “Non accetterò l’annessione di Gerusalemme e non voglio passare alla storia come colui che ha venduto Gerusalemme”, aggiungendo che l’Autorità nazionale palestinese, “non accetterà mai gli Usa come unico mediatore al tavolo dei negoziati con Israele”.

Gershon Baskin

E davanti alla forte volontà di Israele di annettersi parti del territorio occupato della Cisgiordania e alla reazione palestinese di svincolarsi da ogni accordo e intesa con Usa e Israele, la soluzione al conflitto israelo-palestinese, denominata “Due Popoli, Due Stati”, sostenuta dalla comunità internazionale, Santa Sede in testa, sembra oramai tramontata. Ad esserne convinto è Gershon Baskin, co-presidente fondatore di Ipcri, Israel Palestine Center for Research and Information, editorialista di The Jerusalem Post. Tra i suoi incarichi anche quello di consulente esterno del defunto primo ministro Yitzhak Rabin per il processo di pace, negoziatore per il rilascio del militare israeliano Gilad Shalit, e direttore dell’Istituto per l’educazione alla coesistenza ebraico-araba.

“Se l’annessione verrà effettivamente attuata – dice al Sir – sarà il segnale della morte formale della soluzione ‘Due Popoli, Due Stati’. Se poi queusta includerà la Valle del Giordano, allora metterà a rischio anche il trattato di pace tra Israele e Giordania. Israele – rimarca Baskin – ha goduto dell’impunità virtuale della comunità internazionale che non è stata in grado di impedire allo stato ebraico di portare avanti l’occupazione, di espandere i suoi insediamenti violando i diritti umani e nazionali dei palestinesi e ora incapace di impedire l’annessione”.

Come giudica la decisione di Abu Mazen di decretare la fine degli accordi con Israele e Usa?
Abu Mazen, l’uomo che ha firmato gli accordi di Oslo insieme a Shimon Peres, ha posto fine all’illusione che il processo di pace di Oslo fosse ancora vivo. Nonostante analoghe minacce espresse in passato, questa volta la cosa pare più grave. Nel suo discorso Abu Mazen ha parlato continuamente di Stato palestinese occupato e di Israele come Stato occupante. Abu Mazen ha ragione nell’usare la terminologia ‘Stato occupato della Palestina’. Lo Stato di Palestina è stato riconosciuto dall’Onu come ‘Stato osservatore non membro’. Ciò significa che può firmare convenzioni e aderire a organizzazioni internazionali. Lo Stato di Palestina ha il diritto legale e l’obbligo, nei confronti del suo popolo, di essere un membro attivo e pieno della comunità internazionale, e ciò comporta anche il ricorso al Tribunale penale internazionale secondo la Convenzione di Roma. Quindi il governo dello Stato di Palestina può continuare a esistere e ‘sfidare’ Israele che sta violando il diritto internazionale occupando un altro Stato.

Abu Mazen può e dovrebbe sciogliere l’Autorità nazionale palestinese (Anp)

che è stata creata dall’accordo di Oslo e che doveva esistere per 5 anni fino alla fine del 1999. L’Anp può essere affidata alla storia e non esistere più. Né Israele né l’ex Autorità palestinese possono essere obbligati a mantenere relazioni secondo un accordo scaduto da molto tempo.

Con Oslo muore anche la soluzione “Due Popoli, Due Stati”. Quali sono le ragioni di questo fallimento?
Il fallimento del processo di pace deriva dal fallimento di entrambe le parti, Israele e Palestina, nell’attuare gli obblighi assunti nell’ambito degli accordi che hanno redatto e firmato.

Le violazioni palestinesi vedono l’uso della violenza e del terrorismo mentre le principali violazioni di Israele risiedono nel mancato ritiro dai territori palestinesi impedendo allo Stato palestinese di nascere.

Entrambi i popoli hanno perso fiducia nel processo di pace man mano che la violenza continuava e si radicava. Gli Usa, poi, hanno monopolizzato il processo di pace promosso dalla comunità internazionale agendo come i peggiori mediatori possibili, senza mai essere negoziatori neutrali e imparziali e senza esercitare una vera pressione sulle parti perché si attenessero agli accordi raggiunti.

Se la soluzione “Due Popoli, Due Stati” non è più sostenibile quali prospettive potrebbero realisticamente aprirsi?
Credo che la soluzione dei Due stati non sia più praticabile. Potrebbe non esserci alcuna soluzione. Ma questo è il momento di iniziare a pensare a ciò che verrà dopo, a un nuovo orizzonte.

Magari a quella soluzione a “Uno Stato” di cui ha parlato anche recentemente in alcuni suoi articoli?
Come detto più volte, non posso certo dichiarare di essere un sostenitore della cosiddetta ‘Soluzione a uno Stato”. Sto solo valutando che probabilmente è troppo tardi, in questo momento, trasformare in realtà una soluzione a due Stati. È tempo di lavorare a qualcosa di completamente nuovo.

Israeliani e palestinesi insieme?

Credo sia giunto il tempo per israeliani, palestinesi e altri di riunirsi seriamente per iniziare a sviluppare dei piani utili a trasformare la nostra realtà in una che sia accettabile e sostenibile, basata su uguaglianza e libertà di movimento, e rappresentativa delle nostre diverse identità. Abbiamo due popoli, più o meno di dimensioni uguali, con quantità di potere molto sproporzionate, entrambi legati alla stessa area geografica di cui rivendicano la proprietà, negando entrambi i diritti e l’esistenza dell’altro.

La sfida è enorme…
Enorme: si tratta di approfondire questioni relative allo status di residenza, alla cittadinanza, alla governance, sviluppare meccanismi che ci permettano di esprimere le nostre diverse identità e sviluppare istituzioni nazionali basate sull’uguaglianza e su un governo comune.

È la sfida dell’integrazione sociale, politica, economica, della riparazione delle ingiustizie.

Vi sono importanti esempi di transizione da conflitti etnici-religiosi-razziali a sviluppi pacifici da cui possiamo imparare. Penso al Sudafrica, all’Irlanda del Nord, al Ruanda, alla Bosnia: tutti possono fornirci insegnamenti da rileggere attraverso la lente del nostro conflitto.

Fonte: www.agensir.it/ – 21/5/2020


Hassan Diab, Primo Ministro del Libano

IL LIBANO SULL’ORLO DEL COLLASSO ECONOMICO

di Filippo sardella, Istituto Analisi Relazioni Internazionali

Il primo ministro libanese ha annunciato la lotta alla corruzione, considerata una misura necessaria per la sopravvivenza del Paese. Ma quest’ultima è possibile attraverso il ripensamento dell’intera classe politica.

La situazione economica libanese continua a deteriorarsi. La lira libanese ha raggiunto i suoi minimi storici, perdendo all’incirca il 70% del suo valore dall’inizio delle proteste nell’ottobre del 2019.
Le misure di lockdown, adottate per fronteggiare la pandemia, hanno debilitato una situazione economica estremamente fragile. Ciò sta determinando la scomparsa della classe media libanese e sta contribuendo ad una progressiva polarizzazione della società. Secondo le stime della Banca Mondiale, effettuate a novembre, i tassi di povertà sarebbero aumentati dal 30% al 50%, ma ci si aspetta un ulteriore aumento. Attraverso l’utilizzo di un linguaggio bellico, ormai di moda negli ultimi tempi, usato, per l’appunto, anche per “narrare” l’emergenza di Covid-19, il premier Hassan Diab ha dichiarato “guerra alla corruzione” ed ha avvertito i cittadini che la battaglia sarà lunga e dura, poiché “la corruzione è diventata più forte dello Stato stesso”. Battaglia sostenuta anche dal Presidente Michel Aoun, che identifica, nella lotta alla corruzione,  il primo step necessario per salvare il futuro del Paese.

Nel frattempo, l’inflazione sale e le proteste si fanno più violente. Le banche sono diventate i simboli da distruggere dai manifestanti. Il settore bancario, a lungo considerato l’emblema di un Paese conosciuto come “la Svizzera del Medio Oriente”, ora è percepito come il responsabile delle fallimentari politiche economiche implementate dalla fine del conflitto civile, e che hanno portato alla situazione attuale. Dipendente dalle importazioni, la produzione locale non è stata incentivata a sufficienza, con la conseguenza che il Paese dei Cedri importa la gran parte delle risorse alimentari. A causa della scarsità di dollari, tuttavia, ora si teme una grave crisi alimentare. Le parole di Diab non sono credibili perché la corruzione è parte integrante dell’attuale sistema politico libanese e, senza un cambiamento radicale dell’intera classe politica, è difficile sperare in un miglioramento della crisi. Senza interventi tempestivi, le proteste potrebbero radicalizzarsi e potrebbero minare alla resilienza del Libano, la capacità di sopravvivere a numerose tensioni interne ed esterne.


Libano, se anche Hezbollah cambia idea sul Fondo monetario internazionale.

di Filippo Sardella, Istituto Analisi Relazioni Internazionali

Che la crisi economica fosse una minaccia in procinto di concretizzarsi era a Beirut argomento di discussioni da anni.
Che avrebbe spinto Hezbollah, movimento sciita paramilitare che in Libano è anche partito politico e un vero e proprio Stato nello Stato, a ricredersi sull’aiuto degli istituti finanziari internazionali è invece stata una sorpresa.

Le proteste che dallo scorso ottobre denunciano corruzione e malaffare all’interno della classe politica – e che hanno portato il governo Hariri alle dimissioni – sono, infatti, solo la punta dell’iceberg di una ferita profonda nell’economia libanese. La lira locale ha perso negli ultimi tre mesi più della metà del suo valore, i tassi di occupazione toccano il fondo, il sistema bancario vicino al collasso.Problemi strutturali, che con le conseguenze dell’emergenza sanitaria hanno raggiunto il loro picco, e fatto tornare sui propri passi i vertici del Partito di Dio

“Non accetteremo la sottomissione a strumenti imperialisti”, tuonava a fine febbraio Sheik Naim Qassem, dirigente di spicco di Hezbollah, rivolgendosi in particolar modo al Fondo Monetario Internazionale. Circa due mesi dopo, a fine aprile, il governo libanese approvava un piano di salvataggio che scongiurerebbe il fallimento costituito in gran parte da investimenti esteri: 10 miliardi di dollari proprio dall’FMI, e 11 miliardi di dollari da altri donatori internazionali.La settimana scorsa, inoltre, il Parlamento di Beirut ha ratificato un pacchetto di aiuti da oltre 300 milioni di dollari per sostenere le famiglie a basso reddito colpite dagli effetti della pandemia.Manovre imponenti, che richiedono delicate riforme, che richiedono unità politica.

Le condizioni tragiche che interessano ampie fasce di popolazione libanese, in particolare nel sud del paese – dove Hezbollah è storicamente un attore sociale di primo piano – hanno probabilmente convinto quest’ultimo ha convergere verso l’unità d’intenti, e intavolare un dialogo anche con il malvisto Fondo Monetario Internazionale.
I colloqui fra le parti, iniziati nella seconda metà di maggio e – a detta di entrambi – accolti positivamente, rivelano non solo risvolti economici, ma anche geopolitici.

L’Iran, potenza sciita della regione da cui Hezbollah è fortemente influenzata (e finanziata), ha chiesto per la prima volta della nascita della Repubblica Islamica un prestito all’FMI nello scorso marzo.
La scelta di Teheran, che ancor prima dell’Italia ha dovuto affrontare un preoccupante alto numero di contagi all’interno del paese, è stata dirimente per la successiva scelta del movimento libanese, che è dovuto scendere a patti con le richieste del Fondo Monetario.
L’FMI avrebbe infatti domandato con fermezza all’esecutivo di Beirut un più severo controllo dei propri confini, sia terrestri che marittimi.

Sotto i riflettori dell’organizzazione internazionale vi sarebbero in particolar modo i traffici illeciti fra la terra dei cedri e la Siria, dove – dall’inizio del conflitto nel 2011 a oggi – è aumentato esponenzialmente il contrabbando non solo di generi di prima necessità, ma anche di valuta estera.

Il Fondo Monetario Internazionale, da sempre influenzato dalle politiche degli Stati Uniti d’America, potrebbe essere strumento per Washington di rinnovato protagonismo nel Vicino Oriente. Il Libano, la sua crisi, e Hezbollah – che proprio da Washington è classificata come organizzazione terroristica – potrebbero esserne punto di partenza.

Giugno 2020


al-Sarraj e Erdogan

Libia, l’ombra di Erdogan

di Filippo Sardella, Istituto Analisi Relazioni Internazionali

Il sito Tunisie numerique ha dichiarato che sono stati recuperati 34 corpi, dalla Marina tunisina al largo delle isole Kerkennah, in seguito al naufragio, avvenuto nella notte tra il 4 e il 5 giugno, del barcone partito da Sfax con a bordo 53 persone, anche se al momento non si si conosce con certezza il numero esatto delle persone a bordo. I corpi finora ritrovati appartengono a 22 donne, di cui una in gravidanza, 9 uomini e 3 bambini, tutti provenienti dall’Africa sub-sahariana. Tra le vittime anche un cittadino originario di Sfax alla guida del peschereccio. La Marina militare, la Guardia costiera e la protezione civile, in queste ore sono ancora a lavoro alla ricerca dei dispersi.

Secondo quanto dichiarato da Ben Amor, del Forum tunisino per i diritti economici e sociali (Ftes) dalla fine del lockdown la guardia costiera ha bloccato 1243 persone nel tentativo di raggiungere le coste italiane, anche in questo caso la maggior parte delle persone fermate erano originarie dell’Africa sub-sahariana. La tragedia, avvenuta a poche miglia dalla costa tunisina, pone l’attenzione sul fenomeno dei migranti subsahariani e delle migrazioni intra-africane.

Ogni anno dall’Africa sub-sahariana, infatti, partono migliaia di persone. La destinazione, tuttavia, non è solo l’Europa, in realtà buona parte del fenomeno coinvolge lo stesso continente. Secondo i dati del 2018, dei 27 milioni originari dell’area sub-sahariana, solo 8milioni hanno lasciato l’Africa. I restanti si sono distribuiti in Sudafrica, Costa d’Avorio, e nei Paesi nordafricani, come Tunisia, Egitto, Marocco e Algeria. Un aspetto che forse può sorprendere è la profonda ostilità dei Paesi di destinazione nei confronti di quelli che spesso sono vicini di casa.

In Egitto, secondo l’UNHCR, negli ultimi anni le condizioni dei migranti sono peggiorate.  La maggior parte degli immigrati vive in quartieri isolati e poveri, vengono sfruttati nei negozi con salari molto bassi e sono spesso vittime di abusi. Sono le donne a pagare il prezzo più alto, costrette a subire, sul posto di lavoro, violenze sessuali e continue denigrazioni. Le scuole inolte sono un vero e proprio miraggio, in quanto aperte solo agli immigrati provenienti dal mondo arabo. La situazione non migliora se si osserva ad esempio l’Algeria. Anche in questo caso l’UNHCR ha evidenziato la situazione critica dei cittadini subsahariani che spesso vengono fermati al confine, espulsi ed abbandonati nel deserto privi di acqua e viveri per sopravvivere.

Il Marocco, nonostante abbia più volte manifestato la volontà di investire nell’integrazione, non è in grado di fornire risposte soddisfacenti. Secondo Mehdi Aliou, fondatore del gruppo antirazzista Gadem, la maggior parte della comunità sub-sahariana lavora nel settore informale ed è inesistente per le istituzioni. Quello che emerge è un fenomeno di discriminazione e ostilità che non può essere ignorato a lungo. I migranti subsahariani, spesso costretti ad abbandonare i loro territori, oggetto di frammentazioni e tensioni ormai strutturali, si trovano schiacciati tra le ostilità degli stessi africani e le politiche migratorie dell’UE. In questi anni la cooperazione tra il Nordafrica e l’Unione europea si è incentrata, nei fatti più sul tentativo di frenare i flussi che nel trovare una soluzione, trasformando  i migranti in merce di scambio senza nessun rispetto dei loro diritti.

11/6/2020


Lo strano gioco italiano in Egitto

di Filippo Sardella, Istituto Analisi Relazioni Internazionali

Il caso Regeni non arresta le relazioni economiche tra Roma e Il Cairo. Al contrario, l’Egitto è il primo acquirente delle armi italiane ed un nuovo accordo, che potrebbe valere 9 miliardi, rafforza la cooperazione. Tra difesa dei diritti umani ed interessi economici, l’Italia ha, in modo forte e chiara, scelto la seconda opzione.

Le relazioni economiche tra Egitto e Italia procedono a gonfie vele. Nonostante il caso Regeni e nonostante la detenzione di Patrick Zaky. Nei giorni scorsi, il governo italiano, in seguito ad una telefonata tra il premier Conte ed il presidente egiziano Al-Sisi, ha dato il via libera per la vendita di due fregate FREMM dal valore di 1,2 miliardi di euro, le prime due delle quattro previste.  La vendita delle navi italiane è solo il primo atto di un accordo che prevede la vendita di armamenti per 9 miliardi di euro, confermando il ruolo italiano quale maggior partner commerciale per l’Egitto nell’export militare.  Inizialmente, l’uccisione del ricercatore italiano, Giulio Regeni influenzò, in maniera negativa, le relazioni tra i due Paesi, con il ritiro dell’ambasciatore in Egitto e un breve congelamento delle relazioni diplomatiche. Ma, nonostante la mancanza di cooperazione delle autorità egiziane nelle indagini e la sistematica violazione dei diritti umani da parte del regime di Al-Sisi, gli affari tra Italia ed Egitto non solo non si sono interrotti, ma sono addirittura migliorati negli ultimi quattro anni.

Certamente, l’Egitto è un partner strategico nel Mediterraneo Orientale. È di fondamentale importanza per l’ENI e per il mercato di gas naturale, in particolar modo dopo la scoperta di Zohr, il più grande giacimento di gas mai rinvenuto in Egitto e una delle maggiori a livello mondiale. Inoltre, appare essenziale nella gestione della crisi migratoria, dal momento che impedisce a molti migranti di giungere sulle coste italiane. L’alleanza con Al-Sisi, pertanto, appare ottimale su molteplici fronti, eccetto che quello sui diritti umani.

Il Presidente della Camera, Roberto Fico, nel discorso di commemorazione della scomparsa dello studente italiano, il 25 gennaio, aveva proclamato solennemente che “il 2020 sarebbe stato l’anno della verità, l’anno di Giulio Regeni”.Tuttavia, alla luce del rafforzamento delle relazioni tra Egitto ed Italia, è ormai chiaro che la “Verità per Giulio Regeni”non costituisce una priorità nell’agenda italiana. Intanto, la situazione appare critica anche per Patrick Zaky, detenuto da quattro mesi nel carcere di massima sicurezza di Tora e ancora in attesa di un’udienza, rinviata di continuo. Data la direzione della politica estera italiana, appare improbabile un maggior impegno del governo, nonostante le promesse reiterate.

12 giugno 2020